venerdì 2 novembre 2018

Il Fatto 2.11.18
Il nuovo terrore Atomico di Trump
“Punizione preventiva”. Il presidente americano vuole eliminare qualsiasi possibilità di equilibrio, spaventare i nemici al punto di annullare ogni difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni nucleari
di Fabio Mini


Ci sono diverse ragioni per la rinuncia al Trattato di non proliferazione delle armi nucleari più volte annunciata dal presidente Usa Donald Trump. Ci sono le elezioni di “mezzo termine” che dovrebbero ricompattare i Repubblicani.
Ci sono le pressioni degli “amici“ inglesi, australiani, israeliani, sauditi, egiziani, libici, giapponesi, indiani e subsahariani che soffiano sul fuoco della destabilizzazione regionale per influenzare la politica globale delle grandi potenze. Ci sono i magri risultati della guerra dei dazi. C’è il calo di credibilità internazionale che ha vanificato il ruolo di “potenza benevola” svolto dall’America per oltre mezzo secolo. Ognuna di queste evenienze ha una logica e un percorso risolutivo diverso, ma nell’ottica di Trump tutte dipendono da un solo fattore: il mondo non ha più paura degli Stati Uniti e non crede che essi possano risolvere alcun problema. Per far tornare la sana paura che induce tutti a tacere sulla pace e invocare l’intervento taumaturgico dei carri armati americani ci sono due minacce: il terrorismo globale e la guerra nucleare. Il primo, a lungo attribuito all’Islam, si è attenuato e si è dimostrato più locale che globale. La seconda è la forma suprema di terrorismo internazionale spacciata per deterrenza: l’uso della potenza distruttrice per terrorizzare un avversario al punto di farlo desistere da un attacco.
Un tempo, questa deterrenza si basava sull’equilibrio delle forze che, nel caso nucleare, poteva essere ottenuto anche con una consistente riduzione degli arsenali. L’effetto di 30.000 testate nucleari pronte a partire da una parte e altrettante dall’altra era identico a quello ottenibile con 10 testate ciascuno. Ma la deterrenza basata su un solo ordigno a testa è ottenibile da quasi tutti i Paesi del mondo (vedi Corea del Nord). Quella basata su 10 sarebbe possibile per una ventina di Paesi e quella di 100 ordigni a una decina: un numero ancora troppo elevato che non garantisce agli Stati Uniti e alla Russia l’esclusività della capacità nucleare e aumenta i rischi di banalizzazione dell’uso (come nel caso di India, Pakistan e Israele) o di scoppio accidentale e terrorismo. L’abnorme numero di ordigni era quindi dettato dalla logica di ridurre il numero di detentori di capacità globale e asservire quelli a capacità regionale.
Ciò che Trump vuole oggi è qualcosa di più: eliminare qualsiasi possibilità di equilibrio, terrorizzare al punto di annullare qualsiasi difesa anche legittima. Per questo punta sull’aumento degli ordigni a disposizione e relativi mezzi di lancio (aerei, portaerei, missili, sommergibili, satelliti). Per questo, oltre alla deterrenza e alla dissuasione, pensa alla “punizione preventiva” dei potenziali avversari e all’estorsione nei confronti degli “amici” imponendo l’ombrello nucleare “in affitto” a tutti coloro che non vogliono e non possono dotarsi di tali armamenti. In questo senso, il trattato di non proliferazione siglato da Gorbaciov e Reagan, è un impedimento reale e concreto che va smontato. Anche con le fandonie. Non è affatto vero che il trattato è stato violato dalla Russia, dall’Iran, dalla Corea del Nord o da Israele. I primi due Paesi hanno avviato i progetti di potenziamento o realizzazione di ordigni di fronte alla crescente inaffidabilità statunitense di stare ai patti. La Corea del Nord si è ritirata dal trattato e Israele, India, Pakistan e Sudan del Sud, non l’hanno mai firmato. Non è vero che la maggiore potenza nucleare elimina la proliferazione: in realtà la incrementa, come nel caso dell’Iran che è tornato ai progetti iniziali in risposta alla denuncia dei patti con gli Usa e alla crescente minaccia convenzionale e nucleare d’Israele. E non è vero che una nuova corsa agli armamenti nucleari possa arrestare la proliferazione convenzionale, ridurre i conflitti o risolvere quelli in atto. Anzi, le prossime generazioni dovranno vivere sotto la spada di Damocle nucleare che renderà alcuni meno liberi e altri (compresi gli stessi americani) schiavi della paura e della contrapposta arroganza.
Questa strategia americana non è un parto della mente di Trump. È stata concepita subito dopo l’implosione dell’Unione Sovietica e ha continuato a svilupparsi invocando l’esigenza di sicurezza dal terrorismo, dalla crescente potenza cinese e dal ritorno sulla scena politica internazionale della potenza russa. Ogni pretesto è stato buono per vagheggiare la strategia nucleare all’insegna del “bottone più rosso e più grosso”.
La stessa Nato, con un ammiraglio italiano alla presidenza del Comitato militare, si è prestata a favorire un ritorno alla strategia nucleare non solo degli Usa, ma dell’intera Europa (Francia e Gran Bretagna in testa) inserendo nel Concetto Strategico del 2010 la deterrenza nucleare che soggiaceva alle pretese anti-russe dei “nuovi membri” e riapriva le porte alla ritorsione nucleare sul territorio europeo. Da tempo gli Stati Uniti sapevano che la corsa nucleare, con conseguente aumento delle spese militari, sarebbe stato il più grosso business del nuovo secolo. Dalla prima revisione degli assetti strategici americani del 2001, risultava che i profitti derivanti dalla politica militare erano stagnanti. La lotta al terrorismo ha dato un po’ di ossigeno ma non aveva bisogno di grandi investimenti.
Da trent’anni negli Stati Uniti le spese per il personale militare sono costanti. Sono aumentate le spese (e i ricarichi truffaldini) delle agenzie di contractor. Ma nulla di sostanziale a favore delle grandi industrie. Le spese per la ricerca e lo sviluppo militare sono anch’esse stabilizzate. Si è anzi delineata la crescente dipendenza militare dalla ricerca privata. E così sono diminuiti gli investimenti per i grandi progetti strategici. Le guerre su tutti i fronti hanno infatti aumentato solo le spese per i consumi correnti: uomini (comprese quelle per gli addestramenti intensivi, le indennità per i feriti, i traumatizzati e i superstiti dei caduti), mezzi da combattimento, equipaggiamento, carburanti, missili, munizioni… Il presidente Obama ha provato a correggere questa “anomalia” con la diminuzione dell’impegno bellico e i compromessi politici. Ha ridotto la presenza militare in combattimento privilegiando le azioni singole e isolate (droni, Cia, forze speciali). Così i conflitti sul terreno hanno perso capacità risolutiva, il morale delle truppe è diminuito, la popolarità del presidente è crollata e la credibilità della potenza militare americana è stata gravemente compromessa. Obama si è trovato impantanato in conflitti vecchi e ne ha aperti nuovi altrettanto inconcludenti. Trump vorrebbe recuperare credibilità personale ricorrendo alla forza militare, ma è un gioco pericoloso quanto quello tentato dal suo predecessore.
Nessun presidente americano ha mai pensato a sfruttare la potenza militare se non per gli interessi commerciali, politici e industriali di alcuni gruppi di potere. La stessa casta militare è completamente asservita a tali gruppi e il proposito di riaprire una nuova era di terrore nucleare li trova completamente conniventi. In America e altrove.