Il Fatto 27.11.18
Chi ha paura della Giustizia?
Una
questione aperta - Perché nelle carceri italiane ci sono tantissimi
“poveracci” e pochi colletti bianchi?. Perché le norme, anche in questi
anni, hanno voluto salvare i “potenti” (finendo per fare un favore anche
agli altri delinquenti)
di Roberto Scarpinato
Per
capire come funziona in concreto il sistema di giustizia in un Paese,
non ci si può limitare a esaminare le leggi penali che prevedono i
reati, i codici che disciplinano i processi, l’organizzazione della
magistratura e delle forze di polizia. Esiste infatti uno scarto molto
grande, a volte un abisso, tra legalità formale (law in book) prevista
dalle leggi e legalità reale (law in action).
Nel 2013 è stato
pubblicato un documentato studio del dipartimento dell’Amministrazione
penitenziaria del ministero della Giustizia sulla composizione della
popolazione detenuta in carcere in espiazione definitiva di pena. Da
quello studio risultava che 14.970 detenuti, pari al 50 per cento del
totale, erano stati condannati per violazione della legge sugli
stupefacenti, 6.069 per omicidio, 5.892 per rapina, 2.250 per furto,
2.221 per estorsione, 2.052 per violenza sessuale, 1.954 per
ricettazione e così via per altri reati di strada. Le voci “reati contro
la Pubblica amministrazione” (che comprende i reati di corruzione in
senso lato) e “reati economici” (cioè bancarotte, reati fiscali) non
risultavano quotate per l’irrilevanza statistica delle persone detenute
per tali tipologie di reato.
Per completare il quadro è
interessante comparare la composizione della popolazione carceraria
dell’Italia attuale con quella dell’Italia degli inizi del XX secolo.
Ebbene, nonostante dagli inizi del Novecento ai nostri giorni siano
cambiate più volte le forme dello Stato – con la transizione dalla
monarchia costituzionale al fascismo e poi alla Repubblica – nonostante
il succedersi di eterogenee maggioranze politiche nel corso della storia
repubblicana, permane una costante: in carcere, a espiare
effettivamente la pena, oggi come ieri e l’altro ieri finiscono coloro
che occupano i piani più bassi della piramide sociale. Tenuto conto che
il carcere rappresenta una tra le più rilevanti cartine di tornasole
degli esiti concreti della giurisdizione penale, i dati statistici
sembrerebbero avvalorare l’ipotesi di una straordinaria continuità
storica di un duplice volto della giustizia: debole e inefficiente con i
potenti, forte ed efficiente con gli impotenti.
Nell’Italia
repubblicana, ove la Costituzione ha garantito l’indipendenza della
magistratura dal potere politico e ha consentito la crescita democratica
del Paese, l’impunità dei colletti bianchi si è di fatto realizzata
attraverso meccanismi molto complessi e sofisticati per comprendere i
quali dobbiamo procedere a un censimento dei grandi assenti nella
popolazione carceraria.
Chi non ha paura della giustizia?
I
complici occulti degli stragisti. Mi riferisco ai mandanti politici e ai
complici occulti delle stragi che hanno insanguinato la storia del
nostro Paese.
Ebbene, nonostante gli sforzi profusi, gli esiti di
quasi tutti i processi per stragi sono stati talora fallimentari, talora
molto parziali. (…).
Un’altra categoria di “ingiusti” assente
dalla popolazione carceraria è quella dei corrotti e dei corruttori, i
quali sino a oggi pure non hanno avuto motivo di avere paura della
giustizia. (…) La tangentopoli italiana non si è mai fermata e ha
attraversato il fascismo, la Prima e la Seconda Repubblica giungendo
sino ai nostri giorni. (…)
Nell’Italia pre-repubblicana e
pre-costituzionale, l’impunità veniva assicurata mediante la
subordinazione gerarchica del pubblico ministero al ministro della
Giustizia e il controllo politico sui vertici della magistratura. Nella
cosiddetta Prima Repubblica, l’impunità è stata garantita mediante la
negazione sistematica delle autorizzazioni a procedere, il trasferimento
della competenza sui processi verso uffici giudiziari diretti da
vertici ritenuti affidabili dal sistema politico (restati nella memoria
collettiva con la significativa denominazione di “porti delle nebbie”),
il varo di ben 33 amnistie e indulti, e altri metodi che, per ragioni di
tempo, tralascio. Dopo la breve parentesi storica dei processi di
Tangentopoli dei primi anni Novanta, quando a seguito del collasso del
sistema di potere della cosiddetta Prima Repubblica (conseguente alla
caduta del Muro di Berlino e al mutamento degli equilibri macropolitici
internazionali e nazionali) il principio di uguaglianza dei cittadini
dinanzi alla legge sembrò potersi trasformare da law in book (principio
astratto) in law in action (diritto vivente), il ripristino dello
statuto impunitario dei colletti bianchi è stato attuato, a fronte di un
ordine giudiziario che non appariva condizionabile politicamente o per
le vie gerarchiche, a seguito dell’emanazione di una sequenza di leggi
che hanno pienamente raggiunto l’obiettivo.
Non potendo dilungarmi in una dettagliata esposizione, mi limito a ricordare solo alcuni passaggi strategici.
Nel
luglio del 1997 una maggioranza di centrosinistra, con la convinta
adesione della minoranza di centrodestra, varava una riforma dei reati
contro la Pubblica amministrazione che, per un verso, aboliva il reato
di abuso di ufficio non patrimoniale e, per altro verso, modificava la
disciplina del reato di abuso di ufficio patrimoniale, rendendo
estremamente difficile la prova della sua consumazione. (…)
Negli
anni seguenti venivano approvate poi una serie di leggi che
legalizzavano il conflitto di interessi in settori strategici, creando
un habitat ideale per l’abuso d’ufficio, per la proliferazione della
corruzione, riducendo ulteriormente, anche per tale via, il rischio
penale.
Altra riforma legislativa che ha minimizzato il rischio e
il costo penale per i reati di colletti bianchi, è stata la legge 5
dicembre 2005, n. 251, cosiddetta ex-Cirielli, con la quale è stato
modificato il regime dei tempi di prescrizione dei reati.
Grazie
alla combinazione prescrizione breve/processo lungo, si creava una
micidiale falla di sistema che, come una sorta di triangolo delle
Bermude, inghiotte nei gorghi della prescrizione centinaia di migliaia
di processi ogni anno.
Un’altra categoria di grandi assenti nella
popolazione carceraria italiana è quella dei condannati definitivi per
reati economici e finanziari, bancarottieri e grandi evasori fiscali.
(…)
Per comprendere appieno come si sia determinata l’anomala
composizione della popolazione carceraria rilevata nello studio del Dap
al quale ho accennato all’inizio, nella massima misura composta solo da
soggetti appartenenti alle classi meno abbienti, occorre considerare
che, nello stesso periodo nel quale venivano emanate una serie di leggi
che in modi diversi sortivano l’effetto di evitare il carcere per i
reati dei colletti bianchi, venivano emanate altre leggi che andavano
nella direzione esattamente opposta, elevando le pene previste per i
reati di strada e quelli commessi da immigrati irregolari, introducendo
nuove fattispecie di reato, allungando i tempi di prescrizione per i
reati commessi dalla criminalità comune. (…)
L’illegalità impunita
dei piani alti contribuisce ad alimentare, come in un rapporto di causa
effetto, quella dei piani bassi, dando vita a una spirale perversa
nelle cui volute si perdono giorno dopo giorno la credibilità della
classe politica, la fiducia nelle istituzioni, il sentimento della
coesione sociale, consegnando ciascuno a una perdente solitudine e a una
rabbia impotente che rischia di scaricarsi su capri espiatori offerti
come valvola di sfogo da abili manipolatori.