Repubblica 6.10.18
Al Complesso del Vittoriano di Roma
Così Pollock guidò l’America alla conquista dell’Europa
di Fabrizio D’Amico
11
agosto 1956: Jackson Pollock, guidando in preda all’alcol, si schianta
contro un albero. Finisce così, a Long Island, la breve vita (era nato
nel ’12, nel Wyoming; aveva appena 44 anni) del pittore che più d’ogni
altro aveva giustificato il battesimo di action painting attribuito da
Harold Rosenberg alla nuova pittura americana, quell’espressionismo
astratto dal cui alveo era nata la cosiddetta scuola di New York
(assieme a Pollock, tra gli altri, Willem de Kooning e Franz Kline):
quel modo, cioè, di dipingere cieco e urgente, veemente e affidato ad un
gesto non preventivato, che ora viene raccontato dalla mostra Pollock e
la Scuola di New York al complesso del Vittoriano di Roma (realizzata
in collaborazione con il Whitney Museum e curata da David Breslin e
Carrie Springer con Luca Beatrice, dal 10 ottobre al 24 febbraio 2019).
Quella pittura si diffuse presto ovunque nel vecchio continente. E anche
in Italia, dove l’action painting fu reinterpretata soprattutto da Toti
Scialoja, che subito annotò sul suo
Giornale della pittura: «Serata soffocante in un caffè sul marciapiede di viale Parioli.
...Colla
dice ad un tratto, carezzando la sua cagna cieca: "Povero Pollock".
"Perché povero", domando. "Non lo sapevi, è morto". Tutti preghiamo
ardentemente che si tratti di una falsa notizia, di un momento di
mistificazione o di stravaganza fantastica di Colla. Ma, mentre lo
interroghiamo, sentiamo salire dentro di noi, irrimediabile, l’oscura
densità di questa morte».
Ne era discesa, in Scialoja, una ferma
"volontà di tirare subito delle conclusioni". Ma non solo in lui: quel
modo di dipingere avrebbe di lì a poco invaso l’Europa, spostando il
centro dell’arte mondiale da Parigi a New York. Prima di divenire "il
pittore più potente oggi in America, l’unico che promette di divenire un
grande", come scrive nel 1947 Clement Greenberg, Pollock fa un po’ di
tutto: gira l’America, fa il boscaiolo, scopre le tracce delle antiche
culture pellerossa, si interna volontariamente in ospedale e si impegna
in faticose terapie per tentare di disintossicarsi dall’alcol, pratica
la scultura, segue gli insegnamenti – improntati al realismo – di Thomas
Hart Benton, si impegna politicamente, insegue i dipinti murali di
Siqueiros e di Orozco, partecipa al progetto governativo di sostegno
agli artisti – il Federal Art Project – da cui è presto espulso per
troppe assenze.
Poi, nel ’42, Peggy Guggenheim rientra a New York
dall’Europa, e apre in città la sua galleria, Art of this Century. Peggy
visita lo studio di Pollock, e non ne rimane all’inizio particolarmente
colpita; ma poi, seguendo l’indicazione di Duchamp, e un giudizio
lusinghiero di Mondrian sul giovane, si convince a offrirgli la
possibilità di esporre. Così Pollock – a trent’anni, quando sta per
aprirsi la sua stagione matura – tiene la sua prima mostra personale
presso la galleria della Guggenheim, e soprattutto s’è conquistato
l’appoggio della più influente donna di New York.
All’inizio del
loro durevole e fecondo rapporto, Pollock è ancora attratto dall’icona
di una misteriosa figura, a mezzo fra selvaticamente carnale e totemica,
che s’accampa al cuore e domina i suoi dipinti; poi, presto, frantuma
l’integrità e la plausibilità di quella "figura" in un ritmo sincopato e
convulso.
Infine, lo ritroviamo disperso e disseminato ovunque, e
ad esempio in Number 27 ( 1950) – qui esposto –, celebre esempio del
suo dripping maturo, del modo cioè di far colare con apparente casualità
il colore (per lo più uno smalto), liquido e brillante, sulla tela che
egli voleva scesa dal cavalletto, spesso di grandi dimensioni, e sempre
stesa a terra, per poterla percorrere "da dentro", assalendola con
un’affannosa gestualità, condotta dal pennello usato "come un bastone",
dalla spatola, o dal colore direttamente spremuto dal tubetto. Un modo
che durò almeno sino al termine degli anni Quaranta; fino a quando,
prossimo alla fine e ormai solo raramente operoso, egli non mise le
premesse per quel misterioso ritorno ad un’immagine turbata che occuperà
i suoi ultimi anni.
Il legame fra Pollock e la Guggenheim,
fondamentale per la immensa fortuna del pittore, sembrò per un attimo
allentarsi quando Peggy decise di tornare in Europa, e chiuse la
galleria newyorchese, dove il giovane pittore, fra ’43 e ’47, aveva
tenuto quattro personali. In realtà quel legame restò a lungo
strettissimo, tanto che la prima personale europea fu proprio Peggy a
volerla e a organizzarla, al museo Correr di Venezia. Ma già due anni
prima, il 1948, nella prima e cruciale Biennale veneziana del
dopoguerra, la Guggenheim – ormai radicata e autorevole in laguna – era
riuscita a presentare la propria collezione, nella quale era tra l’altro
La donna luna di Pollock, un quadro con il quale il pittore mostrò a
tutti d’essere il capofila della sua generazione.
Prima di lui,
avevano posto le basi della nuova pittura Arshile Gorky e Hans Hofmann,
entrambi d’origine europea. Aprirono una strada che proseguirà altissima
fino a Mark Rothko (anch’egli di nascita europea), con cui idealmente
si chiude la mostra di oggi, dedicata agli "irascibili", quel manipolo
di artisti che si battezzò così, a New York, nel 1950, rubando questo
termine soprattutto alla foga di Pollock.