Il Sole Domenica 7.8.18
Linguistica. Le controverse tesi dello studioso in un testo chiaro e aggiornato
Iniziazione a Chomsky in tre brevi saggi
di Lorenzo Tomasin
Un
libro come Il mistero del linguaggio, in cui Matteo Greco ha raccolto e
Andrea Moro ha ottimamente introdotto tre brevi saggi recenti, di
taglio divulgativo e per varie ragioni ricapitolativi della riflessione
di Noam Chomsky, ha una grande utilità: esso offre con chiarezza e con
esemplare onestà il punto della situazione su alcune questioni capitali
che, note nei loro lineamenti generali, rischiano di confondere le idee
di chi si avventuri nello sconfinato edificio della linguistica attuale.
Provo, in estrema sintesi, ad estrarre alcuni dei concetti che mi
paiono portanti in un volume che, come spesso i libri migliori, è breve
ma difficilissimo da riassumere. Ometto di qui in avanti formule tipo
«secondo Chomsky» o «secondo l’attuale visione di Chomsky», dando per
scontato la natura controversa, e spesso frutto di revisioni anche
drastiche, di molti assunti.
La varietà delle lingue umane ha una
radice comune nella facoltà di linguaggio. Essa è condivisa da tutti gli
uomini ed è sostanzialmente immutata da quando homo sapiens ha
sviluppato l’attuale struttura cerebrale. Ogni essere umano (a parte
casi patologici, interessanti per cercare verifiche) può apprendere
qualsiasi lingua, in particolare nella forma dell’apprendimento
spontaneo infantile. In compenso, nessun animale può apprenderne alcuna.
Si tratta dunque d’una proprietà esclusiva della specie umana
necessariamente radicata nel suo patrimonio genetico (e solo nel suo) e
quindi nelle sue strutture fisiche (cioè nelle reti neurali cerebrali).
Essa è indipendente sia dai caratteri specifici di questa o quella
lingua, che non influiscono su tempi o modi dell’apprendimento
dell’infante, sia dalla lingua dei genitori biologici. Tale proprietà si
sarebbe manifestata in homo sapiens per effetto d’una mutazione
piuttosto repentina, non tràmite un processo evolutivo lungo. Lo
suggerirebbe, tra l’altro, il fatto che non esisterebbero in natura
“mezze sintassi” o abbozzi evolutivi del linguaggio, né tra gli animali –
i cui sistemi di comunicazione non hanno la possibilità computazionale
dalla produttività illimitata che presiede alla sintassi –, né tra gli
uomini. Il linguaggio così inteso va quindi riguardato come un peculiare
sistema di organizzazione del pensiero. Idea centrale della teoria è
che esso sarebbe fatto primariamente per pensare e solo secondariamente
per comunicare. Esso nascerebbe dentro la mente e solo in un secondo
momento verrebbe esternalizzato, di solito attraverso il suono, ma non
necessariamente (si pensi alle lingue dei segni). Anche alcuni uccelli,
in effetti, «cantano» in modo fisicamente e neurologicamente molto
simile a come gli uomini emettono la voce, ma non possiedono sintassi,
cioè la possibilità di formare un numero potenzialmente infinito di
frasi con un numero finito di elementi.
Il fatto che sul piano
dell’organizzazione logica, quindi sulla sintassi, si basi il concetto
di linguaggio così concepito, comporta che la sintassi sia centrale
nello studio delle proprietà generali del linguaggio, anche se non
automaticamente di quelle specifiche delle lingue che parliamo e
scriviamo da svariati millenni.
L’evoluzione biologica e la storia
(delle lingue, che è in fondo la storia tout court) non vanno
assolutamente confuse. Le lingue – snodo fondamentale – non si sarebbero
mai evolute nel senso che questo termine ha in biologia: cioè non
avrebbero mai prodotto modifiche geneticamente trasmesse nella specie
umana. Tutta la loro storia si svolge a valle di un passaggio evolutivo
già avvenuto, una volta per tutte, decine di migliaia di anni fa. Da
allora – cioè in tutta la storia di tutte le lingue che conosciamo – per
il linguaggio nihil sub sole novi: per cui occuparsi delle proprietà
del linguaggio intese nel senso appena esposto significa indagare, di
fatto, le potenzialità presenti – pur se non necessariamente espresse –
in un ominide preistorico come in un postino newyorkese. Dal punto di
vista appena chiarito, essi parlano la stessa lingua (o meglio: lo
stesso linguaggio), con differenze superficiali che non interessano –
ovviamente – chi s’incarichi d’indagare le proprietà generali della
facoltà di linguaggio. Tutta la vicenda delle lingue si svolge dunque a
valle di un passaggio evolutivo da cui la storia umana resta, di fatto,
del tutto esclusa.
La teoria sintattica che va sotto il nome di
Grammatica universale si rivela dunque al lettore di queste pagine come
un generoso tentativo di indagare il funzionamento stesso di una parte
(anzi di più parti tra loro collegate) del cervello umano e di quella
che chiamiamo la mente. Il che dà un contributo importante, ma certo non
risolutivo, a chi voglia rispondere a domande come: perché parliamo
come parliamo?, oppure: perché scriviamo come scriviamo?
È chiaro
che la linguistica intesa come studio del(la facoltà di) linguaggio e la
linguistica come studio delle lingue sono due nozioni distinte, e pur
indubbiamente collegate dal fatto di chinarsi concretamente sugli stessi
oggetti, cioè sui prodotti linguistici. Sebbene le tappe che hanno
portato allo stadio teorico qui descritto siano state segnate da
contrasti talora feroci – come spesso capita, ma con il sovrappiù di
asprezze dottrinali che speriamo solo novecenteschi –, si può finalmente
confidare nel tramonto di una fase della linguistica iniziata forse al
principio del secolo scorso, in cui si è assistito da un lato a una
corsa per affermare che vi sono teorie linguistiche «più linguistiche»
di altre, e dall’altro ad escludere progressivamente dalla «vera
linguistica» (variamente intesa dagli adepti delle diverse obbedienze)
ciò che «linguistica» non è o non sarebbe, pur applicandosi, fatalmente,
allo studio delle lingue.
In altri scritti, Chomsky ha suggerito
che l’ipotetico scienziato che giungesse da un altro mondo (magari,
aggiungo, con un manuale di grammatica generativa sotto il braccio)
potrebbe tornarsene a casa riferendo che sulla Terra vive una specie
dotata di un linguaggio che, non ostanti minime differenze locali, è
riconducibile a un’unica grammatica. L’immagine è provocatoria e
sanamente urticante, come càpita ai paradossi ben formulati. Un altro
scienziato extraterrestre, a dire il vero, potrebbe riferire anche che
il pianeta è caratterizzato da un’unica forma di vita, descrivibile
secondo i principi generalissimi della genetica, che si manifesta in una
varietà solo apparente. Un resoconto se si vuole corretto, anche se un
po’ riduttivo e, forse, insoddisfacente almeno per una parte degli
organismi biologici (o se si preferisce addirittura degli ammassi di
protoni, neutroni, elettroni) che leggono queste righe, immersi in
quella che a loro appare – ma davvero si tratta d’un fenomeno marginale e
secondario? – la decisiva varietà della storia e della vita.
Il mistero del linguaggio. Nuove prospettive
Noam Chomsky a cura di Matteo Greco.
Introduzione di Andrea Moro, Milano, Raffaello Cortina, pagg. 128, € 11.
In libreria dal 27 settembre.