Corriere 12.11.18
L’arte del governare una società complessa
di Giuseppe De Rita
Con
l’avvio parlamentare della manovra di bilancio si chiude un periodo
delicato della dialettica politica italiana, dove nell’intreccio fra
impegni programmatici e faticosa decisionalità si sono rivelate due
esplicite fragilità dell’attuale esperienza di governo: una culturale e
l’altra sociale.
La prima fragilità è quella rivelata dalla
differenza fra il tanto che i contendenti hanno annunciato in campagna
elettorale e il poco che essi possono fare una volta giunti al potere;
ed è una fragilità profonda che ha le sue radici nell’annuncio di forte
decisionalità che c’era sotto le promesse elettorali («quando
comanderemo noi, faremo immediatamente quel che vi stiamo promettendo»).
Raccogliere il consenso originato sul contenuto delle promesse è stato
facile, ma l’errore è stato quello di far credere che tutto sarebbe
stato risolto con il cambiamento di chi comanda: errore semplice, ma
drammaticamente contrario al fatto che vincere le elezioni non significa
«andare a comandare».
L’esperienza di decenni, in tutto il mondo,
dimostra che l’automatica corrispondenza fra essere al governo e
esercitare il comando vige solo in sistemi feudali, autoritari,
semplicistici. Governare, nelle società complesse, è invece gestione di
aggiustaggi conti-nuati, per cui se si accetta l’inevitabilità di tale
aggiustamenti ci si deve aspettare che la promessa di esercitare
semplicemente il comando si rivolga al limite contro chi l’ha fatta («ti
abbiamo eletto perché decidessi subito su quel che promettevi, ed ora
ci tradisci?»). Il ritorno alle manifestazioni in strada denota questo
disagio e rende nuda la insana propensione a far coincidere governare e
comandare, propensione peraltro ricorrente nella cultura politica
italiana, che è stata sempre affascinata dal decisionismo e non ha mai
capito che le società moderne vanno governate «accompagnandole» nella
loro dinamica spontanea, senza scorciatoie decisionistiche.
A
questa fragilità culturale si aggiunge una altrettanto pericolosa
fragilità sociopolitica. Chi si trova a governare è sempre destinato
alla solitudine, specialmente in questo periodo travagliato e complesso:
si ritrova infatti in una realtà fatta di mille e mille variabili,
soggetti e comportamenti che sfuggono ad un esercizio sofisticato del
comando e chiedono invece una raffinata capacità di prendere atto dei
fenomeni in corso; di padroneggiare i processi strutturali in cui i
soggetti collettivi si fanno portatori (magari conflittuali) di
interessi e obiettivi comuni; di essere pronti a dialogare con le
diverse posizioni in campo. In parole più antiche, di saper gestire una
continua mediazione, anzi continue e molteplici mediazioni.
Nell’attuale
coazione al comando questa banale verità non gode di buona stampa;
viene anzi interpretata come inutile e torbida istanza alla mediazione,
da rigettare anche negando spazio alle strutture di rappresentanza di
interessi e di identità collettive che, lavorando sulla e nella
mediazione, rischiano il solipsismo ed ancora più rischiano di dover
fronteggiare dinamiche molto emozionali, dove soggetti non chiamati alla
mediazione pensano o si illudono di poter avere identità e potere di
moltitudine: vanno in piazza, come unico contenitore di emozioni
collettive e ci restano anche quando rappresentano solo se stessi.
Coazione
al comando e difficile dialogo con il tessuto intermedio della società
portano in conclusione ad una sostanziale fragilità dell’azione
politica: fragilità non curabile con formule miracolistiche di decisione
(l’algoritmo o la tentazione referendaria). Ci vuole pazienza, una
virtù non facilmente spendibile nella congiuntura italiana.