Repubblica 8.10.18
Falsi miti
I dolori e i rancori del giovane Hitler uomo senza qualità
di Pietro Citati
Non
sapeva fare nulla, non lavorava, amava smisuratamente la madre, pensava
di essere un artista. Poi scoprì di avere una vera passione, l’odio, e
un unico talento: saper parlare. Un romanzo di formazione scritto
all’inferno
Da giovane Hitler amò soprattutto la madre, Klara: una
donna semplice e gentile, con gli occhi grigio-azzurri, che fu l’unica
grande passione della sua vita.
Quando morì, aveva diciotto anni:
nessuno — dissero gli amici — aveva mai visto un dolore così terribile e
straziante, che sembrò mettere in dubbio la sua esistenza. Sino alla
fine, Hitler conservò e guardò la fotografia della madre. Sognava: fu la
vera attività della sua vita, anche quando diventò uno degli uomini più
potenti della terra. Leggeva molto: specie i romanzi di avventura di
Karl May, e storie di mitologia germanica. Così racconta la bellissima
biografia di Ian Kershaw (Bompiani, traduzione di Alessio Catania).
A
Linz e poi a Vienna e a Monaco, frequentava le biblioteche. Anche i
libri erano sogni. E così l’opera dove andava quasi tutte le sere, con
un cappello e un cappotto neri, e un bastone d’avorio: adorava Mozart,
l’opera italiana e soprattutto Wagner, il Tristano e il Lohengrin, che
vide trenta o quaranta volte. Pensò di creare egli stesso un’opera: un
Wagner ancora più sublime e inverosimile. Pensò di diventare architetto:
si definì "pittore di architetture". Era solo, incerto, indolente. Non
decideva mai: ciò che avrebbe fatto — sebbene sembri inverosimile — fino
alla fine della vita. Detestava lavorare: non rispettava gli
appuntamenti; quando conosceva qualcuno, dava una stretta di mano di
ghiaccio.
Qualsiasi cosa facesse, era un dilettante, senza nessun senso della realtà e delle occasioni.
Odiava:
era la sua vera passione; anche le persone che non conosceva, o
conosceva appena, o aveva soltanto immaginato. Non scriveva, forse per
non lasciare nessuna traccia visibile di sé, — quest’uomo
incomprensibile.
Si lavava di continuo: non si faceva mai — a
nessun costo — vedere nudo; al contrario del suo idolatrato Mussolini,
che mostrava sempre collo, petto virile e ogni parte del corpo.
Considerò
sempre Linz, dove era nato, la sua patria e sino alla fine della vita
pensò di farla diventare (con l’aiuto di Albert Speer) la capitale del
mondo. Al teatro dell’opera incontrò il primo amico: August Kubizek.
Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse: con lui parlava di tutto,
persino di cose che non lo interessavano affatto, come le tasse (che non
pagava) o i difetti degli insegnanti statali o degli impiegati (che non
conosceva); parlava tanto che, alla fine, Kubizek disse: «Mi pare che
Adolf dia segni di squilibrio».
Andò a Vienna, per venire ammesso
all’Accademia di belle arti, dove fu rifiutato due volte, sebbene fosse
certissimo di essere accolto. Rimase a Vienna dal febbraio 1908 al
maggio 1913. Secondo il Mein Kampf, Vienna destò in lui soltanto
"pensieri lugubri": fu il «più triste periodo della mia vita». Kubizek
lo raggiunse, dividendo la sua stanza: una stanza fredda, che puzzava di
paraffina, con il letto e i mobili pieni di cimici. Il 24 maggio 1913,
portandosi dietro una valigetta con i vestiti, andò a Monaco: era, per
lui, la metropoli dell’arte tedesca, e vi frequentò i bellissimi musei.
Dapprima
prese in affitto una stanza nel quartiere di Schwabing. Nulla forse ci
restituisce l’immagine del giovane Hitler più dei lunghi anni di Vienna.
Spesso dormiva all’aperto: o in un modesto caffè della Kaiserstrasse; o
in un dormitorio per i senzatetto.
Spalò la neve: fece il
facchino alla stazione, senza prendere mai in considerazione l’ipotesi
di un lavoro stabile. Passava ore e ore al caffè, leggendo giornali di
ogni genere, ma specialmente antisemiti.
Aveva un posto riservato:
il posto di "Adi". Quando veniva cacciato dal caffè, vagava per la
città con i piedi gonfi e lacerati. Sembrava Charlot, nei primi film
comici di Chaplin.
Aveva un vecchio cappello stazzonato, pantaloni bucati e scarpe imbottite di carta.
Portava
i capelli lunghi e la barba incolta. Indossava i calzoni di cuoio
bavaresi, con grossi calzini di lana e camicia a quadri rossi e azzurri,
e un’inopportuna giacca corta blu. Frequentava una combriccola
eterogenea, monologando per ore, come avrebbe fatto per tutta la vita.
Qualcuno disse che sembrava un gangster.
Già
nei primi anni di scuola aveva rivelato un’inclinazione per il disegno.
Ora suonava il pianoforte a coda, che gli aveva regalato la madre: ora
disegnava, dipingeva, scriveva poesie, restando alzato fino a tarda
notte. Pensava e ripensava: era certissimo che sarebbe diventato un
grande artista; anche quando fu cancelliere del Reich, credeva di
essere, in primo luogo, un artista. Cominciò a dipingere.
Non
inventava nulla: copiava; mi duole di non avere mai visto nemmeno una
riproduzione dei suoi acquarelli; essi erano molto richiesti, tanto che
Hitler e il suo agente non riuscivano a tenere il passo con le
ordinazioni. Raffigurava la Karlskirche e scene della "vecchia Vienna",
di solito copiate da cartoline: un acquarello ogni due o tre giorni.
Forse, più tardi, disprezzò il proprio "dilettantismo". Ma la pittura
gli dava di che vivere decorosamente, se non bene.
Forse prese dell’oppio.
Quando
si sottrasse al servizio militare, rischiò di finire in una prigione
austriaca. Un pomeriggio del 18 gennaio 1914, un agente della polizia
criminale di Monaco gli ingiunse di andare due giorni dopo a Linz, per
iscriversi nelle liste militari. Intanto lo dichiarò in arresto. Ma fu
dichiarato di costituzione troppo debole per entrare nell’esercito. Con
lo scoppio della guerra, diventò soldato: caporale. Ne fu felicissimo:
poi parlò di quegli anni «come del periodo più grandioso e
indimenticabile della mia esistenza». Per quattro anni l’esercito fu la
sua patria. Il 4 agosto 1918 venne insignito della Croce di ferro di
prima classe, segnalato da un tenente ebreo. Il 13 ottobre 1918 fu
colpito dai gas: fu portato in un ospedale di Pomerania, dove ebbe una
specie di visione, sognando di liberare il popolo tedesco e di rendere
di nuovo grande la Germania. Cercò i colpevoli della sconfitta:
naturalmente erano gli ebrei, sebbene fino ad allora non fosse stato
antisemita. Poi il suo odio per gli ebrei crebbe fino all’ossessione,
senza mescolarsi ancora all’anticomunismo.
Quando finì la guerra, Hitler decise di restare nell’esercito.
Il
9 novembre 1918 il Kaiser abdicò. Qualche mese dopo il presidente del
consiglio, Kurt Eisner, un ebreo radicale, venne assassinato. Ma Hitler
non fece nulla per favorire il crollo della repubblica socialista.
Dichiarò di essere socialdemocratico: nell’aprile 1919 portò al braccio,
durante una sfilata, la fascia rossa della rivoluzione. Tranquillo,
moderato, in nulla simile al futuro cancelliere del Terzo Reich, fu
incaricato di indottrinare le truppe. Quando il capitano Karl Mayr, che
comandava i servizi informativi, lo conobbe, Hitler aveva l’aria «di un
povero cane randagio in cerca di un padrone, pronto a condividere la
sorte di chiunque gli mostrasse un volto gentile. Al popolo tedesco e ai
suoi destini era del tutto indifferente».
Accadde qualcosa di insospettabile, che avrebbe mutato i destini del mondo.
Nel marzo 1919 a Hitler venne offerto un corso di insegnamento antibolscevico.
Si accorse di saper parlare.
Non
aveva idee, né ideologie, né concezioni del mondo, non pensava nemmeno
da lontano a ciò che avrebbe detto al popolo tedesco nel 1933 o nel
1939. Era soltanto un opportunista: avrebbe potuto, se richiesto,
aderire a qualsiasi idea o programma o partito politico; voleva soltanto
conquistare potere. Sia ora sia poi era disposto a sacrificare molte
delle sue idee principali.
Solo molto più tardi scoprì l’astuzia
politica, la capacità di dividere e manipolare le masse, la coscienza di
essere infallibile: il Redentore, il Salvatore della Germania e del
mondo.
Con il suo lungo completo blu, sembrava una via di mezzo
tra un impiegato statale e un sottoufficiale. Era incerto, pieno di
complessi di inferiorità verso chiunque avesse un nome e una carica. A
molti sembrava una non-persona o un impostore: egli stesso diceva di
essere soltanto il tamburino di qualcosa di ignoto e insospettabile. Ma
parlava.
Iniziava in sordina: poi diffondeva sarcasmi e attacchi
personali: infine procedeva verso l’apice, si autoesaltava, esaltava,
fino ad affascinare completamente gli ascoltatori.
Tutto ciò
avvenne rapidissimamente: con una velocità che non riesco a comprendere,
in pochissimi anni annientò (parola che adorava) l’Europa, e fu sul
punto di annientare il mondo.
* * *
Verso l’una del 30 aprile 1945 Hitler pranzò come al solito nel bunker di Berlino con le sue segretarie e la sua dietetica.
Salutò
le segretarie. Tornò nel suo sotterraneo. Pochi minuti dopo, Hitler e
la sua compagna Eva Braun sedevano su un divano, l’uno accanto
all’altro.
Hitler si era ucciso con un colpo di pistola alla
tempia destra e la Braun con l’acido prussico. L’autista versò duecento
libbre di benzina sui corpi. Le fiamme li consumarono, e li ridussero a
una massa carbonizzata, che si sgretolava al contatto del piede. L’11
maggio l’odontotecnico di Hitler ricevette una scatola da sigari, che
conteneva un frammento di osso mandibolare e due punti dentari di Hitler
e di Eva Braun.