Repubblica 26.10.18
La chimica dell’amore
"La mia vita agra e senza tenerezza con Bianciardi"
Maria
Jatosti racconta la tormentata relazione con il grande scrittore. Liti,
separazioni, riconciliazioni e un finale drammatico "Prima di morire
ucciso mi dedicò le sue ultime parole: è tutta colpa tua"
di Simonetta Fiori
ROMA
Prima di cominciare vorrei chiudere la porta». Quasi sussurra Maria
Jatosti, la "Maria del Bianciardi", la donna che irrompe fin dalle prime
pagine de La vita agra con l’indomita forza della bellezza.
Prossima
ai novant’anni, Maria è ancora molto bella ed energica. Ha modi
schietti da "pasionaria della Garbatella" e occhi lunghi che non stanno
mai fermi, come a cercare delle risposte impossibili. Parla piano perché
non vuole disturbare Paolo Memmo, il suo compagno da 40 anni, «il poeta
che mi ha dato la tenerezza e il rispetto che da Luciano non avevo
avuto». Nella sua stanza da letto, all’ombra protettiva di una nicchia,
la scrittrice ci affida la sua storia d’amore con uno degli scrittori
più inquieti del Novecento. «Ne sono uscita a pezzi, completamente
azzerata. Paolo è stato il mio angelo salvatore. Riuscì a cogliere ogni
mia ferita dopo aver letto Tutto d’un fiato, il libro autobiografico
uscito nel 1977, sei anni dopo la morte di Luciano: più che un romanzo,
la cartella clinica di un male profondo».
Oggi il suo sguardo su quella storia è cambiato?
«Non
saprei. Stanotte, preparandomi per questa intervista, ho scoperto che
ricordo le cose brutte e faccio fatica a ricordare i momenti belli, che
pure ci sono stati. Io mi ritrovo a chiedermi: ma com’era l’amore per
lui? Perché mi sono innamorata di Luciano? So che è stato un grande
amore, ne trattengo le prove nella carne, ma se incontrassi un uomo così
oggi non lo potrei amare».
Cosa le fa ancora male?
«Quando
ci siamo messi insieme, al principio degli anni Cinquanta, io ero una
giovane donna forte, autonoma, con il passo da guerrigliera. Comunista,
mille esperienze di lavoro, pure la galera per una manifestazione contro
gli Usa. Ma con Luciano tutto questo finisce. Pian piano mi spengo. Lui
è riuscito a dominarmi completamente: forse in modo consapevole, perché
in realtà mi amava moltissimo. Ma il risultato fu disastroso».
In che modo la spegneva?
«In
tanti modi. Uno era lo sfottò martellante del Partito, anzi del
"Partido" come lo chiamava lui facendomi il verso da romanaccia.
Ridicolizzava
la mia vita di militante comunista, impedendomi a Milano di frequentare
la sezione. Per anni non ho rinnovato la tessera. Eppure il partito era
la mia casa, la mia famiglia, il mio avvenire».
Forse per questo l’ha indotta a tagliare.
«Dovevo essere solo sua e basta.
Senza grilli per la testa».
Ma aveva scelto lei, Maria, proprio perché indipendente e spregiudicata.
«Sì,
ero la donna con cui fare la rivoluzione. E infatti la nostra storia
aveva ripreso linfa proprio dopo la strage di Ribolla, nel 1954, con la
morte in miniera di quarantatré lavoratori maremmani. Che ci sto a fare
qui, si domandò Luciano. S’era reso conto che bisognava far saltare il
torracchione, metaforicamente. E io ero la compagna che poteva capire e
affiancarlo nella rivolta.
Venne a trovarmi a Roma e la storia ricominciò».
Perché si era interrotta?
«Ci
eravamo conosciuti nel 1950 a Livorno durante una riunione nazionale
dei cineclub. Una sera a cena cominciò a recitare una poesia di Spoon
River, guardandomi con una tale intensità e prepotenza da farmi male. Mi
innamorai di quello sguardo. Poi andammo a passeggiare al mare e
parlammo di tutto: letteratura, politica, il mondo intero dentro e fuori
di noi. Una notte bellissima, magica. "Sono sposato ma questa notte è
nostra", mi disse lui».
Fu romantico?
«No, non è la parola giusta per Luciano. Né romantico né tenero.
Finimmo
a letto, ovviamente. Per me era una cosa abbastanza naturale: avevo
vent’anni, ero libera e sfrontata, ma avevo interesse più per l’incontro
umano che per il sesso, di cui non sapevo niente. "Sembri un sacco di
patate", mi disse. E finché è durata la nostra storia io non ho mai
condiviso con Luciano un preambolo tenero, uno scambio di dolcezze.
Niente. Si faceva sesso e basta. Anche da quel punto di vista, io non
c’ero».
La relazione continuò?
«Sì, tra Roma e Grosseto
correvano due lettere al giorno. Fin quando la moglie lesse il carteggio
amoroso e Luciano preferì troncare. Ma dopo l’esplosione in miniera mi
venne a cercare».
Comincia l’esperienza milanese raccontata ne "La vita agra".
«Anni di grande felicità, di scoperta e di avventura, nella piccola stanza di
Brera».
Eravate
una coppia clandestina. Bianciardi scrive che l’ostilità della gente
talvolta gli entrava dentro. E la riversava su di lei, tempestandola di
domande: che ci fai? Che vuoi da me? Perché sei arrivata? Aveva sensi di
colpa per la moglie abbandonata.
«Sì, questo era il rimorso della
sua vita. Una ferita mai curata. Non s’è mai perdonato di aver lasciato
una moglie devota per una donna dal passato che giudicava tremendo.
Aveva lasciato una santa per una puttana, che però adorava».
E la faceva sentire in colpa?
«Certo.
Lì è cominciato il lavorio distruttivo che ha finito per annichilirmi.
Ora è doloroso ricordare che per me c’era la mammana pronta, mentre con
la moglie nel 1955 ebbe un’altra figlia, Luciana. E fino alla fine
avrebbe negato il suo nome al nostro Marcello, il figlio della colpa».
L’anarchico rivelava un lato fortemente tradizionalista.
«È
questa la grande contraddizione di Luciano, uomo antico e modernissimo.
Da una parte era molto legato alla terra, alle radici toscane, ai pigri
rituali della borghesia minima grossetana, tra il casino il sabato
pomeriggio e la messa la domenica. E dall’altra aveva un’intelligenza
profetica proiettata sul futuro: quando tutti sbavavano sul boom, lui
comprese che stavamo andando verso una fregatura».
Lei ha capito da dove venivano i suoi fantasmi?
«Luciano è morto di sensi di colpa.
Prima di morire, ucciso dall’alcol e dai barbiturici, mi dedicò le sue ultime parole: "È tutta colpa tua".
Una dannazione, più che un commiato. Io per fortuna so come sono andate le cose. Però è stata durissima».
È morto della sua contraddizione.
«Se fosse rimasto a Grosseto, avrebbe avuto una vita più serena.
Però non avrebbe scritto La vita agra ».
Quando uscì il romanzo, nel 1962, fu un grande successo. Ma qualcosa tra voi si incrinò.
«Io
detestai quel libro. Mi fece molto male. Quella che leggevo in quelle
pagine non era stata la nostra vita, la nostra grande avventura. E non
mi ritrovavo nel personaggio di Anna: non ero io quella donna che o
dormiva o scopava».
Lei era anche infastidita dalla mondanità scatenata dal successo.
«Quella
baraonda dissennata ci stava cambiando. Luciano mi sembrava inebriato,
non si perdeva un cocktail e cominciò a bere smodatamente. Io non
sopportavo lo spettacolo dell’anarchico che se la godeva, proprio lui
che voleva far saltare il torracchione. Era stordito e anche sorpreso:
ma guarda questi stronzi, mi diceva, dovrebbero picchiarmi e invece mi
fanno il monumento.
Decisi di tornarmene a Roma, con mio figlio. Ma dopo dieci giorni Luciano venne a riprendermi: la mia vita sei tu».
Quando lo vide perdersi?
«Il
grande errore fu Rapallo, la scelta di andare a vivere lì. Luciano vi
ritrovò la provincia che aveva lasciato in Maremma e cominciò a bere
tanto. Stava molto male, consumato dalla cirrosi. Era irascibile, con
scatti violenti contro di me. Fin quando gli vidi crescere dentro la
voglia di tornare a Grosseto. Fui io a insistere: provaci, io per te ci
sarò sempre. Ma quel tentativo ebbe un esito tragico. Fu l’ultima
mazzata».
Quali demoni l’hanno ucciso?
«L’impossibilità di
vivere. Lui era quello della Vita agra. Luciano non amava la gente. Ha
amato molto i minatori di Ribolla e gli amici toscani. Però il passo in
avanti non l’ha mai fatto. E anche il lavoro era un alibi per isolarsi,
il suo modo per proteggersi dalla vita».
Di fronte all’autodistruzione lei scappò.
«Sì,
un mese prima della sua morte fuggii a Parigi con Marcello. Feci un
errore che tutti mi avrebbero rimproverato: avrei dovuto tenere la
manina del Grande Scrittore morente. Ma io mi rifiutavo di vederlo
morire. O ti curi e smetti di bere o me ne vado, gli dicevo.
Quando le sue condizioni peggiorarono tornai a Milano, ma Luciano fece in tempo solo a maledirmi».
Ebbe il funerale all’antica che immaginava ne "La vita agra"?
«Nella
camera ardente non venne nessuno: eravamo soli, io e Sergio Pautasso. E
Marcello. Arrivò una delegazione da Grosseto che mi chiese se potevano
riportarlo lì. Ma certo, risposi. Quella è la sua casa.
Non l’ha mai lasciata».
Sia in "Tutt’un fiato" che nel più recente libro autobiografico "Per amore e per odio" (Manni) non lo nomina mai. Perché?
«È
come se tutta questa storia non mi appartenesse del tutto. Negli anni
ho ritrovato il coraggio e la prepotenza, il rapporto con gli altri.
Sono tornata me stessa. E continuo a domandarmi come è stato possibile».
"Detestai quel libro Quella che leggevo in quelle pagine non era stata la nostra grande avventura