martedì 9 ottobre 2018

La Stampa 9.10.18
Imbarazzo
Camicie nere celebrate sulla lapide


Imbarazzo a Savona dove sabato scorso sindaco e prefetto hanno scoperto la lapide voluta dall’Opera Caduti senza croce in ricordo dei caduti delle Forze Armate nella Seconda Guerra Mondiale. Tra alpini, finanzieri, fanti, aviatori, erano riportate anche le Camicie Nere. Che non facevano parte delle Forze Armate, ma erano membri delle Brigate Nere della Repubblica di Salò. Coloro che aiutavano le Ss a massacrare la popolazione civile italiana. L’Opera ha rivendicato la scelta. Il Comune ha cancellato la scritta con del nastro da pacchi.

La Stampa 9.10.18
Quando i fanatici eravamo noi
I primi cristiani contro l’arte classica
di Giorgio Ieranò


Orde di fanatici vestiti di nero arrivano dal deserto siriano per distruggere gli antichi monumenti di Palmira. Altri, in Egitto, assalgono i luoghi di culto di chi non abbraccia la vera fede. Bande di estremisti religiosi distruggono opere d’arte, massacrano gli infedeli, bruciano i libri profani, uccidono gli intellettuali che praticano il libero pensiero. Così Catherine Nixey, nel suo Nel nome della croce (Bollati Boringhieri, pp. 364, € 24), racconta il trionfo del cristianesimo. O meglio, come recita il sottotitolo, «la distruzione cristiana del mondo classico». I fanatici vestiti di nero non sono, infatti, i terroristi dell’Isis ma i monaci che secoli fa demolivano i templi degli idolatri. Anche a Palmira, dove gli archeologi hanno trovato la testa di una statua di Atena mutilata e sfigurata con furia iconoclasta alla fine del IV secolo, negli anni in cui l’imperatore Teodosio vietava i culti pagani. Insomma, per Nixey i cristiani di ieri erano come l’Isis di oggi, con san Giovanni Crisostomo nella parte del califfo al-Baghdadi.
Il libro di Nixey, uscito in Inghilterra nel 2017, è già un caso ed è stato tradotto in varie lingue. L’autrice, che vanta la sua formazione classica (ma tiene anche a informarci di essere figlia di un ex monaco e di una ex suora), racconta l’avvento della religione di Gesù come una storia di prevaricazione e violenza: l’ottuso radicalismo religioso dei cristiani distrugge la bellezza della cultura classica e lo splendore dell’impero romano. Il suo, più che un saggio, è un pamphlet. Leggendolo ci si trova trasportati in una dimensione quasi d’antan. Si torna alle polemiche di stampo illuministico contro la religione, ai feuilleton ottocenteschi sui crimini dei Papi o dell’Inquisizione, alla vecchia idea del Medioevo come «età oscura» (The darkening age è il titolo originale). Sullo sfondo si staglia l’ombra maestosa di Edward Gibbon che, nel suo Declino e caduta dell’impero romano, già imputava ai cristiani di avere istituito, con le loro sette rissose e fanatiche, «una nuova specie di tirannia».
Certo, come scriveva Franco Cardini nel suo Cristiani perseguitati e persecutori (Salerno Editrice, 2011), il cristianesimo non si è affermato solo «con l’amore e con la persuasione». L’altra faccia del martirio cristiano è la violenza che i cristiani stessi hanno esercitato nei confronti dei pagani. Violenza a volte dimenticata o rimossa dal velo pietoso di certa apologetica. Come dice Cardini: «Nella storia di solito la voce dei vinti viene soffocata e quindi non esiste un martirologio pagano». Ma i casi di intolleranza furono molti. Nel 392, per esempio, una folla di cristiani inferociti assale il Serapeo di Alessandria d’Egitto, uno dei templi più splendidi di tutto il mondo antico, riducendolo a un cumulo di macerie e devastandone la gloriosa biblioteca. E cristiani erano anche i parabolani, le bande di fanatici che, nel 415, aizzati dal vescovo Cirillo, fanno a pezzi la filosofa neoplatonica Ipazia dopo averle cavato gli occhi.
Il libro di Nixey racconta queste e altre storie (che, si badi, sono tutte vere) per dimostrare che il primo cristianesimo era integralisticamente votato alla distruzione della civiltà classica. Per esempio, si argomenta, se abbiamo perso così tanti testi antichi è colpa della censura e dei roghi di libri perpetrati dai cristiani. Ma in realtà il «genocidio culturale» che viene adombrato non ci fu, anche perché i Padri della Chiesa inserirono i classici profani nel curriculum educativo di un buon cristiano. La stessa visione del mondo pagano è un po’ naïve: un mondo di sano edonismo e gioiosa razionalità soffocato dall’oscurantismo cristiano.
Nixey oppone, per esempio, il libertinismo di Ovidio alla cupezza del monachesimo. Eppure l’impertinente Ovidio fu spedito in esilio da Augusto, mentre il Medioevo cristiano si è poi nutrito di letture ovidiane. Anche sostenere, a maggior gloria della tolleranza pagana, che i martiri cristiani furono pochissimi è vecchio cavallo di battaglia della polemica anticristiana (lo cavalcava già Voltaire nel suo Trattato sulla tolleranza). Resta il fatto che quelli tra IV e V secolo furono anni in cui il cristianesimo si affermò anche con la violenza. Ma in un contesto che, comunque, era molto ambiguo e ricco di chiaroscuri. Come insegna anche il caso del più fedele discepolo della martire pagana Ipazia, il filosofo Sinesio di Cirene. Che morì dopo essere stato eletto vescovo di Tolemaide, senza avere mai rinunciato alla dottrina neoplatonica.

Repubblica 9.10.18
l ritrovamento
L’ultimo segreto di Carlo Michelstaedter
di Raffaella De Santis


A Gorizia un baule pieno di libri e un foglietto riaprono il caso sulla fine dello scrittore che si tolse la vita a soli 23 anni, il 17 ottobre 1910. Il suo fu davvero un "suicidio filosofico", come si è sempre creduto? O si trattò di una scelta causata dalla malattia che lo aveva colpito?
Uno scrittore destinato a diventare una leggenda, morto giovanissimo, a soli 23 anni. Da più di un secolo Carlo Michelstaedter è al centro di misteriosi ritrovamenti. L’ultimo apre un altro capitolo nella storia della breve vita dell’autore goriziano: un cassone da viaggio pieno di libri rimasto per 75 anni a Gorizia, ma di cui tutti ignoravano l’esistenza. Ora risbuca da una cantina e getta una nuova luce sul drammatico gesto finale, quel colpo di rivoltella che il 17 ottobre del 1910 mise fine all’esistenza di un ragazzo geniale e dall’aura postuma. Il baule ritrovato sarà mostrato il 14 ottobre presso la Biblioteca Statale Isontina, diretta da Marco Menato, dove i libri saranno custoditi.
I ritrovamenti delle carte di Michelstaedter sono capitoli di una spy story infinita.
Quella di oggi inizia con un cassone di legno scampato alle razzie delle SS. Dentro c’erano libri, solo libri, e un foglietto, un atto d’amore. Un elenco di titoli stilato dalla sorella Elda, una lista che è l’opposto della morte, è la vita chiusa in un baule, l’anima del fratello in una raffica di opere: Omero, Platone, Schopenhauer, Tolstoj, Pindaro, un vocabolario tedesco/greco e tedesco/latino, Lombroso, Goldoni, Berchet....
Nella lista ci sono 106 libri: una parte appartenuti ad Alberto, il padre di Carlo e Elda, dirigente delle Assicurazioni generali e grande bibliomane, e una cinquantina a Carlo (ma quelli arrivati a noi sono 31), riconoscibili per il timbro dei Michelstaedter con dentro una crocetta. Sergio Campailla, critico letterario, scrittore e curatore delle opere di Michelstaedter per Adelphi, è entusiasta, trova in questa scoperta la conferma di quanto pensava e aveva ipotizzato: «Nell’elenco ci sono una serie di volumi sul suicidio, due con lo stesso titolo Suicidio e pazzia ».
Entrambi opere di psichiatri coevi, Giuseppe Caramanna e Giuseppe Antonini, che aveva diretto l’Ospedale psichiatrico di Udine, primo esempio italiano di manicomio senza cinta muraria. Ci sono poi gli Studi morali: il suicidio, la gloria,
i romanzi di Maria Casoni, un’opera di Donato Cassino,
Sulla determinazione dei suicidio nel Werther e nell’Ortis e due testi fondamentali, lo studio dell’isteria in tedesco di Jospeh Breuer e l’Interpretazione dei sogni di Freud. «Sapeva di essere molto malato. Queste letture mostrano che era in allarme. Il suo non è stato un suicidio filosofico. La tesi di Giovanni Papini sul suicidio metafisico viene definitivamente a cadere», dice Campailla. È più che probabile che lo stato fisico in cui l’aveva ridotto la gonorrea cronica di cui soffriva, abbia contribuito a spingere lo scrittore alla morte.
In famiglia la malattia di Carlo si teneva nascosta. Riaprire quel baule è riaprire un dolore. Ma dove era stato fino ad oggi, che fine aveva fatto? Dietro questo plot ci sono una casa venduta, un trasloco da fare, un cassone ritrovato. Un giorno la signora Franca Bertoldi, un’impiegata di banca di Gorizia parla a una sua amica di una cassa di libri che le è stata lasciata dalla nonna. Franca la ritrova in cantina durante un trasloco: «Mi sono ricordata di mia nonna che mi raccomandava di custodirne i libri con cura perché prima o poi qualcuno sarebbe venuto a prenderli».
Il caso vuole che l’amica di Franca sia moglie dello storico Lucio Fabi, che conosce un libraio antiquario, uno dei più bravi, Simone Volpato, e lo mette sulle tracce del cassone.
Simone Volpato, proprietario della libreria antiquaria triestina Drogheria 28, cinque anni prima aveva ritrovato la biblioteca della famiglia Michelstaedter in una bella casa di Trieste, abitata in passato dall’avvocato e studioso Cesare Pagnini.
Come è finito il baule in casa Bertoldi? «La mia famiglia era di umili origini – dice Franca –, facevano i mezzadri a Salona di Isonzo». È stata molto probabilmente la sorella maggiore dello scrittore, Elda, a consegnare alla nonna di Franca la cassa. Le due famiglie erano vicine di casa e Elda sapeva che i tedeschi erano alle porte e voleva mettere in salvo i libri del fratello, perché dietro quelle letture c’era lui, c’era Carlo. I Michelstaedter sono una famiglia ebrea, Elda abita nel ghetto di Gorizia, sa che con le SS alle porte non c’è scampo.
Predispone i libri nel cassone.
Quel gesto serve a salvare Carlo, la sua memoria, a non farlo morire ancora. Scrive un biglietto e lo mette dentro il cassone: "Piccolo elenco dei libri di famiglia conservati presso la casa Morpurgo-Michelstaedter e riposti per sicurezza in un cassone da viaggio. Da tenere con cura e in grave caso dare a mia sorella Paula". Morpurgo è il cognome del marito di Elda, il medico Silvio Morpurgo, morto subito dopo l’emanazione delle leggi razziali. La sorella Paula si è invece messa in salvo in Svizzera.
Il 17 ottobre Elda scrive il suo foglietto. Proprio quella data, la stessa in cui tanti anni prima Carlo ha scelto di morire. Il 23 novembre le SS fanno irruzione nelle case degli esponenti della comunità ebraica goriziana.
Elda e la madre vengono catturate in una retata. La madre Emma Luzzatto, ha 89 anni. Morirà durante il viaggio verso il campo di concentramento. Elda nel lager di Ravensbrück, il 26 dicembre 1944. Una catena di morti tragiche, che si aggiungono a quella di Nadia, la musa di Michelstaedter raccontata in un bel libro da Campailla ( Il segreto di Nadia B., Marsilio) e quella del fratello Gino, morto a New York anche lui suicida. In uno scritto brevissimo, quasi in forma di apologo, intitolato Un giovane, Michelstaedter scriveva: «E con crudele abituale sincerità verso se stesso esamina il proprio interno, lo analizza, quindi con calma e ragionata risoluzione si uccide restituendo alla madre terra le energie che in lui si combattevano inutili». Era il 1905. Cinque anni dopo Michelstaedter si sparerà alla tempia.

Corriere 9.10.18
It Will Be Chaos - Sarà il caos
Il documentario sui migranti in equilibrio tra racconto e attualità
di Aldo Grasso


Che ci sia il caos, non ci sono dubbi. «Se qualcuno, a Berlino o a Bruxelles, pensa di scaricare in Italia decine di immigrati con dei voli charter non autorizzati, sappia che non c’è e non ci sarà nessun aeroporto disponibile». Così Matteo Salvini, che ha anche pensato a nuovi accordi di espulsione e rimpatrio.
In questo caos, scorrono le immagini del documentario di Lorena Luciano e Filippo Piscopo che, partendo dal tragico naufragio dell’ottobre 2013 in cui annegarono 367 persone, racconta il cammino della speranza di migliaia di persone in fuga da guerre e dittature.
It Will Be Chaos - Sarà il caos (2018) è prodotto da Hbo e cerca di affrontare la complessità dei risvolti umani e sociali della crisi migratoria nel Mediterraneo (Sky Atlantic, domenica, ore 21.15).
Indubbiamente, la parte più riuscita è il racconto parallelo di Aregai e di Wael, una sorta di road-movie. Aregai è eritreo, è uno dei pochi sopravvissuti al naufragio del 2013, voleva andare nel Nord dell’Europa. Lo hanno salvato alcuni pescatori di Lampedusa e per molto tempo è passato da un centro di detenzione all’altro, senza sapere cosa fare e dove andare, tra carte bollate e non poche incomprensioni.
Wael, invece, è fuggito con la sua famiglia dalla Siria. Da Smirne, in Turchia, Wael, la moglie e i quattro figli piccoli hanno cercato di attraversare l’intero corridoio Balcanico. Un’odissea che, dopo 7 Paesi, 24 giorni di fame, ansia, e pericoli costanti, si è conclusa in Germania, dove il fuggiasco ha ritrovato suo fratello Thair. Poco dopo l’Europa chiuderà i confini e migliaia di migranti rimarranno abbandonati in Turchia. Quando It Will Be Chaos - Sarà il caos rinuncia al racconto per cercare di ricostruire la cornice dell’incombente disordine è molto meno efficace e tutta la parte sul sindaco di Riace è purtroppo «disturbata» da quanto sta accadendo in questi giorni.

Corriere 9.10.18
Salvini e Le Pen, patto in Europa «A maggio sarà una rivoluzione»
Io e Matteo alleati, al potere cambieremo tutto
Il capo leghista: «Bruxelles sbanda perché è guidata male». Juncker: populisti stupidi
di Andrea Ducci


ROMA Nuovo duello tra il vicepremier Matteo Salvini e il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker. In ballo non c’è solo il braccio di ferro sulla manovra in deficit predisposta dal governo italiano, il terreno su cui misurarsi è la lunga campagna elettorale che conduce al voto primaverile, per il rinnovo della commissione e del Parlamento europeo. Salvini parla al fianco di Marine Le Pen, capo indiscusso di Rassemblement National, durante un convegno organizzato dal segretario generale Ugl, Francesco Paolo Capone. I due leader del fronte sovranista e antieuropeista dibattono su «Crescita economica e prospettive sociali in un’Europa delle Nazioni». Le bordate per Bruxelles partono subito.
«I nemici europei sono asserragliati nel bunker di Bruxelles, sono quei Juncker e Moscovici che hanno portato precarietà e paura in Europa e si rifiutano di mollare la poltrona», osserva Salvini, che pronostica uno scenario elettorale:«L’appuntamento di maggio sarà la rivoluzione del buon senso». Poi il leader del Carroccio rincara: «Chi da Bruxelles dice che il pericolo sono Salvini, Orbán e la Le Pen, fanno come quel conducente dell’autobus che sbanda e dice che è colpa di chi sale alla prossima fermata. Non è così: se l’auto sbanda sei tu che non sei bravo a guidare». A seguire un’altra stoccata. «Mi impegno a dare risposte veloci, come sono veloci a Bruxelles a mandare letterine di richiamo». La reazione di Juncker non tarda e il commissario scandisce: «Opero un distinguo tra gli euroscettici, che hanno delle domande, ed i populisti limitati con i nazionalisti stupidi. È necessario mettersi di trasverso alla marcia della non Europa ispirata dai populisti stupidi e nazionalisti ottusi». Schermaglie
Il tema della giornata è dunque il gioco di sponda tra Salvini e Le Pen, in vista del voto. A fornire le prime indicazioni è il leader della Lega. «Tra me e Le Pen oggi non è un incontro elettorale, lavoriamo a un programma comune da anni. Ad ogni modo, questo fronte della Libertà punta a un progetto comune e anche a candidati comuni nei ruoli più delicati, ma riconoscendo autonomia dei popoli», dice Salvini.
L’idea è, insomma, un patto per una leadership europea condivisa. «La Lega e Le Pen stanno raccogliendo l’eredità di una certa sinistra che ha tradito le sue radici e i suoi valori», continua Salvini. Poi una battuta sullo spread: «Siamo di fronte allo scontro tra economia reale e virtuale, tra vita vera e realtà finanziaria».

Corriere 9.10.18
«Lega e M5S la prova che noi possiamo andare al potere»
La leader della destra francese: la Ue ha fallito
di Andrea Ducci


Roma Signora Le Pen lei rivendica un’alternativa all’attuale Unione Europea. Da dove transita questo percorso e dove conduce?
«Siamo davanti a un’Unione Europea incapace di mantenere fede alle promesse. I valori e i principi ispiratori dei trattati sono stati disattesi e soppiantati da una tecnocrazia, affidata a commissari anonimi e oscuri. La tanto invocata solidarietà è servita solo per salvare le banche con i soldi dei contribuenti. Ragione che ci spinge a creare una vasta alleanza con i grandi partiti nazionali tra cui la Lega di Matteo Salvini».
Marine Le Pen, leader di Rassemblement National, di passaggio a Roma per un incontro con Matteo Salvini e per un’intervista televisiva con Nicola Porro, riassume con toni impietosi lo stato di salute della Commissione Ue e delle istituzione europee.
Bruxelles e le sue misure di austerità hanno indebolito l’Italia?
«Io penso che i dogmatismi in campo economico siano uno degli errori dell’Europa attuale. Ecco perché bisogna smetterla con le misure di austerità, che sono socialmente devastanti e economicamente inefficaci».
Nei giorni scorsi si è discusso delle misure in deficit adottate in Italia e in Francia. Il debito italiano non consentirebbe margini. Ma il rispetto dei conti e di regole uguali per tutti non è più valido?
«Il livello dei nostri rispettivi debiti è preoccupante e tutto sommato non così distante. Ma la ripresa economica non si ottiene con la corsa all’austerità, ne è la prova la carneficina sociale in Grecia. Serve un diverso modello. Non vogliamo muri, ma sono indispensabili degli argini doganali per proteggerci, per esempio, dal dumping sociale, dalla delocalizzazione. Dobbiamo preservare i nostri mercati nazionali e i nostri campioni industriali».
L’avvio in Italia di un governo tra Lega e 5 Stelle è un vantaggio per il suo impegno politico in Francia?
«Il punto è quello che Lega e 5 Stelle stanno realizzando. Un’evidenza di due capisaldi politici: le nostre idee possono arrivare al potere, e, che una volta al potere, possiamo davvero cambiare le cose. Matteo Salvini attraverso una politica di fermezza è stato in grado di ridurre l’immigrazione e scuotere l’Ue, mettendola di fronte alle sue bugie e alle sue contraddizioni».
Salvini ha attaccato il commissario Juncker invitando a «cercarlo su Google mentre barcolla», perché non sobrio. Sono argomenti solidi per contestare l’Ue?
«Il fallimento Ue é accompagnato dalla decadenza di coloro che portano avanti il progetto europeista: la signora Merkel è rinnegata nel suo stesso partito, Macron è in evidente difficoltà. I fatti sembrano chiari. Juncker è un ex leader lussemburghese, che ha favorito pratiche di “ottimizzazione fiscale”. Guardare i video su Juncker aiuta a giudicare chi rappresenta l’Ue. Aggiungerei che il suo predecessore Barroso è stato assunto in Goldman Sachs. Rapporti con la comunità finanziaria, a dir poco, inquietanti».
Una sentenza sui falsi impieghi all’Europarlamento ha condannato i deputati del suo partito.
«É una storia montata e non c’è alcuna condanna. Né tanto meno alcun impiego fittizio o arricchimento personale, si tratta piuttosto di una questione sull’interpretazione del ruolo di assistente parlamentare. Siamo innocenti e contestiamo le accuse, attendendo con impazienza un processo».
In Europa i tassi di natalità sono in calo e i cittadini Ue crescono grazie al saldo migratorio. Senza questi flussi ci saranno meno risorse per pensioni, stipendi pubblici, istruzione e sanità.
«È un ragionamento fuorviante poiché considera l’uomo solo come mezzo di produzione e di consumo. Attraverso una politica che favorisca natalità possiamo risolvere i problemi demografici. La soluzione non è importare disoccupati in Paesi che contano già milioni di disoccupati».

Sul Corsera di oggi. Apologia di reato o incitamento a delinquere?
Corriere 9.10.18
Due agenti aggrediti da 50 migranti
Circondati e picchiati nel ghetto di Foggia per liberare un gambiano fuggito a un posto di blocco
di Fabrizio Caccia


ROMA «In cinquanta contro due, ce la siamo vista brutta. Al gambiano, però, alla fine siamo riusciti comunque a mettere le manette...». C.T. 40 anni e A.G. di 45, del distaccamento Polstrada di Cerignola, sono i due poliziotti di pattuglia che venerdì pomeriggio, nei pressi del Cara di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, sono stati prima circondati e poi aggrediti da un gruppo di migranti proprio davanti al grande centro d’accoglienza per richiedenti asilo, il terzo per dimensioni in Italia.
Decine di extracomunitari intenzionati con ogni mezzo a liberare Omar Jallow, 26 anni, cittadino del Gambia con vari precedenti penali, che gli stessi agenti avevano appena arrestato, dopo un inseguimento in auto sulla provinciale e poi a piedi tra le baracche. I due poliziotti nel frattempo hanno già lasciato l’ospedale di Cerignola. A.G., il sovrintendente, ha avuto la peggio: 30 giorni di prognosi e setto nasale rotto; C.T., l’assistente, ha riportato lesioni sul corpo, guarirà in 15 giorni. Ancora scioccati, hanno raccontato quei minuti terribili al segretario provinciale del Sap, il sindacato autonomo di polizia, Giuseppe Vigilante: «Quel pomeriggio eravamo in servizio anticaporalato lungo la provinciale, quando abbiamo intimato l’alt a una macchina sospetta. A bordo c’era il gambiano, che invece di fermarsi è ripartito a razzo, cercando d’investirci. E durante l’inseguimento ha anche provato a speronarci per mandarci fuori strada. Quando poi si è fermato, nei pressi del Cara, lui è sceso e noi l’abbiamo inseguito a piedi. In quel momento, un gruppo di altri immigrati ha visto la scena e c’è venuto addosso, ci hanno picchiato con calci e pugni, preso a sassate e bottigliate, per fortuna avevamo già dato l’allarme via radio e dopo 10 minuti sono arrivate altre quattro pattuglie che erano in zona: due dell’anticrimine, una del commissariato di Manfredonia, un’altra dei vigili urbani. E i rivoltosi allora si sono dati alla fuga, sennò chissà come sarebbe finita. Almeno il gambiano, però, ora si trova in carcere a Foggia: con l’accusa di lesioni, violenza e resistenza a pubblico ufficiale».
«Il Cara di Borgo Mezzanone è diventato ormai un ghetto, una città nella città — è l’accorata denuncia del segretario Vigilante —. Pensato per 200 posti, contiene ormai 600-700 persone, ma soprattutto là fuori, sulla pista di quello che un tempo era un aeroporto, si sono accampati migliaia di immigrati e insomma è diventata una baraccopoli enorme. Là dentro trovi di tutto: ladri d’auto, spacciatori di droga, trafficanti di rame. Una terra di nessuno in cui è sempre più difficile entrare, visti i mezzi limitati di cui disponiamo».
«Se fosse successo il contrario, se cioè degli agenti avessero colpito un migrante, nessuno avrebbe esitato a urlare al razzismo — dice Francesco Pulli, il segretario nazionale del Sap —. E invece episodi del genere, purtroppo, a Borgo Mezzanone non sono nuovi e a spingere questa gente a delinquere è anche la consapevolezza di restare impunita. È necessario, invece, che chi sbaglia paghi. Bisogna tutelare soprattutto i nostri poliziotti su strada: penso alla possibilità di utilizzare il taser, ad esempio, la pistola elettrica che già in altre parti d’Italia è in via di sperimentazione».
«Dopo i fatti di mafia del 2017 (quando riesplose la faida del Gargano, ndr) sono arrivati un po’ di rinforzi — conclude Giuseppe Vigilante — . Ma le pattuglie in strada sono ancora troppo poche: tra questura e commissariati ce ne vorrebbero almeno cinque in più per ogni turno».

Corriere 9.4.18
Il boom della Lega
È al 48% nel Nord-Est e supera il 22% al Sud
di Renato Benedetto


M5S cala ovunque, resiste sopra il 40% nel Mezzogiorno
Milano Le proteste e i malumori che si sono levati da Nord contro il governo gialloverde — prima contro il decreto dignità, poi contro la manovra — sembrano aver colpito soprattutto il Movimento 5 Stelle, sorvolando quasi senza danni l’alleato. Almeno alla prova dei sondaggi sulle intenzioni di voto: la Lega nel Nord-Est sfiora la metà dei consensi (48,4%); rispetto al 4 marzo, data delle elezioni politiche, il partito di Matteo Salvini qui ha guadagnato 19 punti percentuali. Nella stessa area il Movimento 5 Stelle di punti ne ha persi 6,8, per toccare il suo minino, il 17%: neanche la metà dei consensi che la formazione di Luigi Di Maio raccoglie al Sud. Orizzonte simile a Nord-Ovest: la Lega al 43,2% (+17,5 rispetto al 4 marzo) stacca il Movimento al 17,6% (giù di 6 punti dalle Politiche).
È al Nord, insomma, che il Carroccio consolida il suo vantaggio sui 5 Stelle (a livello nazionale si tratta del 33,8% contro il 28,5), come emerge dalle rilevazioni sulle intenzioni di voto per aree territoriali realizzate da Ipsos. «La Lega in qualche modo manifesta un atteggiamento più moderato — spiega Luca Comodo, che dirige la divisione politico-sociale di Ipsos —, non soltanto con alcuni esponenti di governo, si pensi al sottosegretario Giorgetti, ma anche con esponenti del territorio che su temi come la manovra, i mercati, i rapporti con l’Europa, si discostano dai toni più radicali di Salvini e Di Maio». E questo spiega il sentimento — già evidenziato dal «crediamo nella Lega» del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia — dei ceti imprenditoriali e produttivi del Nord, «critici sulla manovra, perplessi di fronte ad atteggiamenti antieuropei — prosegue Comodo — ma che continuano a vedere nella Lega un punto di riferimento, oltre a una rete di relazioni, a livello territoriale, che il Movimento non ha».
Ci sono poi altre ragioni, al netto del tema migranti, del vantaggio leghista. Il Movimento — commenta Luca Comodo — «paga la gestione della vicenda Genova e i giudizi negativi, al Nord, sul reddito di cittadinanza». La Lega riesce invece a incassare, in termini di consenso, gli utili della quota 100, la norma sulle pensioni: «Un tema molto sentito al Nord, dove sono presenti in maniera rilevante carriere continuative di lungo periodo, ma non solo al Nord». Infatti anche nel Mezzogiorno il Carroccio cresce e si attesta tra il 22 e il 25%, un vero e proprio balzo rispetto alle ultime elezioni di 16 punti percentuali. «Di fatto la Lega — sottolinea Comodo — al Sud sta cannibalizzando Forza Italia, il cui elettorato si sta spostando in misura rilevante verso il partito di Salvini». Gli azzurri perdono circa 6-8 punti dal 4 marzo. Fratelli d’Italia da 1,5 a 2,4 punti.
Staccati a livello nazionale, i 5 Stelle tengono saldo il primato nel Mezzogiorno. Nonostante il lieve calo del Centro-Sud (-2,9) e delle Isole (-0,7), in queste due aree il M5S si attesta comunque oltre il 40%. È al 22,6% nel Centro-Nord, unica area del Paese — la zona tradizionalmente definita «rossa», anche se i dem stanno perdendo negli anni sempre più consensi — dove il Pd è sorpassato dal Pd (qui al 24%, il suo record). Il partito guidato da Maurizio Martina ha avuto una breve risalita, a livello nazionale, dopo la manifestazione del 30 settembre, ma nei sondaggi raccoglie consensi ancora lievemente inferiori rispetto a quelli, già deludenti, del 4 marzo scorso.

Repubblica 9.10.18
Stati Uniti
Se Fort Trump difende solo l’uomo bianco
di Vittorio Zucconi


È cominciata a Washington l’ultima battaglia dell’Uomo Bianco per difendere il fortino del proprio secolare privilegio oggi minacciato. Nella difesa a oltranza del giudice spinto a forza da Trump alla Corte Suprema, nell’emergere in tutto il mondo di movimenti che si proclamano « sovranisti » non avendo il coraggio di definirsi razzisti, c’è il panico dell’Uomo Bianco non più conquistatore ma conquistato che sente, che vede salire l’inesorabile marea demografica degli "altri".
Il «Fardello dell’Uomo Bianco», come lo aveva chiamato Rudyard Kipling, la provvidenziale "missione civilizzatrice" del White Man è divenuta l’arroccarsi spaventato della " superiorità razziale" e del patriarcato. Il popolo dimenticato, la minoranza accanita di elettori che hanno spinto Trump alla vittoria su Hillary Clinton è molto più che la disperazione dell’operaio, del minatore, del piccolo imprenditore sconfitto dalla globalizzazione dei mercati: è la linea del Piave di quella parte di nazione che teme la perdita del proprio status di etnia dominante e garantita dalla nascita. È la parte, minoritaria ma compatta, che vide nella presidenza di un sangue misto afroamericano, Barack Hussein Obama, l’incarnazione dei propri incubi.
Nel Fort Apache dell’ultimo Was’ichu, come i nativi definivano i bianchi, coloro che mangiavano il grasso e la carme lasciando agli altri le ossa, il panico è comprensibile. Nell’universo economico e industriale, la Cina « si prende gioco e si approfitta di noi » , come predica Trump. I clandestini continuano ad affluire dalla frontiera e si aggiungono agli "alieni" regolari con un tasso di natalità che garantisce che tra vent’anni i bianchi saranno minoranza come già in California.
E poi le donne, le femmine terribili, che con la loro prepotenza, con il complotto del # metoo «mettono a rischio i nostri figli esposti a denunce e accuse che possono distruggere la loro vita » , poveri ragazzi — lamenta sempre Trump — e aggiungono al panico di razza quello di genere. Il 56 per cento degli iscritti alle Università americane sono femmine, senza distinzione fra facoltà umanistiche e scientifiche, una maggioranza senza precedenti nella storia dell’istruzione superiore. Ben oltre il femminismo, la femminilizzazione della società e della cultura ufficiale o popolare è in atto e se molte cittadine di rosea carnagione e più modesta condizione avevano votato per Trump è perché avevano preferito l’antica e rassicurante soggezione al patriarcato del " maschio alfa" alla confusione del meticciato. Hanno poco, ma sentono di appartenere almeno alla master race.
La sola risposta alla marea del grande rimescolamento etnico, a parte il tragicomico invito della grande consigliera di Trump Kellyanne Conway, che ha invitato le donne bianche a far figli con maschi bianchi per combattere la battaglia demografica, è blindare la Corte Suprema con i campioni della upper class bianca, con i prodotti delle migliori e più esclusive scuole private da 40 mila dollari l’anno di retta come il liceo dal quale vengono gli ultimi due giudici supremi imposti da Trump. Se riuscirà, come è probabile, a riempire i futuri vuoti lasciati da dimissioni di anziane magistrate figlie di un’altra epoca, con giovani giuristi ultraconservatori, la Supreme Court sarà il ridotto intoccabile per decenni della resistenza bianca. Si sta costruendo un muro togato anche nei tribunali inferiori, che Trump imbottisce di centinaia di giudici decisi a riportare l’America, e con essa l’Occidente che sta seguendo come sempre i cattivi esempi d’oltreoceano e arriva a prendere sul serio un allucinato imbonitore come Steve Bannon, ai bei tempi antichi, belli per loro.
Non c’è, come non c’è nell’Europa in balia di nostalgici travestiti da rivoluzionari alla maniera dei Salvini e dei Di Maio, una controforza efficace, un pensiero coerente e razionale che si opponga alla risacca del Grande Terrore Bianco. La propaganda del vittimismo, quella che fa della violentata una violentatrice, funziona perché il segreto vincente del populismo bianco è proprio nel rovesciare il racconto della realtà con il cantico della paura. Paura non della disoccupazione, non della bancarotta, non delle stragi di dementi armati, ma la paura che questi anni, dopo secoli, siano l’autunno del patriarca bianco, assediato nel proprio fortino cadente.

Repubblica 9.10.18
I treni per Lourdes sono sempre meno: il Santuario rischia di morire
Lourdes va in crisi. Viaggi interminabili e treni fatiscenti
Pellegrinaggi scesi da 130 a 30 in pochi anni "Rincari costanti e condizioni disumane"
di Paolo Rodari

Tempi di viaggio paurosi, anche dieci ore più del previsto.
Soste che durano ore e ore, in stazioni secondarie francesi o in piena campagna transalpina, sotto il sole cocente o il gelo invernale, coi treni superveloci a cui viene continuamente data la precedenza. Aumenti costanti delle tariffe, oggi più che mai insostenibili. Il tutto aggravato da una stagione 2018 in cui i ferrovieri francesi hanno convocato giorni e giorni di sciopero, con i vagoni bloccati alla frontiera e rimandati indietro senza rispetto delle persone che viaggiavano. È quanto denuncia il Coordinamento nazionale pellegrinaggi italiani (Cnpi) che accompagna insieme a tante altre sigle gli ammalati a Lourdes, un tempo pellegrinaggio ambito, oggi momento di disagi insopportabili per i più deboli e per i malati tanto che i numeri sono in grande contrazione: si è passati da 130/135 treni speciali programmati nella stagione 2013 ai 112 treni della stagione 2014. E, ancora, dai 72 trasporti previsti per il 2015 ai 32 treni nel 2018. Una cifra bassissima, che si confermerà anche nel 2019: soltanto 30 i treni programmati con un crollo generale del 30 per cento di presenza di pellegrinaggi organizzati nella cittadina francese.
Don Paolo Angelino è presidente di Oftal (Opera federativa trasporto ammalati Lourdes). Dice: «I tempi di percorrenza penalizzano i malati. Insieme c’è il materiale rotabile delle ferrovie italiane a essere fatiscente: vagoni vecchi, obsoleti, sui quali spesso non funziona l’aria condizionata. Da dieci anni è così e va sempre peggio.
Impieghiamo anche sette ore da Milano a Ventimiglia, un viaggio che procede lentissimo coi convogli di altri treni che continuamente passano avanti». E ancora: «Per i malati il pellegrinaggio diviene un supplizio. Diversi devono essere curati, accuditi, cambiati, ma al ritorno dicono: "Mai più". È un’esperienza per molti traumatica».
Calvario. Così chi organizza i pellegrinaggi definisce l’andata a Lourdes: «Si tratta di persone che desiderano per un anno intero di partecipare come protagonisti ad un pellegrinaggio che vengono considerate meno di oggetti o cose inanimate da trasportare». In sostanza la denuncia è una: le ferrovie francesi considerano questi treni come dei carri merci, né più né meno. Il tutto nonostante il treno sia oggi l’unica possibilità per chi non sta bene per andare a Lourdes. Infatti, persone con situazioni di malattia grave, disabilità fisiche, Sla, respirazione artificiale, non avrebbero altro modo. Mesi fa le ferrovie francesi dicevano che i ritardi erano dovuti all’«ammodernamento della rete». Mentre oggi le spiegazioni non vengono neanche più fornite.
Gli organizzatori dicono ancora che «non è una questione semplicemente religiosa». È piuttosto questione «di rispetto dei diritti umani, diritti che la Francia ha insegnato al mondo, ma che le proprie ferrovie stentano a ricordare quando devono fornire un servizio a favore dei malati».

il manifesto 9.10.18
Camusso lancia Landini come suo successore
Cgil. Dalle assemblee congressuali arriva una forte indicazione per l'ex leader Fiom. Che in un anno da segretario confederale si è dimostrato più unitario di tutti

E’ successo all’una di notte, dopo una lunga e articolata discussione nella segreteria Cgil. Se nel 2015 qualcuno avesse previsto che Susanna Camusso avrebbe indicato Maurizio Landini come suo successore alla guida della Cgil sarebbe stato di certo preso per folle. Era l’anno della Coalizione sociale, spacciata da molti (erroneamente) come il partito di Landini, mentre Landini ha sempre voluto fare solo il sindacalista. Molto peggio andava l’anno prima – 2014 – quando Nino Baseotto (segretario della Lombardia e attuale segretario confederale) e Claudio Di Berardino (segretario del Lazio e ora assessore al Lavoro alla Regione) comprarono uno spazio pubblicitario su l’Unità per attaccare Landini. Qualche mese prima la stessa Susanna Camusso scrisse una lettera al Collegio statutario della Cgil per sapere se il segretario Fiom poteva ritenersi non vincolato alle decisioni del Direttivo Cgil e quale sanzione poteva essergli comminata. Erano i tempi del Testo unico sulla rappresentanza, del rischio di sanzioni per chi sciopera, denunciato dalla Fiom.
I due comunque non hanno mai smesso di parlarsi e lo fecero proprio qualche giorno dopo quella lettera ad un’assemblea della Nuovo Pignone a Firenze. In tre anni – mentre attorno succedeva di tutto, dalla politica al sindacato – il loro rapporto si è ricostruito e cementato. La lotta contro il Jobs act e il referendum costituzionale di Renzi e un rinnovato movimentismo sindacale hanno portato Susanna Camusso nel 2017 a chiedere a Landini di entrare in segreteria confederale lasciando la Fiom. E da quel momento Landini ha mostrato a chi lo consideravano un estremista di essere più confederale e unitario di molti riformisti nostalgici del partito di riferimento.
In un quadro politico come questo Landini – per Camusso e per gran parte degli iscritti Cgil sondati dall’attuale segretario nelle assemblee congressuali – è la scelta migliore. Non perché sia più vicino al M5s come lo accusano i suoi detrattori – Landini non ne conosce personalmente nemmeno uno – bensì perché è il più capace di confrontarsi con tutti (prova ne sia il contratto dei metalmeccanici sottoscritto nel 2016) e di essere riconosciuto dai lavoratori – in special modo i giovani – come persona credibile e appassionata come fece per i lavoratori di Pomigliano.
Per tutti questi motivi Susanna Camusso – figlia della tradizione socialista – ha deciso di indicare Maurizio Landini e non Vincenzo Colla, altro segretario confederale e a lungo segretario dell’Emilia Romagna.
Da un anno a questa parte Colla e Landini lavorano allo stesso piano di Corso Italia, da segretari confederali hanno deleghe simili che li hanno portati a lavorare fianco a fianco su molti temi, primo tra tutti Industria 4.0. Sono entrambi emiliani, uno piacentino e l’altro reggiano: il pragmatismo è una cifra comune così come il senso dell’organizzazione. Per questo è difficile immaginarsi un Vincenzo Colla che decide di sfidare l’indicazione di Camusso e andare alla conta dividendo la Cgil nel momento di sua maggiore unità da tempo immemore. Allo stesso tempo Landini è abbastanza esperto per capire che dovrà dialogare con l’ala più riformista e vicina al Pd presente nella Cgil. Con la volontà di arrivare al congresso di Bari dal 22 gennaio con una condivisione più ampia possibile su un programma che metta al centro la partecipazione dei lavoratori a partire dai precari e una sfida progressista al governo basata sulla solidarietà sociale.
Ieri nelle foto che ritraggono il tavolo delle segreterie unitarie con Cisl e Uil – che ieri hanno deciso di costruire documenti unitari su tutti i punti della manovra e discuterli nelle assemblee con i lavoratori e presentarli poi a tutte le forze parlamentari – , Landini viene immortalato già con Barbagallo e Furlan. Anche loro sanno che il cambio alla guida della Cgil non sarà traumatico. Anche perché entrambi hanno avallato e spinto la candidatura di Susanna Camusso al congresso del sindacato mondiale Ituc che a dicembre dovrebbe eleggerla segretaria generale. Sarebbe la chiusura del cerchio.

il manifesto 9.10.18
Dalle acclamazioni ai fischi: Genova ha perso la pazienza
Buio pesto. Corteo contro «l’immobilismo» delle autorità e per ricordare le difficoltà - dal crollo del ponte Morandi - di oltre 50mila persone
di Giulia Mietta


GENOVA  E al terzo giorno le acclamazioni si trasformarono in fischi. Limitati, circoscritti, ma pur sempre fischi. La parabola di Marco Bucci, da sindaco di Genova pronto – parole sue – a scendere a Roma con una flotta di barche a vela per protestare contro il decreto urgenze, a commissario per la ricostruzione nominato dal governo, si è evoluta nel giro di un fine settimana. Così ieri mattina, in piazza De Ferrari, fra i partecipanti alla manifestazione organizzata dai cittadini e commercianti della Valpolcevera, l’insofferenza si è tradotta ad alto volume.
E POCO IMPORTA SE IN SERATA gli organizzatori dell’iniziativa hanno voluto sottolineare come il dissenso fosse stato espresso da persone «in felpa», addossando la responsabilità dei fischi ad alcuni sindacalisti Fiom (che ufficiosamente hanno comunque smentito). Si è trattato comunque della prima contestazione nei confronti delle istituzioni dal 14 agosto.
Il corteo, circa 1.500 persone, sulle note di The Wall, ha sfilato nelle vie del centro aperto da uno striscione dipinto come se si trattasse, appunto, di un muro.
«Oltre il muro è lo slogan che abbiamo scelto – dice Carlo di Bernardo, uno degli organizzatori – per far presente che a nord di ponte Morandi c’è una comunità di 50 mila persone che soffoca nell’isolamento, per la mancanza di collegamenti, per il traffico impazzito, per la lontananza dagli ospedali e per la perdita di clienti e commesse, chiediamo risposte concrete, a partire dalla riapertura delle strade che possono essere riaperte, altrimenti torneremo in piazza e allora sì che bloccheremo la città».
A Genova ieri, per un incontro con il commissario Ue ai Trasporti Violeta Bulc, c’era anche il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli.
HA PROMESSO che il decreto urgenze sarà modificato, ma ha chiesto ai genovesi di non contestarlo. «Lo abbiamo scritto con il cuore – ha dichiarato – con una tecnica giuridica molto elevata e permetterà al nuovo commissario di lavorare bene e senza occuparsi degli eventuali ricorsi, se lo avessimo scritto un po’ meno bene avrebbero potuto esserci». In audizione alla Camera, l’Ad di Autostrade Castellucci, sul tema, si è limitato ad affermare che «deciderà il cda». Ma il governatore della Liguria Toti non è così convinto che la legge sia a prova di avvocato: «Speriamo che oltre che con il cuore sia stato scritto anche con il cervello», la chiosa. Eppure, nonostante tutto, non è nei confronti di Toninelli che sono scattate le contestazioni di piazza (le uniche in aeroporto, da parte di alcuni lavoratori di Spea e Pavimental, ma il ministro è svicolato da un ingresso secondario).
«Vediamo cosa succede tra una settimana – afferma il presidente del comitato degli sfollati di ponte Morandi, Franco Ravera – il ministro ci ha assicurato che il decreto sarà migliorato sia nella parte legislativa, sia per quanto riguarda le coperture sia in tema di indennizzi e risarcimenti, quindi aspettiamo, ma basta bugie».
OLTRE ALLE BUGIE, quello che, a 55 giorni dal disastro, i genovesi non sopportano più è l’immobilismo. «Trenta giugno è una strada, non una data». È un altro degli slogan urlati in corteo e anche se sembrerà un messaggio criptico per chi non sia pratico della toponomastica del capoluogo ligure, per i cittadini della Valpolcevera è il simbolo delle problematiche che non si risolvono. Via Trenta Giugno è una delle strade lungo il torrente Polcevera e, quando c’era il viadotto, ci passava sotto. È, soprattutto, la prima arteria di collegamento tra periferia e centro che potrebbe essere riaperta: il Comune promette di farlo da giorni. UNA
PARTE DI VIA Trenta Giugno, però, rientra per 80 centimetri nella zona rossa e avere il via libera da parte della procura che indaga sul crollo è più complicato del previsto. «Intanto però nel mio negozio non viene più nessuno», si sfoga Mauro Puppo, giocattolaio. E poi c’è Marianna Amatore, giovane residente nella «zona arancione». Dopo il crollo del Morandi, con la sua Panda, ha iniziato a dare passaggi a chi ha bisogno di spostarsi da una parte all’altra della vallata. Ieri è stata lei a presentare ai due commissari il documento collettivo stilato dal comitato Oltre il ponte: «Nonostante la nostra storia e i nostri avi, non abbiamo bisogno di promesse da marinaio».

Il Fatto 9.10.18
In Europa i Cinque Stelle sono più affini al Pd che alla Lega
Campagna elettorale - Salvini è sempre più legato alle destre, mentre il M5S a Bruxelles guarda a sinistra e dovrà scegliere tra grande coalizione ed euroscettici
di Stefano Feltri

Matteo Salvini lo chiama “fronte della libertà”, un’alleanza forse con candidati comuni tra la Lega e il Rassemblement National di Marine Le Pen, ieri in pellegrinaggio a Roma. E i Cinque Stelle? Di sicuro non ne faranno parte, cosa che renderà la campagna elettorale per le elezioni europee di maggio 2019 complicata per Luigi Di Maio e soci.
Il 12 settembre i rappresentanti del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo hanno votato a favore delle sanzioni contro l’Ungheria per le politiche autoritarie del premier Viktor Orbán, membro del Partito popolare europeo ma sostenuto da Salvini, Le Pen ed euroscettici vari. Non è stato soltanto un episodio. Se misuriamo l’atteggiamento dei Cinque Stelle sull’Europa dai loro voti al Parlamento europeo, si capisce perché sembra impossibile replicare a Bruxelles la coabitazione che osserviamo in Italia. Ecco i dati che abbiamo chiesto di elaborare a Davide Ferrari, ricercatore di Votewatch, uno dei più influenti think tank europei che conduce analisi sul processo decisionale. Si scopre così che il M5S ha votato come Ukip – gli indipendentisti inglesi all’origine della Brexit, parte dello stesso gruppo parlamentare – soltanto nel 27 per cento dei casi, mentre la percentuale sale al 70 per cento nel confronto con Gue, la sinistra cui appartiene, per esempio, Barbara Spinelli. La coincidenza di voti tra Lega e Cinque Stelle è più bassa, 50 per cento, inferiore alla quota di voti uguali tra M5S e Pd, 58 per cento.
Le affinità con la Lega dipendono soprattutto dall’essere entrambi all’opposizione di quella grande coalizione Ppe-socialisti che ha retto la legislatura europea dal 2014.
Se si guarda ai comportamenti di voto sui singoli dossier, spiega Davide Ferrari di Votewatch, i Cinque Stelle si possono definire “più eurocritici che euroscettici”. Alcuni esempi: sono abbastanza allineati con la Lega sui dossier a più alta temperatura politica, come la gestione dell’euro e il commercio internazionale (trattati di libero scambio), ma su alcuni dossier “europeisti” le posizioni si divaricano. I Cinque Stelle hanno votato a favore delle liste transnazionali (proposta che non è passata) per redistribuire i posti lasciati liberi dagli inglesi, in uscita dalla Ue, mentre la Lega era contraria. Il M5S è favorevole a discutere le regole su come l’Ue deve comportarsi con i “profughi climatici”, quelli che devono fuggire a causa dei cambiamenti ambientali. La Lega non vuole sentirne parlare.
Per quanto diversi, però, Lega e M5S rischiano di finire dalla stessa parte, cioè all’opposizione. Perché la “grande coalizione” tra Ppe e S&D (i socialisti) è finita ma soltanto per essere sostituita da una “super coalizione” che includerà anche i liberali e, chissà, En Marche! di Emmanuel Macron.
Secondo Votewatch, S&D e Ppe hanno smesso di spartirsi le poltrone con il bilancino quando al posto del socialista Martin Schulz i popolari hanno preso anche la guida del Parlamento con Antonio Tajani, dopo la Commissione (Jean Claude Juncker) e il Consiglio (Donald Tusk). Ma le due forze politiche hanno continuato a votare insieme, nel 76 per cento dei casi. Il dibattito politico “si sta spostando a destra”, osserva Davide Ferrari, ma il Ppe vota come i partiti sovranisti alla sua destra solo nel 30 per cento dei casi, perfino sull’immigrazione. Pare quindi improbabile che si arrivi a una coalizione allargata che qualcuno immaginava dopo l’incontro a Milano tra Salvini e Orbán a fine agosto.
Lo schema sarà ancora, chissà se per l’ultima volta, una maggioranza di partiti tradizionali più o meno europeisti contro partiti e movimenti anti-europei. Anche se le incognite sono molte e potrebbero condizionare le scelte di campo dei Cinque Stelle. La cancelliera tedesca ha investito come prossimo presidente della Commissione Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare. Ma gli contende quel ruolo tra i conservatori Alexander Stubb, atleta di triathlon soprannominato “Iron Man”, ex primo ministro finlandese. In teoria dovrebbero sfidarsi per conquistare la carica di Spitzenkandidat del Ppe nel sistema nato nel 2014: ogni partito individua il suo candidato e poi il Consiglio europeo (cioè i governi nazionali) può scegliere il presidente soltanto tra questi, partendo dal più votato, altrimenti i partiti non daranno la fiducia in Parlamento. Un sistema che doveva imporre la forza del Parlamento sui governi, ma che si sta sgretolando, contestato anche da Macron che vuole riportare il potere decisionale tutto al Consiglio (dove, come Francia, lui pesa molto di più e può provare a imporre il francese Michel Barnier, Ppe, capo negoziatore per la Brexit). Anche i socialisti sono nei guai: l’unico formalmente in corsa è lo sconosciuto Maros Sefcovic, vicepresidente slovacco della Commissione. Scalpitava Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici che in questi giorni duella col governo italiano sulla manovra, ma non è riuscito ad avere neppure il sostegno del suo Partito socialista in Francia e ha detto di non correre. Avrebbe avuto qualche possibilità Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera, ma l’Italia, e soprattutto il Pd, non l’hanno sostenuta.
A queste spaccature dentro i partiti e tra partiti si aggiungono quelle tra governi: secondo l’analisi di Votewatch, stanno aumentando i voti a maggioranza invece che all’unanimità dentro il Consiglio europeo. Una buona notizia perché l’unanimità significa che tutti hanno potere di veto e questo rallenta l’integrazione, ma indica anche che alcuni governi – come quelli dell’Est nel gruppo di Visegrad –, possono poi raccontare alle proprie opinioni pubbliche di non condividere le regole e le decisioni che si trovano a subire, e questo alimenta sentimenti euroscettici. Il caos istituzionale e politico è tale, al momento, che ipotizzare le ripercussioni delle elezioni europee sul governo e la politica italiana pare un azzardo eccessivo.

il manifesto 9.10.18
Non Una di meno, la marea femminista torna in piazza il 24 novembre
Contro la cultura della violenza. Due giorni di confronto a Bologna. Il movimento femminista si mobilita contro il ddl Pillon il 10 novembre, punta sulla manifestazione nazionale a Roma il 24 e si prepara allo sciopero globale delle donne dell'8 marzo prossimo. Si inizia il 13 ottobre contro la mozione antiabortista di Verona
di Shendi Veli


BOLOGNA  Un applauso scrosciante, lunghissimo, ha concluso la due giorni della rete femminista Non Una di meno, lo scorso fine settimana a Bologna.
Il risultato dell’incontro è la convocazione di una manifestazione nazionale il prossimo 24 Novembre a Roma, seguita da un’assemblea il giorno dopo. Il movimento è collegato, politicamente e spiritualmente, alle battaglie che in questi anni hanno animato le piazze globali, dall’Argentina agli Stati Uniti, dalla Spagna alla Polonia: “Dobbiamo riconoscere che se appare legittimo dire che la libertà di qualcuno si può conquistare solo al prezzo dell’oppressione di qualcun altro, noi siamo l’unico movimento globale a rifiutare espressamente questa logica” si legge nel report conclusivo, una proposta politica complessiva in chiave femminista e antirazzista. Salute, welfare, educazione, ma anche politiche migratorie e culturali.
In Italia l’oggetto della manifestazione del 24 novembre sarà l’opposizione ai provvedimenti del governo considerati xenofobi e liberticidi. Dal decreto sicurezza che punta a chiudere i confini e militarizzare le città, alla circolare contro le occupazioni, che colpisce spesso nello specifico spazi femministi e centri antiviolenza.
Fino al disegno di legge Pillon, la cui approvazione inficierebbe gravemente la possibilità per donne e minori di scegliere di allontanarsi da partner e padri in caso di violenza domestica.

Il Fatto 9.10.18
Emma Bonino ironizza su Salvini: “Copre tutti i ministeri, gli altri possono andare a casa”
di Mauro Episcopo

“Fatta salva la libertà d’opinione e di stampa, consiglierei ai giornali di non seguire ogni sparata del ministro dell’Interno. Perché così si fa il suo gioco”. A dirlo è Emma Bonino, senatrice di +Europa, alla Feltrinelli di Galleria Alberto Sordi, a Roma, durante la presentazione di La Lega di Salvini. Estrema destra di governo di Gianluca Passarelli e Dario Tuorto. “Salvini ricopre tutti i ministeri, da quello della Salute a quello dell’Economia. Mi pare che gli altri possano andare tranquillamente a casa”.
un video qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/10/09/emma-bonino-ironizza-su-salvini-copre-tutti-i-ministeri-gli-altri-possono-andare-a-casa/4679682/

Il Fatto 9.10.18
Il candidato Richetti esattamente a metà tra Matteo e Renzi
di Andrea Scanzi

Matteo Richetti si è ufficialmente candidato al ruolo di segretario del Pd. Nulla di clamoroso: prevederlo era facilissimo. Il Matteo dotato del Pd, con quel suo tono furbamente autocelebrativo, ha detto: “Mi hanno chiesto se fossi matto. La vera follia è starsene con le mani in mano mentre questo Paese è governato da Salvini e Di Maio. E io dovrei stare fermo ad aspettare le tattiche, le cene?”. Richetti, dunque, lo fa per noi: per salvarci dai populisti, dai sovranisti e dalle Tenebre. Grazie Matteo. Questa rubrica ha già parlato di Richetti, non per sadismo ma perché il personaggio è uno dei pochi under 45 pidini dotati di talento. Il 7 aprile scorso, il senatore di Sassuolo ha varato l’enigmatica corrente “Harambee”, con l’intento di “smuovere il trauma del 4 marzo”. Un “trauma” a cui Richetti ha contribuito in prima persona, essendosi ridotto da fine 2016 – giusto a ridosso del referendum del 4 dicembre – a zelante portavoce ventriloquo di Renzi. Vederlo zimbellato dal Matteo (al tempo) più noto era avvilente: non tanto per noi, quanto per lui. Dopo essere stato renziano della prima ora, Richetti aveva rotto con Renzi per motivi più personali che politici. A quel punto, durante la fugace ma spietata età dell’oro renziana, era stato relegato ai margini: una sorta di via di mezzo tra renzismo e civatismo. A microfoni spenti, prima e dopo le puntate dei talk show, Richetti riservava critiche durissime a Renzi e renzismo. Roba che, in confronto, Di Battista è Gozi. Poi però, in diretta, menava puntualmente il can per l’aia. Da buon democristiano emiliano. Pareva attendere il perdono del Tondo di Rignano, che è infatti arrivato dopo una puntata di Otto e mezzo nel settembre 2016, durante la quale Richetti perorò la causa del “sì” al referendum. Lo ricordo bene perché a quella puntata c’ero anch’io. Richetti non disse nulla di clamoroso, ma il solo fatto di apparire più convincente di Genny Migliore esaltò il Tragedia. Che, a quel punto, lo richiamò a sé.
Di colpo Richetti cominciò mestamente a scodinzolare, ripetendo i mantra renziani e subendo passivamente le sue angherie quando quell’altro lo sfotteva sui chili di troppo e i capelli che cadevano. Scene terribili: quello straziante periodo vissuto da scendiletto renzico resterà una colpa imperdonabile. Richetti è però uomo intelligente, oltre che ambizioso, gradevole e scaltro. E dunque si è candidato. A Otto e mezzo, incalzato da Damilano, è arrivato a dire che è impossibile che lui perda: di sicuro l’autostima non gli manca. Durante la puntata di giovedì scorso, Richetti non ha voluto infierire sul servizio fotografico della Boschi (che lui ben conosce). Ha detto che il suo Pd vuol tenere insieme Corbyn e Macron, che è un po’ come dire “Sono vegano, ma la chianina mi fa impazzire di brutto”. E si è guardato bene dallo sciogliere il dilemma di fondo: la sua candidatura è o non è renziana? Su questo Richetti sta nel vago, speranzoso di calamitare quei renziani in fuga dal Bomba e al tempo stesso ostili a Zingaretti. Richetti fa bene a porsi come obiettivo un Pd “diverso”, ma tale discontinuità non può prescindere dal riconoscere come Renzi sia stato l’Armageddon di sinistra e partito. Invece lui sta nel mezzo, convinto che paraculismo e supercazzole gli garantiscano l’ambito scranno. Sarà forse per questo che, dopo aver sentito con attenzione i quaranta minuti di semi-monologo richettiano su La7, mi sentivo carico come una blatta, reduce magari da un simposio su Hegel moderato da Raimo. Non solo: di quei 40 minuti, a ben pensarci, non ci avevo capito nulla. Forse anche meno.

il manifesto 9.10.18
La Romania diserta il referendum omofobo
Europa. Vota solo il 20,4% degli aventi diritti, sonora sconfitta per la Chiesa ortodossa e per il governo socialdemocratico che volevano inserire in Costituzione una definizione di famiglia piuttosto ristretta: solo matrimonio e solo tra sessi opposti


I rumeni si sono dimostrati molto più progressisti dell’élite politica: è stato un flop il referendum sulla ridefinizione del concetto di famiglia nella carta costituzionale. Il quorum al 30% non è stato nemmeno avvicinato: solo il 20,41% ha votato, nonostante due giorni di urne aperte.
Fallisce così l’offensiva della Chiesa ortodossa che voleva inserire nella legge fondamentale la definizione di famiglia come «matrimonio tra un uomo e una donna» e non «tra due coniugi». Non che questo conduca a unioni civili o matrimoni tra omosessuali, ma di certo segna la sconfitta sia degli ortodossi conservatori che del partito al governo, il socialdemocratico Psd che aveva fortemente appoggiato il referendum.

il manifesto 9.10.18
Brasile, le forze democratiche ora non hanno più scelta
Caccia ai voti. Fernando Haddad, il "candidato di Lula", si prepara al ballottaggio del 28 ottobre: «Vogliamo unire tutti coloro che hanno a cuore la democrazia e si preoccupano per i più poveri, per realizzare la giustizia sociale». Nuovo Congresso dominato da maschi bianchi. Dilma Roussef esclusa dal Senato
di Claudia Fanti


Ci sono solo tre settimane di tempo per colmare l’abissale divario – 29,28% contro 46,03% – che divide Fernando Haddad dal candidato di estrema destra Jair Bolsonaro. A un passo dalla barbarie, le forze democratiche non hanno altra scelta che unirsi in una mobilitazione senza precedenti contro il pericolo neofascista, tentando di convincere le fasce popolari che il presunto candidato anti-sistema è in realtà la versione più radicalizzata e violenta del modello economico-sociale neoliberista promosso dal governo Temer.
«QUESTI RISULTATI sono una sfida – ha dichiarato il “candidato di Lula” -, perché ci mostrano i rischi che corre la democrazia in Brasile. Noi vogliamo unire tutti coloro che hanno a cuore la democrazia e si preoccupano per i più poveri, per realizzare la giustizia sociale».
Difficile tuttavia che Haddad possa contare su alleanze diverse da quella, già sicura, con Guilherme Boulos (0,6%), e da quella, piuttosto probabile, con Ciro Gomes (12,47) – il quale ha già pronunciato il suo Ele não, «Lui no» -, considerando che in molti, tra le forze di centro-destra, passeranno armi e bagagli sul carro di Bolsonaro.
LA SFIDA POTRÀ ESSERE VINTA, insomma, solo pescando massicciamente tra i 7 milioni di schede nulle, i 3 milioni di schede bianche e i quasi 30 milioni di astensioni che hanno caratterizzato il primo turno, per un totale di 40 milioni di persone che non hanno espresso alcuna preferenza. E sarà possibile farlo soltanto riportando al centro della scena i contenuti, le proposte e i programmi di governo dei due candidati, completamente oscurati durante la campagna che ha preceduto il primo turno. Su questo piano, Haddad ha attaccato ripetutamente il suo avversario, evidenziando come egli «non potrà continuare a nascondersi» fino al ballottaggio dietro la coltellata che ha ricevuto e auspicando «un confronto faccia a faccia».
La questione, tuttavia, è più complessa, dal momento che la televisione ha smesso di essere la principale fonte di informazione dell’elettorato, perdendo terreno a favore di Internet e delle reti sociali, utilizzate dal 42,5% degli elettori (rispetto al 36,7% di quanti si rivolgono ancora in maniera privilegiata alla tv). E che sono proprio le reti sociali – con almeno 100 gruppi di WhatsApp, diffusissimo in Brasile – il regno di Bolsonaro e dei suoi adepti, in cui essi hanno dato prova di una straordinaria capacità di utilizzo delle fake news contro Haddad e il Pt.
Una strategia che si è rivelata assolutamente vincente, se è vero che il candidato di estrema destra, sconfitto solo nel Nordest e in Pará, è riuscito a trasformare un partito che era poco più di una sigla, il Psl (Partido Social Liberal), in una grande forza parlamentare, passando da 8 a 51 deputati e restando dietro soltanto al Pt, che di seggi ne ha avuti 57 (rispetto agli attuali 61).
IN GENERALE, SE A SALVARE il Partito dei lavoratori è stato soprattutto il Nordest, la regione più povera del Paese e quella che più ha beneficiato dalle politiche sociali dei governi del Pt, il Psl ha dominato in particolare i due più importanti Stati del Paese, São Paulo – dove il figlio di Bolsonaro, Eduardo, è stato il candidato più votato della storia alla Camera dei deputati – e Rio de Janeiro, dove un altro figlio, Flávio, è stato eletto come senatore con il maggior numero di voti.
In un Congresso che sarà ancor più dominato da maschi bianchi – pochissime le donne e praticamente assenti afrodiscendenti e indigeni – mancheranno invece all’appello molti esponenti politici legati alle forze golpiste, le quali, scatenando la loro campagna d’odio contro il Pt, nella convinzione di poter agevolmente controllare l’estrema destra, sono cadute vittima del loro stesso gioco.
QUANTO AL PARTITO dei lavoratori, se assai amara appare l’esclusione dal Senato di Dilma Rousseff, giunta solo quarta in Minas Gerais malgrado i sondaggi l’avessero data a lungo al primo posto nelle intenzioni di voto, il Pt può almeno consolarsi con l’elezione già al primo turno di tre governatori: Camilo Santana in Ceará, Wellington Dias in Piaui e Rui Costa in Bahia. Fátima Bezerra va al ballottaggio in Rio Grande do Norte con Carlos Eduardo (Pdt). Mentre in Maranhão ce l’ha già fatta Flávio Dino del Partido Comunista do Brasil (PCdoB), alleato storico del Pt.