La Stampa 22.10.18
Nel tunnel della crisi peggiore
L’assenza di valori unitari
di Franco Debenedetti
La
crisi politica che attraversiamo potrebbe risultare la peggiore che
abbiano visto gli italiani viventi. E sì che di drammatiche ce ne sono
state. Andando a ritroso: nel 2011, quando sull’Europa si abbatté lo
tsunami originato dal terremoto dei subprime; nel 1990-92, quando la
crisi, politica, economica, morale, fece crollare il sistema che aveva
governato l’Italia per più di mezzo secolo; la guerra civile negli anni
di piombo. Perfino nel 1943, quando l’Italia fu teatro di guerra
guerreggiata.
In tutte quelle crisi una larga maggioranza
concordava sulla direzione verso cui convergere: i valori
dell’Occidente, di libertà, di democrazia, di rapporti economici, di
benessere. Non oggi: di quella stella polare viene negata l’esistenza, E
ciò rende questa crisi diversa da tutte quelle di cui abbiamo memoria.
Era
per ricongiungersi all’Occidente dopo il fascismo che con ansia
seguivamo sulla cartina l’avanzata degli alleati. Sono i valori
dell’Occidente quelli che le Brigate Rosse volevano sradicare: a
sconfiggerli fu l’unità di tutto il Paese, sindacati e Pci compresi.
Negli anni 90, pur scosso nei suoi riferimenti politici, vacillante in
larga parte della sua struttura industriale, perduto l’aggancio
monetario dello Sme, il Paese accettò le riforme con cui Amato lo
stabilizzò, poi parve adottare l’alternanza destra sinistra delle grandi
democrazie occidentali, infine scelse l’euro. E nel 2011, quando
l’Italia fu vicina a perdere la fiducia dei mercati finanziari, il
consenso al governo Monti fu tale che gli venne rimproverato non averne
approfittato per riformare, dopo le pensioni, anche il mercato del
lavoro.
In tutte quelle occasioni, al di là delle ascendenze
ideologiche e delle preferenze contingenti, su una cosa gli italiani in
larga maggioranza concordavano: che i percorsi di uscita dalla crisi
dovessero essere tutti all’interno di una preliminare scelta di campo,
la convergenza su valori e obbiettivi dell’Occidente.
Oggi è
invece l’opposizione all’Europa – il nostro Occidente più prossimo – ad
accomunare Lega e Movimento 5 Stelle. Non la richiesta di riforme, come è
dei tanti progetti in circolazione, ma la contestazione dei principi su
cui si fonda: cessione di sovranità in cambio di offerta di
solidarietà, rinuncia al torchio monetario nazionale in cambio della
stabilità dei prezzi, rinuncia ai sussidi in cambio di mercati
concorrenziali. Gli opposti populismi sono uniti dalla convinzione che,
dei nostri mali, l’entrata nell’euro sia la causa, e l’uscita possa
essere la soluzione; e dall’attesa che dall’emergenza migranti, dalla
nostra crisi finanziaria, dalle elezioni di maggio esca un’Europa
radicalmente diversa dall’attuale. La razionalità scientifica è una
delle acquisizioni che hanno fatto grande l’Occidente e che l’Occidente
ha dato al mondo: non la pensa così chi la rifiuta. Le democrazie
occidentali (cioè tutte le democrazie) sono rappresentative: alla
realizzazione di quella diretta è stato preposto un ministro.
A
rendere questa crisi diversa e più grave di tutte le altre è anche il
non vedere come uscirne ritornando alla convergenza con l’Occidente. Non
il default, che al contrario ci isolerebbe. E neppure la spaccatura
dell’alleanza, il ricorso alle urne, la vittoria (probabile) della Lega,
l’appoggio (possibile?) di quanto resterebbe del Pd. Resterebbe il
lascito del rifiuto dell’Occidente nel Mezzogiorno: la sua
borbonizzazione, il sussidio elevato a sistema, la statalizzazione come
rimedio. Che non ci sia più un partito capace di tenere insieme Nord e
Sud, persone che cerchino di colmare una storica arretratezza: anche per
questo la crisi attuale potrebbe essere la peggiore che noi abbiamo
conosciuto.