lunedì 1 ottobre 2018

Repubblica 1.10.18
Il Pd respira ora servono porte aperte
di Stefano Cappellini


Il Pd sembrava morto e invece, forse, era solo svenuto. La riuscita manifestazione di piazza del Popolo non risolve i tanti problemi ancora aperti ma ha almeno centrato un obiettivo: dopo tante false ripartenze, tutte rimaste al livello di velleitari annunci, stavolta qualcosa si è mosso. Nulla di definitivo, invertire la tendenza sarà dura, ma per la prima volta da molto tempo la comunità politica che ancora riconosce nel Pd lo strumento fondamentale per dare al Paese un governo progressista, equo e laburista ha ritrovato sensazioni positive: l’idea che il declino non sia ineluttabile, che il piano inclinato delle sconfitte possa smettere di volgere a precipizio e che, in definitiva, si possa ancora sperare per il futuro di non vivere in un Paese senza una sinistra. Una comunità politica vive anche e soprattutto di questo. Il popolo dem accorso a Roma confida che questo segnale sia stato colto davvero anche dai dirigenti. Il grido che si è levato dalla piazza è molto nitido: i manifestanti chiedono che la tregua tra i big del partito duri più dello spazio di un pomeriggio. Tregua non significa disarmo delle idee. Quelle, anzi, mancano da troppo a un confronto vero, serrato e profondo. Ancora si stenta a credere che il Pd non abbia celebrato un congresso dopo la disfatta del 4 marzo. Ora una data per le primarie c’è e quel che manca è una sfida di contenuti, anche aspra, ma in un quadro di reciproco riconoscimento. Quando uno scontro interno si consuma con la minaccia, ormai nemmeno velata, che chi perde disconosce la legittimità della leadership altrui è impossibile che la contesa produca risultati virtuosi. E attenzione ai facili slogan o agli anatemi da talk show: il problema non è l’esistenza delle correnti in sé — mai esistito un grande partito socialdemocratico o conservatore che ambisca al 30-40% dei voti e che non abbia al suo interno un’articolazione di culture politiche — ma il fatto che le correnti esistano ormai solo in funzione delle esigenze dei leader e delle rispettive corti. Non producono più valori, aggregazione, orizzonte. Solo veleni e faide nelle quali si usano contro l’avversario interno toni e metodi che talvolta non si riservano nemmeno agli avversari veri. Dice Martina ai manifestanti: abbiamo capito la lezione, dateci una mano. Giusto. Ma una mano a chi vuole partecipare deve darla anche chi ha la responsabilità di guidare il partito. Perché non va sottovalutata la difficoltà di coinvolgere concretamente chi è andato in piazza nella ricostruzione della casa dem. Negli anni il Pd ha ridotto al minimo gli spazi di partecipazione, sostituito la vitalità dei circoli con l’estemporaneità dei gazebo, usato i social per scimmiottare la comunicazione grillina anziché per costruire nuove forme di partecipazione soprattutto giovanile. E poi c’è la dura realtà di un partito che in molte zone del Paese, specie al sud, è in mano a notabilati che gestiscono il consenso solo in funzione dei feudatari locali, comitati elettorali che si risvegliano sotto elezione ed entrano in sonno subito dopo. A piazza del Popolo si è aperta una finestra ed è entrata una boccata di aria fresca. Trovare il modo di lasciarla aperta è la vera sfida cui è atteso il prossimo leader del Pd, chiunque egli sia.