martedì 6 novembre 2018

Il Fatto 6.11.18
Panebianco si scorda la Carta, noi no
di Tomaso Montanari


Angelo Panebianco è un professore ordinario di Sistemi comparati internazionali che ignora “l’effettivo funzionamento degli altri ordinamenti costituzionali, da lui chiamati a testimoniare della bontà delle riforme tanto desiderate (non si ripeterà mai abbastanza che in nessuna democrazia costituzionale il ‘manovratore’ è libero di agire indisturbato)” (lo ha notato Francesco Pallante sul manifesto). Ed è un liberale che ha giustificato l’uso della tortura per combattere il terrorismo. Basterebbe questo a sconsigliare di rispondere allo sgangherato editoriale del Corriere della Sera con cui egli si è chiesto dove siano finiti i “difensori tutti di un pezzo della Costituzione italiana” di fronte a quelli che egli, settatore della riforma Renzi-Boschi, giudica attacchi gravissimi alla Carta, e cioè le dichiarazioni dei “capi (quelli veri, Casaleggio e Grillo) del partito più forte, i 5Stelle (che), hanno manifestato il proposito di rottamare il Parlamento e attaccato i poteri del capo dello Stato”. Se invece vale la pena di rispondere, è per l’entusiasmo che il pezzo di Panebianco ha suscitato nel Pd renziano (in testa la Boschi, corsa a esaltare via Twitter il professore “controcorrente”) e nel villaggio fantapolitico animato da Claudio Cerasa.
Se Panebianco, e la Boschi e Cerasa, fossero in buona fede, dovrebbero essere grati a chi, argomentando contro il rafforzamento del potere esecutivo, ha impedito che quel potere fosse oggi in mano a quei 5Stelle che essi vedono come un pericolo per la democrazia.
Se fossero in buona fede dovrebbero riconoscere che i disprezzati difensori della Costituzione non hanno taciuto di fronte al raffreddamento dell’amore dei 5Stelle per la Costituzione. Sia chiaro: non essendo posseduti dal furore ideologico che ottunde il liberalissimo professor Panebianco, sappiamo vedere la differenza tra uno stravolgimento costituzionale approvato dalle due Camere e alcune (pessime) dichiarazioni in libertà. Ma moltissimi e continui sono stati i documenti, i seminari, gli appelli intorno a ogni allontanamento dalla Carta: a partire dalle parole con cui Gustavo Zagrebelsky ha argomentato, sulle pagine di Repubblica, circa l’incostituzionalità del Contratto di governo. Chi scrive ha recentemente stigmatizzato “l’antiparlamentarismo militante come tratto più evidente della retorica di Di Maio e compagni. L’identificazione del Parlamento con la ‘casta’, l’annunciata riduzione dei parlamentari (contraddittoria con gli ideali di democrazia diretta, visto che allenta e annacqua ancora il nesso rappresentante-rappresentati) e soprattutto la dichiarata volontà di andare verso il vincolo di mandato e la prospettiva di un referendum propositivo senza quorum, del tutto indifferente agli equilibri della democrazia”. E, ancora, una prassi di governo che “si nutre di decretazione d’urgenza esattamente come prima”. Sono parole apparse sul sito di questo giornale: il Fatto ha sempre accolto le prese di posizione di Libertà e Giustizia e del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale su questi e altri punti critici del rapporto tra 5Stelle e Costituzione. Non così il giornale di Panebianco, i cui lettori apprendono che esiste questo fronte di opinione solo quando un “autorevole” editorialista decide di criticarne il presunto silenzio: come ha chiosato ancora Pallante, se il Corriere della Sera offrisse “le sue colonne a un esponente dell’ex Comitato del No, quel che scriverebbe sarebbe una sorpresa per tutti, a partire dai suoi prestigiosi editorialisti”.
Ma Panebianco e i suoi estimatori non sono in buona fede. Il Corriere è attentissimo a non attaccare la Lega, da anni perno del sistema di potere lombardo: a domenica risale l’ennesima intervista genuflessa a Matteo Salvini. Questo è il punto: la vera eversione costituzionale, questo governo la sta attuando contro la “parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire, della Costituzione, (che) non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica” (Calamandrei). Questo attacco è la politica di Salvini contro i migranti, e contro i diritti, le libertà e le dignità costituzionali: una politica su cui Panebianco e i suoi estimatori non dicono nulla, perché la approvano. Non per caso il Foglio propone ora un’alleanza tra Pd e Lega in chiave antigrillina, estendendo quella convergenza di fatto che si registra su questioni cruciali come quella del Tav. Al contrario, è la sudditanza del Movimento 5 Stelle a questo attacco frontale e sostanziale della Lega al progetto della Costituzione che preoccupa i difensori della Carta. Dunque Panebianco si rassicuri: siamo sempre qua, dall’altra parte della barricata.

Il Fatto 6.11.18
“Reddito minimo, guardate l’Egitto per evitare errori”
Intervista a Philippe Van Parijs. I consigli del più famoso sostenitore dell’intervento universale a favore di poveri: “Non diventi una trappola della dipendenza ”
di Stefano Feltri  


“La priorità è togliere i poveri dalla strada”. Philippe Van Parijs, 67 anni, belga, economista e filosofo, è professore emerito all’Università di Louvain. È il più noto sostenitore dell’idea di un reddito di base, versione estesa del reddito di cittadinanza (perché senza condizioni abbinate). Ha avuto contatti con Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle nella fase iniziale dell’elaborazione di quella proposta che ora è la priorità assoluta per la parte pentastellata del governo.
Professor Van Parijs, che idea si è fatto del progetto di reddito di cittadinanza versione Cinque Stelle?
Sta diventando una forma di assistenza sociale tradizionale. Un aiuto pubblico che sostituisce quello privato, della carità, ai poveri. Ma non è il reddito di base senza vincoli di cui parlava Beppe Grillo come reazione alla crescente disuguaglianza.
La sua doppia natura – assistenza ai poveri e politica attiva per i disoccupati – può reggere?
Ci sono zone d’Italia in cui il lavoro non c’è, introdurre lì l’obbligo di cercarlo è inutile. Costerebbe meno creare il lavoro a spese dello Stato che costruire una macchina burocratica che costringe a inseguire posti che non esistono.
Almeno ci sarà la garanzia che nessuno abbia un reddito inferiore a 780 euro.
È un livello molto elevato. Nelle Regioni dove la situazione economica non è molto dinamica, è difficilissimo trovare un lavoro che paghi al netto delle imposte più di 780 euro. E così l’impatto di un sussidio assistenziale può creare una trappola della dipendenza, facendo sparire i lavori a tempo parziale e compenso modesto per le persone poco qualificate. Ma il vero problema sono i liberi professionisti.
Perché proprio i liberi professionisti?
Se sono un libero professionista e, dopo aver pagato le spese, le tasse e i contributi, mi restano in tasca 700 euro netti, mi basta smettere di fatturare per avere diritto a ottenerne invece 780. Nessuno può costringere un lavoratore autonomo a cercarsi clienti. E se nella mia zona non ci sono offerte di lavoro adeguate, posso continuare così per anni. Senza lavorare o lavorando in nero.
Meglio erogare somme più basse?
Io sono a favore di un reddito di base di importo inferiore ma davvero universale, costruito in modo che non incentivi la dipendenza.
Quali consigli darebbe ai Cinque Stelle?
Il Reddito di inclusione del governo Gentiloni è un buon punto di partenza. Bisognerebbe intanto aumentare l’importo erogato e andare nella direzione dell’universalità allargando gli esoneri fiscali, costruendo uno zoccolo duro di sussidi per tutta la popolazione attiva. L’importo pagato dovrebbe essere abbastanza basso da non rendere realistico pensare di vivere di quello tutta la vita. A quello poi andrebbero sommati sussidi aggiuntivi per specifici problemi che evitino il rischio di scivolare in povertà: assicurazione sul lavoro, sostegno per l’alloggio, ecc. Il governo dovrebbe studiare attentamente quello che sta succedendo in Egitto.
Perché l’Egitto?
Perché lì c’è un dibattito importante in corso. Finora c’era un forte sussidio all’energia fossile, assurdo e iniquo perché premiava soprattutto i grandi consumatori. Il governo attuale ha deciso di sopprimere gradualmente questi sussidi, determinando però un aumento del costo della vita che ai più poveri deve essere compensato. Il metodo più indicato è quello dei trasferimenti condizionati di contanti: schemi di assistenza sociale con condizioni che richiedono la presenza a scuola per i minori e controlli sanitari e così via. La grande difficoltà in situazioni con una vasta economia informale è quella di identificare i poveri: si rischia di creare un sistema arbitrario e con molto clientelismo e con controlli poco efficaci, quindi è meglio un sussidio universale modesto ma non condizionato.
Come può essere difficile capire chi è povero?
Nei Paesi poco sviluppati con una vasta economia informale risulta molto complicato stimare le reali disponibilità di chi ha sempre avuto una vita lavorativa in nero. L’Italia non è l’Egitto, ma molte zone del Paese, soprattutto al Sud, pongono gli stessi problemi.
Come spiegherebbe a un elettore della Lega la necessità di un reddito minimo?
La lotta contro la povertà è un investimento, perché meno povertà vuol dire un capitale umano più solido e una maggiore crescita economica di cui tutti beneficiano, anche gli elettori leghisti.

Cancellato il diritto d’asilo
La Stampa 6.11.18
“Respingete i migranti in Croazia”
L’ordine che imbarazza la Slovenia
I poliziotti di Lubiana che sorvegliano il confine non accettano più i richiedenti asilo
di Mauro Manzin


Cancellato il diritto d’asilo. È quanto sta avvenendo in queste ore al confine tra la Slovenia e la Croazia. I poliziotti di Lubiana, che operano di pattuglia lungo il filo spinato anti-migranti, hanno avuto l’ordine in una circolare interna, mai resa di pubblico dominio ma scoperta dal quotidiano Dnevnik, di respingere i rifugiati al di là del confine e cioè in Croazia. E il garante dei diritti dell’uomo sloveno Vlasta Nussdorfer spiega che si tratta di un comportamento che viola le leggi internazionali.
Pistole e machete
Ma c’è di più. Una troupe della Tv di Stato ha filmato una pattuglia di agenti che bloccava a pistole spianate un gruppo di immigrati tra cui c’erano anche dei bambini. Il comandante locale della polizia ha dichiarato che l’approccio è assolutamente normale. Il sottosegretario agli Interni Sandi Čurin ha sostenuto davanti alle telecamere che i poliziotti spianano le pistole dal 2016 quando un collega è stato ucciso da un migrante con un machete. Dichiarazione poi smentita dallo stesso ministero dell’Interno, che ha precisato che non si trattava di un profugo, bensì di un cittadino tedesco armato di un coltello.
La regola per gli agenti di confine, anche se si trovano a far parte di una pattuglia mista croato-slovena, è rispedire i rifugiati in Croazia nonostante l’intercettazione degli stessi sia avvenuta in territorio sloveno e anche se questi hanno chiesto diritto d’asilo. Un comportamento che secondo l’Ufficio del garante dei diritti dell’uomo lede l’articolo 36 della tutela internazionale, valido dal 1945.
Lo scaricabarile
La polizia croata ha dichiarato di non essere a conoscenza dell’ordine ricevuto dagli agenti sloveni di rimandare sistematicamente tutti i migranti indietro.
L’ex sottosegretario agli Interni con delega all’immigrazione Boštjan Šefic aveva sostenuto che si tratta di situazioni particolari che si possono svolgere anche qualche metro sul territorio sloveno, ma che in questi casi, in base all’accordo con Zagabria del 2004, i rifugiati vanno «restituiti» alla Croazia da cui sono giunti. Leggendo l’accordo però tale fattispecie non è contemplata. Secondo l’accordo i poliziotti al confine «fermano le persone che sono entrate illegalmente in Slovenia e procedono alla loro identificazione. Lo svolgimento di tutte le altre procedure (quindi anche la richiesta di asilo, ndr) è a carico degli organismi del Paese dove i rifugiati sono stati bloccati». E i poliziotti croati possono collaborare a queste azioni dei colleghi sloveni.
Questi ordini sarebbero stati impartiti la scorsa primavera quando il flusso di migranti lungo la rotta balcanica si è accentuato. Risulta poi, in base ai documenti riservati in mano al Dnevnik di Lubiana, che ci fosse una sorta di graduatoria in base alla quale potevano chiedere asilo solo i migranti di alcune nazionalità. Le pattuglie miste quest’anno, fino alla fine di settembre, hanno effettuato 635 missioni di cui 328 sul territorio croato e 307 in territorio sloveno. Ma la Polizia della Slovenia non fornisce i dati di quanti immigrati clandestini siano stati fermati durante queste missioni miste.
La decisione della polizia slovena di respingere tutti gli immigrati viola anche le norme di Schengen e dimostra una volta di più che ciascuno Stato, anche se fa parte dell’Unione europea, leggi Croazia e Slovenia (in area Schengen), si regola sulla questione in base alla propria convenienza. La Slovenia poi ha da sempre fatto intendere di non volere migranti sul suo territorio al punto da istituire subito, nel pieno della crisi lungo la rotta balcanica nel 2015, un sorta di corridoio che trasportava via bus o via treno i rifugiati dal confine con la Croazia a quello con l’Austria a Šentilj a Nord di Maribor.

il manifesto 6.11.18
L’alternanza con il lavoro cambia ma sarà comunque obbligatoria
Legge di bilancio. Cambia l’alternanza scuola-lavoro nella legge di bilancio, ma l’impianto della «Buona Scuola» resta.
di Mario Pierro


Cambia l’alternanza scuola-lavoro nella legge di bilancio, ma l’impianto della «Buona Scuola» resta. Lo ha sostenuto ieri Carmela Palumbo, capo dipartimento per il sistema educativo di Istruzione e formazione del Miur, nell’incontro a Milano intitolato «A scuola di azienda in azienda»: «L’alternanza sarà comunque obbligatori a e curricolare nelle scuole». La legge di bilancio prevede il cambiamento del nome: una volta approvata, l’alternanza porterà il complicato nome, scritto nella lingua della pedagogia neoliberale del capitale umano e del management delle risorse umane: «percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento». «La filosofia rimane quella di valorizzare un’esperienza che fa conoscere il mondo del lavoro e mette il ragazzo alla prova di competenze che la scuola non può curare» ha confermato Palumbo.
DIMINUIRANNO le ore: per gli istituti professionali si passa da 400 ore nel triennio a 180; per i tecnici, da 400 ore a 150; nei licei da 200 ore a 90. In questa cornice va ricordato che, nel giugno scorso, il decreto «milleproroghe» e una circolare del ministero dell’Istruzione ha differito di un anno l’applicazione di un’altra norma importante dell’alternanza scuola lavoro: la sua obbligatorietà ai fini dell’accesso all’esame di maturità.
È PREVISTA la riduzione della spesa di 56,52 milioni di euro sui previsti 97,05 milioni all’anno. «L’obiettivo delle modifiche è puntare sulla qualità, riducendo l’obbligatorietà di un monte ore molto elevato, per far si che le scuole e le aziende si possano concentrare sulla qualità dei percorsi e sul loro carattere orientativo rispetto al futuro lavorativo o di studio» ha detto Palumbo. Il restyling porterà il Miur a emanare le nuove «linee guida» dell’alternanza scuola lavoro «in tempi rapidi», ma comunque dopo l’approvazione della manovra a Natale.
IL TAGLIO DELLE RISORSE ha prodotto la preoccupazione anche di Andrea Marchetti dell’Associazione nazionale presidi secondo il quale «i finanziamenti per queste attività servono».

il manifesto 6.11.18
Sgombero del liceo Virgilio, gli studenti: «Un’inutile prova di forza»
La staffetta delle occupazioni romane. I ragazzi promettono: «Dopo Mamiani e Virgilio ci saranno altre occupazioni e cortei contro quello che stanno facendo Lega e Movimento 5 Stelle».
di Giansandro Merli


ROMA Gli studenti dello storico liceo romano Virgilio, oltre mille iscritti e una sede imponente in centro, hanno organizzato ieri mattina una conferenza stampa per spiegare il loro punto di vista sullo sgombero subito il giorno precedente. «È stata un’inutile prova di forza della presidenza, che ha deciso di chiedere l’intervento della polizia – dice Sebastiano, che frequenta il quinto anno – Avevamo già comunicato che saremmo usciti lunedì o martedì, pulendo l’edificio e rimettendo tutto a posto».
Quando all’alba di domenica mattina la Digos e alcune decine di agenti di polizia si sono presentati davanti al Virgilio occupato, la maggior parte degli studenti stava ancora dormendo. «Vogliamo parlare con un rappresentante», hanno detto a chi presidiava l’ingresso. In realtà, erano lì per sgomberare. Hanno tentato di forzare la porta, ma alla fine sono stati gli stessi ragazzi ad aprirla: «Volevamo evitare danni alla nostra scuola».
Il blitz si è concluso con l’identificazione di 48 minorenni e di 23 maggiorenni. La risposta allo sgombero non si è fatta attendere. Poche ore dopo 400 studenti si sono riuniti nei pressi del liceo e hanno improvvisato un corteo, avvicinandosi all’ingresso secondario per un’assemblea all’aperto lontano dai blindati fermi davanti al portone principale.
L’occupazione era iniziata domenica 28 ottobre. Di fatto la scuola ha funzionato in autogestione durante una settimana in cui sarebbe rimasta quasi sempre chiusa, tra il nubifragio che lunedì scorso si è abbattuto sulla capitale e il ponte dei morti. Il blocco delle lezioni e della segreteria ha riguardato soltanto due giorni.
«Interrompere le attività didattiche e amministrative è uno degli strumenti della protesta – continua Sebastiano – Ma fa sorridere chi sostiene che l’occupazione sia servita a saltare le lezioni. In questa settimana abbiamo organizzato moltissime attività di autoformazione, studiando insieme e approfondendo temi di attualità politica, durante giorni che sarebbero stati di vacanza. Rimanere a casa sarebbe stato più comodo».
Quella del Virgilio è la seconda tappa di una staffetta di occupazioni «politiche» che gli studenti delle scuole superiori romane stanno organizzando in netta opposizione al governo. Staffetta aperta dal liceo Mamiani, dove la protesta si è conclusa senza l’intervento della polizia e senza alcun problema. «Lo sgombero del Virgilio non fermerà la nostra mobilitazione – dicono gli studenti – Ci saranno nuove occupazioni e altri cortei contro quello che stanno facendo Lega e Movimento 5 Stelle».
Il 16 novembre, intanto, scenderanno di nuovo in piazza le organizzazioni studentesche nazionali, come l’Udu e la Rete della Conoscenza. Dopo le 50 piazze del 12 ottobre scorso, al centro delle manifestazioni tornerà la richiesta di rifinanziamento di scuola e università, questione praticamente assente dall’agenda di governo.

Repubblica 6.11.18
La prof presa a sediate "Nessun genitore mi ha chiesto scusa"
di Franco Vanni


VIMERCATE È ancora dolorante alla spalla. E fa male anche il pensiero di essere stata aggredita dai propri studenti. «Quello che più mi stupisce è che nessuno dei ragazzi di quella terza mi abbia espresso solidarietà. Né lo hanno fatto i loro genitori», dice l’insegnante di italiano che lo scorso 30 ottobre ha denunciato di essere stata colpita dal lancio di sedie da parte degli studenti della classe in cui stava facendo lezione, all’istituto professionale Floriani di Vimercate, provincia di Monza e Brianza. «Devo fare accertamenti medici, non riesco a muovere il braccio — dice la donna, dimessa dall’ospedale di Vimercate con una prognosi di 5 giorni — non so quando potrò tornare a scuola. Non sto bene.
Non ho voglia di parlare di quello che è successo. Ci sono indagini in corso».
Secondo la denuncia della professoressa, raccolta dai carabinieri di Vimercate del capitano Antonio Stanizzi, durante la lezione uno studente avrebbe spento la luce. Altri ragazzi — che l’insegnante non è in grado di identificare, dal momento che era alla lavagna e dava le spalle alla classe — le avrebbero scagliato contro una o due sedie, facendole prendere una botta al braccio.
Il preside Daniele Zanghieri in una lettera aperta si rivolge agli studenti, chiedendo loro di raccontare ciò che hanno visto.
«Fate l’unica cosa giusta possibile: dite la verità su quanto avvenuto, e decidete di cambiare rotta, di intraprendere una strada costruttiva». Ma l’appello è caduto nel vuoto. Durante un consiglio di classe straordinario aperto a studenti e famiglie, nessuno si è fatto avanti per confessare di avere aggredito la professoressa, o indicare i nomi dei compagni responsabili del gesto. Fuori da scuola, gli studenti hanno fornito la loro versione. «Abbiamo fatto un po’ di casino, e nel parapiglia la prof si è presa una spallata — racconta un ragazzo — può essere che abbia urtato contro una sedia, ma nessuno le ha lanciato nulla. I più scatenati erano i soliti due o tre, ma questo non vuol dire che siano loro ad averle fatto male».
Studenti di altre classi millantano imprese simili. «Una volta abbiamo messo in testa a un prof il cestino dell’immondizia», racconta un ragazzo alla fermata dell’autobus. Altri si vantano di avere imbrattato i muri della scuola.
A chiarire cosa è successo la mattina del 30 ottobre dovrà essere l’indagine della procura presso il tribunale per i minorenni, guidata da Ciro Cascone. Ieri dalla stazione dei carabinieri di Vimercate sono passati i genitori di diversi ragazzi. Presto toccherà ai sedicenni essere sentiti dagli investigatori.
Intanto, a partire da questa mattina dovranno sostenere colloqui individuali con il preside, che spera di ottenere il pieno racconto dei fatti che finora è mancato. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha condannato l’aggressione, annunciando di stare «valutando la possibilità di costituirci parte civile in caso di processo penale».
Un’ipotesi in realtà impossibile. Il codice non prevede la costituzione di parte civile nel processo penale minorile.

il manifesto 6.11.18
Referendum Atac, primi grillini si schierano per il No alla liberalizzazione
Domenica al Voto. A cinque giorni dalla consultazione i fronti pro e contro intensificano la campagna
di M. Fr.


Mancano solo cinque giorni al referendum consultivo che a Roma potrebbe decidere le sorti di Atac, l’azienda di trasporto pubblico locale per la quale i Radicali chiedono la liberalizzazione del servizio.
Ieri per la prima volta ha preso posizione un consigliere del M5s, finora silente sulla questione. «Atac Si, Atac No. Diffidate di chi suggerisce la soluzione per il miglioramento del servizio di trasporto pubblico attraverso la privatizzazione. Sono gli stessi che hanno mangiato Atac, e non solo», scrive su facebook Nello Angelucci.
I Radicali invece terranno oggi il «referednum day» con una ventina di tavoli in tutti i quartieri di Roma e decine di volontari impegnati. «L’obiettivo è quello di colmare il gap d’informazione con la forza della militanza, e rispondere con l’attivismo all’immobilismo dell’amministrazione», spiega Simone Sapienza, segretario di Radicali Roma. «Ci sono troppi romani – continua Sapienza – che ancora non sanno di avere la possibilità, anzi il diritto, attraverso il proprio voto il prossimo 11 novembre, di innescare un indispensabile processo di rinnovamento del servizio di trasporto pubblico a Roma, giunto nelle mani di Atac a livelli drammatici e ormai irrecuperabili. Per questo, oltre ai militanti romani, anche altri radicali arrivati da ogni parte d’Italia per il XVII congresso di Radicali Italiani che ieri ha eletto Silvja Manzi nuovo segretario, parteciperanno attivamente ai tavoli e porteranno il loro contributo per mobilitare la cittadinanza». Perché il referendum sia valido serve che votino il 33,3 per cento dei cittadini aventi diritto al voto, pari a circa 650 mila persone.
Sul fronte di chi fa campagna per il No, il comitato «Mejo de no», con molti autisti iscritti al Pd e dunque in aperta polemica con voto del partito a Roma, motiva il proprio voto così: «La liberalizzazione significherebbe sicuramente una riduzione del servizio, già oggi notevolmente compromesso». «Sgombriamo subito il campo dagli equivoci: i fautori del No non sostengono lo status quo – precisa Paolo Berdini, assessore all’Urbanistica della giunta Raggi e adesso presidente del comitato per il no «ABC, Atac bene comune» – . Questa Atac è il risultato del tracollo della malapolitica. Noi chiediamo che la politica faccia un passo indietro».

Il Fatto 6.11.18
Cucchi, nuovo interrogatorio sulle email sparite
Ascoltato in Procura il capitano Tiziano Testarmata, indagato per favoreggiamento: “Sono estraneo”
di Valeria Pacelli


Proseguono le indagini della Procura di Roma su presunte coperture interne all’Arma intorno al caso Cucchi. Anche in tempi più recenti. Ossia nel 2015, quando era già in corso l’indagine che per la prima volta puntava il dito contro i carabinieri: in tre oggi sono a processo per il pestaggio.
Ieri il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il sostituto Giovanni Musarò hanno interrogato il capitano Tiziano Testarmata, l’ufficiale indagato in un nuovo filone d’inchiesta per favoreggiamento.
Per capire la posizione di Testarmata, però, bisogna fare un passo indietro e tornare all’aprile scorso, quando l’appuntato Francesco Di Sano, sentito in aula nel processo in Corte d’assise d’appello, ammette che alcuni verbali redatti nella stazione di Tor Sapienza, dove Cucchi passò una notte dopo l’arresto, erano stati modificati nella parte che riguardava lo stato di salute del detenuto. E tira in mezzo i suoi superiori dell’epoca.
La Procura apre un filone di indagine per falso. Chi punta il dito contro la scala gerarchica è stato poi il comandante della stazione Tor Sapienza Massimiliano Colombo Labriola. Il 18 settembre scorso al pm Giovanni Musarò spiega: “Soligo (il colonnello che comandava la stazione Montesacro-Talenti da cui dipende Tor Sapienza, ndr) mi disse che non andavano bene (le annotazioni, ndr) perché erano troppo particolareggiate e in esse venivano espresse valutazioni medico legali che non competevano ai carabinieri”. Le annotazioni dei due militari di Tor Sapienza – secondo quanto racconta Colombo – vengono inviate la mattina del 27 ottobre 2009 al tenente colonnello Francesco Cavallo, nel 2009 capo dell’ufficio comando del Gruppo Roma. Poco dopo però – sostiene ancora Colombo – Cavallo rinvia i due file modificati con un testo: “Meglio così”. Ed è qui che si innesta un altro filone investigativo. Perché questa email – come racconta il comandante di Tor Sapienza – poteva essere nelle mani della Procura già nel 2015, quando delega il Nucleo investigativo di acquisire gli atti nelle stazioni. Ma tre anni fa, a sua detta, non viene acquisita. Nel “novembre 2015 – dice a verbale Colombo – si presentarono i carabinieri del Nucleo investigativo. (…) Mi resi conto di aver fornito le due annotazioni in entrambe le versioni (originale e modificata) (…) In questa occasione mostrai l’email di Cavallo (…) Il Capitano del Nucleo investigativo quando vide la mail uscì per parlare al telefono, poi rientrò, presero tutto ma non la email”.
In un atto si parla di un accertamento a Tor Sapienza “a cura del capitano Tiziano Testarmata – comandante della 4ª sezione del nucleo investigativo”. Ha dunque mai visto la mail inviata da Cavallo?
Per capire anche questa circostanza ieri Testarmata è stato sentito in Procura. Sul suo verbale si tiene il massimo riserbo: il capitano ha risposto a tutte le domande, dicendosi completamente estraneo alla vicenda.

Repubblica 6.11.18
La svolta di Londra
Scarseggiano le reclute ora l’esercito britannico apre le porte agli stranieri
di Enrico Franceschini


Londra La Gran Bretagna apre le caserme agli stranieri. Anche chi non ha mai vissuto in questo Paese, annuncia il ministero della Difesa, d’ora in poi avrà diritto di arruolarsi nelle sue forze armate, che come quelle di molti altri paesi occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia, sono un esercito professionista e rappresentano dunque in fondo un lavoro come un altro. Naturalmente non tutti potranno qualificarsi per fare il soldato di Sua Maestà: l’offerta è limitata ai cittadini del Commonwealth, l’organizzazione che riunisce, insieme al Regno Unito, le sue ex colonie. Ma sono un bel po’ di gente: due miliardi di persone, quasi un terzo dell’umanità. Significa, in sostanza, che in futuro anche gli inglesi avranno una "legione straniera".
In parte già ce l’avevano, perché due nazionalità potevano vestire l’uniforme britannica anche in passato: i nepalesi, limitatamente al leggendario reggimento dei Gurkha, considerato uno dei reparti di fanteria migliore del mondo; e gli irlandesi, in virtù degli accordi speciali fra Londra e Dublino da quando cent’anni or sono l’Irlanda ha acquisito l’indipendenza. Ma sono sempre stati un’esigua minoranza all’interno delle forze armate. Il motivo per cui il governo ha deciso di aprire l’arruolamento a tutto il Commonwealth è semplice: non ci sono abbastanza nativi disposti a indossare la divisa. Il totale degli effettivi sfiora quota 150 mila, che arrivano a quasi 200 mila includendo i volontari della Riserva, le Guardie di Frontiera e unità ausiliarie. Da quando non c’è più la leva obbligatoria, tuttavia, il numero di uomini e donne sotto le armi è in declino, fenomeno che si è accentuato nell’ultimo decennio, dopo le guerre in Afghanistan e Iraq, in cui la Gran Bretagna ha pagato un alto prezzo di sangue, con centinaia di morti e migliaia di feriti. Nel 2017, per esempio, la British Army aveva 72 mila soldati, 8 mila meno del minimo giudicato necessario. La situazione è simile per la Marina, la Raf e i Royal Marines.
Oltre ai rischi del mestiere, che aumentano quando c’è un conflitto in corso, la paga non è particolarmente buona: oscilla fra 18 mila e 23 mila sterline annue per un soldato semplice, meno del reddito medio nazionale e inferiore a quella di un poliziotto ( sebbene nei corpi speciali, come le celebri Sas, Special Air Services, i commandos dell’esercito, si possa guadagnare fino a 80 mila sterline l’anno). Ma per un cittadino di una nazione emergente, come sono molte delle ex-colonie del British Empire, quei soldi possono risultare più attraenti. Nessuno sembra però avere fatto caso alla contraddizione di fondo: il Regno Unito cerca stranieri per le sue truppe proprio mentre si appresta a uscire dall’Unione europea per fermare l’immigrazione dal continente. Morale: in questo Paese non ci sono abbastanza lavoratori. Civili o militari, non fa differenza.

il manifesto 6.11.18
La rivoluzione ultragalattica
Il romanzo «Proletkult» del collettivo Wu Ming, pubblicato da Einaudi
nell’immagine L.V. Sayanskij, «Soon the Whole World Will Be Ours», 1919
di Giovanna Ferrara


I dieci anni dopo la rivoluzione del 1917, esplorazione di un sogno comune, amarezza di una realtà che non regge al progetto, storia di un dissenso nella frazione bolcesvica, nato ai tempi dell’esilio del 1905, e incarnatosi, dopo la presa del palazzo d’inverno, nel gruppo Proletkult, cui il collettivo Wu Ming dedica un importante romanzo (Proletkult, Einaudi, pp.333, 18,50 euro).
A CONTENDERSI il significato stesso dell’evento-rivoluzione Lenin e Bogdanov. Comuni ai due le mosse iniziali, una rapina colossale per finanziare gli esuli e mantenere acceso il motore dell’insurrezione. Scrivere articoli in una dacia in Finlandia, vita in comune e poi le divisioni.
Lenin non tollerava le speculazioni di Empiriomonismo, dove prima dell’evento veniva la costruzione di una coscienza dell’evento, cui aggiungere il sigillo dato da una scienza dell’organizzazione universale, la tectologhia: processo di organizzazione del dato che dal caos impianta il soggetto collettivo nella dolcezza dell’armonia. Anche il conflitto, ineliminabile, seguiva la stessa traiettoria. Per Bogdanov questo incarnava l’assioma di Rosa Luxembourg: «il marxismo deve sempre lottare per le nuove verità».
A Capri, ospite dello scrittore Gor’kij, negli anni prima del ’17 assieme a Bogdanov c’era anche Lunacarskij, futuro ministro dell’istruzione. A tutti le scoscese a mare, dove sbattono le onde costiere nate da un blu luminescente, regalarono visioni di moltitudini come branchi di pesci, un mondo indistinguibile dalla bellezza. Fondarono la prima scuola per operai, cui partecipò il meccano-filosofo Voloch, che nel romanzo ispira a Bogdanov il libro Stella Rossa, fantavventura di un pianeta socialista (da poco riedito).
NON SOLO PENSARONO a come costruire una cultura proletaria. Si spinsero più in là, arrivando, per il tramite del metodo nietzschiano della trasvalutazione dei valori, a costruire dio dalla potenza del collettivo, il volto dipinto dalla marxista umanità solidale. Ne parlarono anche dopo la scomunica di Lenin, che usò quell’«opportunismo geniale», per azzerare il dissenso interno: era solo idealismo, contrario al materialismo marxista e, per questo, ostacolo alla catena di eventi che doveva portarli nel cuore della Rivoluzione.
Lenin sapeva che fare, la domanda era finzione: la verità oggettiva non la si costruisce assieme, è solo una tavola imbandita, cui bisogna sedere non per un pranzo di gala ma per rovesciare i rapporti di forze e prenderselo quel tavolo. Ma dopo che la rivoluzione ci fu perché diventarono «un partito-esercito, un ceto dirigente autoritario»? È Alexandra Kollontaj, di cui il libro ricorda la tenacia nella così lungimirante battaglia della differenza, a rispondere allo smarrimento di un Bogdanov ormai solo scienziato: «Se pure questo evento imperfetto, non era il risultato che ci aspettavamo, ebbene, va comunque difeso».
DALLA STELLA ROSSA arriva Denni, trova il padre del suo pianeta e gli racconta di come il suo sogno si è fatto prassi: alla lotta con l’ambiente si faceva fronte con l’«Interplanetarismo», nessun confine né terrestre né stellare. «Mamma» e «papà» non erano altro che aggettivi, perché dopo i tre anni si vive tutti assieme. Poiché il linguaggio fissa i concetti «se si parla della vita come fosse una cosa non si potrà rispettarla». Niente padroni, perché le gerarchie sono scomparse nella testa delle persone.
I lavoratori si dirigevano da soli, per avere più tempo e minore specializzazione. Intanto Proletkult, proiezione in terra del «marxismo marziano», finiva con Bogdanov, che applicando alla scienza il suo comunitarismo, sperimentava uno spericolato incrocio di trasfusioni, convinto che il sangue delle persone andasse mischiato per creare un grande noi, vittorioso persino sulla morte.
La scrittura dei Wu Ming riempie la storia di pensieri segreti su come uscire dall’isolamento senza compromettersi con le proprie ortodossie, come non stingersi nella malattia del reducismo. Una dialettica che continua a tracimare dall’esperienza di chi sogna che il pianeta socialista sia proprio questo mondo. E siccome nella testa delle persone torna sempre la tentazione del dominio, forse davvero bisogna capire che «di rivoluzioni non ne basta una, ce ne vogliono cento».

il manifesto 6.11.18
Ottobre russo, una partita a scacchi tra terra e cielo
Letture. «Proletkult»: il romanzo distopico dei Wu Ming sulla Rivoluzione, vista da un «marxista marziano» come Bogdanov e da una giovane aliena
di Girolamo De Michele


Esistono diverse foto che ritraggono Lenin e Bogdanov sfidarsi a scacchi a Capri, nel 1908, alla presenza di Gor’kij, Lunacarskij e altri. Una partita che avrebbe potuto essere – ma non fu – il suggello alla ricomposizione delle divisioni della fazione bolscevica. E che, stando al racconto che ne fanno i Wu Ming nel 14 capitolo di Proletkult, Lenin perse per eccesso di leninismo: per lui la realtà era un dato oggettivo, e la sua conoscenza un atto meccanico e passivo come lo scatto di una fotografia. Già all’epoca una réclame della Kodak diceva: «tu schiacci il pulsante, il resto lo facciamo noi». Il gioco degli scacchi consiste invece nel «vedere lo scacco matto prima dell’avversario, soggettivamente, e poi manovrare per renderlo oggettivo»: qualcosa di molto più affine alla filosofia di Bogdanov. Per il quale la conoscenza è più simile al montaggio di un film, nel quale la stessa scena acquista diversi significati a seconda del suo inserimento.
NON ERA ANCORA ARRIVATO Antonioni a mostrare, con Blow up, che anche la fotografia ha ben poco di oggettivo e passivo. Eppure, nove anni dopo, Lenin fu capace di dare scacco matto allo zar con una mossa che rendeva oggettiva una prefigurazione soggettiva: mentre Bogdanov sosteneva, in nome di una concezione evoluzionistica della rivoluzione, l’appoggio al governo Kerenskij – rimaneva insomma fermo alla fotografia statica della situazione. La rivoluzione è una partita a scacchi? Forse: di certo, in entrambi i giochi agonistici ciò che conta è lo sviluppo futuro: ma anche, e soprattutto, il presente che rende possibile quel futuro. Che lo rende reale – ma al tempo stesso, che nel realizzarlo recide alcuni dei suoi possibili.
DOVEVANO, I WU MING, abbandonare il romanzo storico per narrare la Rivoluzione d’Ottobre: per essere liberi di farlo senza rischiare la caduta nel tribunale della ragione. Narrare la rivoluzione da un duplice punto di vista straniante: quello di Alexandr Bogdanov, «marxista marziano» scomunicato due volte da Lenin, né bolscevico né menscevico, imprigionato dalla Gpu (la dittatura del proletariato non può concedersi l’habeas corpus), scienziato, scrittore di fantascienza, terrorista – un uomo in fuga, come capita di trovarne nei romanzi dei Wu Ming; e quello di Denni, ragazza aliena proveniente dal pianeta Nacun narrato da Bogdanov nel romanzo Stella rossa, ovvero giovane aliena che si è rifugiata in un delirio allucinatorio fondato sulla lettura di quel romanzo. Come dire, l’Usbek di Montesquieu e il Candido di Sciascia nello stesso romanzo, a intrecciare discussioni sulla rivoluzione: ne valeva la pena?
Sì, se si considera che si sono visti posti peggiori. Sì, se, con le parole di Alekandra Kollontaj, si considerano le conquiste delle donne ottenute prendendo il potere: «e anche se il risultato che ottieni non è il meglio che ti aspettavi, lo devi difendere. Se non sei disposto a farlo, tanto vale che non ci provi nemmeno».
PROVARCI, e magari riuscirci, non significa però scattare una fotografia, e fermarsi lì: la vera rivoluzione è quella che accade dentro le teste, e le teste non cambia nello stesso modo. Essere capaci di fare a meno del Piccolo Padre che è dentro di noi. Per questo una rivoluzione non basta: ce ne vorrebbero cento, non in un solo paese ma in tutto l’universo, come afferma Denni, che forse vede l’Urss dall’astro di Nacun, dove la rivoluzione ha già vinto, e forse è una che è evasa dalla realtà. Evadere dalla realtà può essere sbagliato, se il compito è distruggere la prigione: però per farlo bisogna essere capaci di immaginare un mondo senza prigioni, come Denni. E, aggiungerebbe David Foster Wallace, bisogna essere capaci di vederla, la prigione.
PER QUESTO la rivoluzione non può essere giudicata: deve essere narrata, in un dedalo di storie che passano di bocca in bocca, né mie né tue ma nostre, che sono strumenti per conoscere e cambiare il mondo – che sono poi un’unica cosa. Le stelle sono un buon punto di vista: migliore dell’io, il più lurido dei pronomi. Ne vale la pena: per quanto alto sia il prezzo da pagare, non sarà più alto di quello che l’umanità ha pagato in secoli di schiavitù e sfruttamento.

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