Repubblica 22.10.18
L’inchiesta
Il generale e gli ufficiali
Così i vertici dell’Arma depistarono su Cucchi
L’indagine della procura coinvolge la catena di comando di Roma
La manipolazione decisa in un summit negli uffici di Tomasone
di Carlo Bonini
Roma.
Nuovi documenti e circostanze di fatto accertate e verificate
indipendentemente da Repubblica indicano che fu l’intera catena di
comando dell’Arma dei carabinieri di Roma a coprire la verità e le
responsabilità del pestaggio mortale di Stefano Cucchi nella caserma
Casilina nella notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2009.
L’operazione
di cover-up e manipolazione di verbali e annotazioni di servizio, di
registri interni, e comunicazioni all’autorità giudiziaria, si consumò
tra il 23 e il 27 Ottobre, con ordini trasmessi per via gerarchica ed
ebbe il suo sigillo in una riunione che il 30 di quello stesso mese si
svolse negli uffici del generale di brigata e allora comandante
provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata e
comandante interregionale dei Carabinieri " Ogaden" di Napoli con
competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise). Con lui,
almeno tre gli ufficiali coinvolti. L’allora comandante del Gruppo Roma,
il colonnello Alessandro Casarsa ( oggi comandante del reggimento
corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente
erano sotto- ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano
Soligo ( allora comandante della compagnia Talenti Montesacro) e il
maggiore Paolo Unali ( allora comandante della Compagnia Casilina).
Infine, i marescialli Roberto Mandolini ( vice comandante della stazione
Appia) e il maresciallo Massimiliano Colombo Labriola ( comandante
della stazione Tor Sapienza).
I fatti, dunque. A cominciare dall’ultimo fotogramma di questa storia.
La mail con l’ordine di manomettere la verità
Il
maresciallo dei carabinieri Massimiliano Colombo Labriola, comandante
della caserma di Tor Sapienza, è un uomo previdente. Ha conservato per
nove anni la sua corrispondenza email e ogni documento utile in grado di
dimostrare da chi e quando arrivò l’ordine di falsificare le carte da
cui doveva scomparire ogni riferimento alle condizioni di Stefano Cucchi
la notte in cui, in una camera di sicurezza di quella caserma, venne
trasferito dopo il pestaggio in attesa del processo per direttissima
dell’indomani. Quella notte, Stefano mostrava segni evidenti del
pestaggio che aveva appena subito. Ma era necessario che si costruisse
una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla
magrezza costituzionale del "tossico", alla sua epilessia. A maggior
ragione per costituire futuri argomenti per la scienza medica nel suo
apparente e ignavo brancolare nel buio nello stabilire le cause della
morte di Stefano.
Labriola, pure indagato per falso, è convinto
che, trascorsi nove anni, nessuno verrà a ficcare il naso in quelle
carte che custodisce nel suo alloggio di servizio, all’interno della
caserma che comanda. Ma sbaglia, perché quando, all’inizio della scorsa
settimana, gli agenti della squadra mobile di Roma, per disposizione del
pm Giovanni Musarò, bussano a Tor Sapienza, capisce che il gioco è
finito. Chiede che gli venga risparmiata la perquisizione del suo
alloggio di fronte agli altri militari. E, spontaneamente, consegna
tutte le carte e i file che ha appena finito di mettere insieme perché —
dice — sarebbe stata comunque sua intenzione consegnarle al suo
avvocato Antonio Buttazzo nel pomeriggio di quello stesso giorno.
Le
carte stampate dal maresciallo Labriola e in particolare una delle mail
che la Polizia trova in quello scartafaccio indicano infatti al di là
di ogni ragionevole dubbio che l’ordine di falsificazione delle
annotazioni di servizio redatte dagli appuntati Francesco Di Sano e
Gianluca Colicchio ( i due piantoni che presero in carico Stefano la
notte dell’arresto) arrivò dal comando di compagnia Talenti- Montesacro,
cui la stazione di Tor Sapienza dipendeva gerarchicamente. È la prova
che Francesco Di Sano, il 17 aprile scorso, durante una delle udienze
del processo Cucchi- bis — ha detto la verità. « È vero, modificai la
relazione di servizio — aveva spiegato — Mi chiesero di farlo, perché la
prima era troppo dettagliata. Io eseguii l’ordine del comandante
Colombo, che lo aveva avuto da un superiore nella scala gerarchica,
forse il comandante provinciale (il generale Tomasone, ndr), ma non
saprei dirlo con esattezza».
Il falso cucinato da Colombo per
ordine del Comando di Compagnia prevede che il corpo tipografico
originale della annotazione di Di Sano venga rimpicciolito per
trasformare e far stare nella stessa pagina, senza che si noti la
manomissione testuale, l’iniziale ricostruzione ( « Cucchi Stefano
riferisce di avere dolori al costato e tremore dovuto al freddo e di non
potere camminare. Viene aiutato a salire le scale») in un passaggio
assai più prolisso. Che precostituisca spiegazioni alternative alla
domanda sul perché quel ragazzo non riesca a stare sulle gambe: « Cucchi
Stefano dichiara di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura
freddo umida che per la rigidità della tavola da letto priva di
materasso e cuscino, ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia
accusata anche per la sua accentuata magrezza».
Anche
l’annotazione del carabiniere Colicchio viene manomessa per mano del
maresciallo Colombo e per ordine della scala gerarchica. In questo caso,
a dire di Colicchio, senza che lui ne abbia contezza. Sentito anche lui
in aula il 17 aprile, Colicchio ricorda infatti come suo il testo in
cui era possibile leggere che Cucchi « dichiarava di avere forti dolori
al capo, giramenti di testa, tremore e di soffrire di epilessia » . Ma
esclude di aver mai redatto e firmato un’annotazione con stessa data e
numero di protocollo in cui si dà atto che Stefano «dichiara di soffrire
di epilessia, manifestando uno stato di malessere generale
verosimilmente attribuito al suo stato di tossicodipendenza e
lamentandosi del freddo e della scomodità della branda in acciaio».
Il
18 ottobre, per quasi nove ore il maresciallo Colombo Labriola ha
risposto alle domande del pm Giovanni Musarò. Il suo verbale è stato
secretato e non ci vuole un indovino per immaginare che la sua
deposizione si sia trasformata in una chiamata in correità dell’intera
scala gerarchica.
Di cui, per altro, questa storia è per altro disseminata.
La riunione del 30 ottobre e l’appunto farlocco
Che
il carabiniere Francesco Di Sano, dopo la morte di Stefano Cucchi, sia
stato assegnato a svolgere le mansioni di autista dell’allora Comandante
provinciale Vittorio Tomasone, è di per sé una circostanza che
autorizzerebbe, da sola, a pensar male. Ma è quel che accade il 30
ottobre negli uffici del Comando provinciale di Roma che dà la misura
del coinvolgimento dell’intera catena di Comando nei falsi. Alla
riunione, convocata dal generale Tomasone, partecipano il Comandante del
gruppo Roma Casarsa, i due comandanti di compagnia Unali e Soligo, i
marescialli Mandolini ( stazione Appia) e Colombo Labriola (Tor
Sapienza), che hanno materialmente disposto i falsi, nonché i
carabinieri coinvolti quella notte, anche se mancano, perché in licenza,
Tedesco e Di Sano. La riunione cade a una settimana esatta dalle 48 ore
che possono travolgere l’intera Arma e mettere fine alla carriera di un
ufficiale — Tomasone — che è la luce degli occhi dell’allora Comandante
generale Leonardo Gallitelli ed è considerato il suo naturale
successore ( « Sono la stessa cosa » , si diceva di loro). Il 23 ottobre
Ilaria Cucchi ha infatti fatto conoscere al Paese la storia di Stefano.
Il giorno successivo, quattro carabinieri vengono arrestati per il
ricatto " trans" ai danni dell’allora Governatore del Lazio Piero
Marrazzo. Tomasone è sotto pressione. Segue ossessivamente le cronache
di quei giorni su Cucchi e ai giornalisti che gli chiedono, giura sulla
propria persona, sul suo " onore di carabiniere" che « l’Arma non
c’entra».
Della riunione del 30 non viene redatto uno straccio di
verbale. Se ne tacerà l’esistenza alla magistratura che indaga. E c’è un
motivo. La riunione deve infatti verificare che "le carte siano a
posto" e i nervi dei protagonisti " saldi". Diciamo pure che è una
rappresentazione ad uso dei presenti per rassicurarli nella congiura del
silenzio. Perché, come tutti i presenti sanno, i falsi sono già stati
tutti cucinati. A quello più grossolano effettuato, tra il 16 e il 17
ottobre, dai militari direttamente coinvolti nella caserma Appia e in
quella Casilina dall’arresto di Stefano, con lo sbianchettamento del
registro di fotosegnalamento, se ne sono infatti aggiunti, tra il 23 e
il 27, di più raffinati. Che hanno richiesto " testa" e coordinamento
della catena gerarchica. Perché prevedono il coinvolgimento di almeno
due Comandi di Compagnia e del Comando di Gruppo.
Sono stati
infatti manipolati i registri di protocollo con cui si deve correggere e
dissimulare come un errore burocratico la sparizione dell’annotazione
del 22 ottobre del carabiniere Tedesco in cui riferisce del pestaggio (
viene creato un numero di protocollo bis che non insospettisca chi un
giorno dovesse andare a cercare quella carta, che è stata intanto
sottratta al fascicolo). Si devono correggere le annotazioni di servizio
della stazione di Tor Sapienza ( abbiamo visto come). Si deve fare in
modo che tutti i carabinieri a diverso titolo coinvolti nell’arresto di
Stefano la notte del 15 redigano annotazioni di servizio fotocopia che
accreditino la menzogna che verrà ripetuta per nove anni.
Il
sigillo dell’operazione è in un appunto firmato dal colonnello Casarsa,
comandante del Gruppo Roma che l’Arma trasmetterà alla Procura. Si dà
atto di un’inchiesta interna che non c’è mai stata e che, naturalmente,
assolve i militari. Si dà atto di accertamenti che non sono mai stati
condotti per il semplice motivo che, nelle caserme coinvolte dalla morte
di Stefano, si è lavorato a falsificare le carte.