Il Sole Domenica 21.10.18
Martin Heidegger
Le frustrazioni di un nazionalista piccolo borghese
Dallo studio dei «Quaderni Neri» Eugenio Mazzarella mette in luce i nessi tra le posizioni teoriche e le scelte pratiche, tra la filosofia e la politica
di Michele Ciliberto
Il libro di Eugenio Mazzarella su Heidegger e i Quaderni neri è interessante anzitutto per la nettezza con cui si contrappone a coloro che si sono serviti di questi testi per riaprire in termini distruttivi il problema dei rapporti tra Heidegger e la politica, Heidegger e il nazismo, Heidegger e l’antisemitismo.
L’«antisemitismo ontologico-destinale di Heidegger dei Quaderni» – scrive Mazzarella – «non aggiunge niente alla comprensione che potevamo avere del suo pensiero, e del corto circuito con la comprensione del suo tempo che ne è venuto». Anche se, aggiunge, «dà il tocco finale alla pochezza dell’uomo comune, del piccolo borghese nazionalista (frustrato anche dal nazismo) che era; e che resta anche nei panni, in questi Quaderni, del commentatore storico-destinale del suo tempo».
È un giudizio in cui culmina la serrata analisi su quella che è l’alternativa posta, a giudizio di Mazzarella, nei Quaderni: quella tra grecità e cristianesimo, espressa dalla opposizione dell’onto-storia di Heidegger al messianesimo ebraico-cristiano. Sintetizza Mazzarella: non cristianità ovvero Europa, come Novalis; ma cristianità oppure Europa. È il cristianesimo dunque «l’antagonista dello spirito greco-germanico sulla scena della decadenza europea», ed è in questo contesto che vanno considerate le osservazioni di Heidegger sugli Ebrei: essi sarebbero gli «agenti destinali» dell’autoannientamento dell’Occidente nella ragione strumentale della tecnica moderna. In conclusione, secondo Mazzarella, l’avversione alla ebraicità «è fondamentalmente l’avversione al tratto “nichilistico” della civilizzazione europea, nietzscheanamente messo in capo al cristianesimo». E con questo riferimento si concretizza anche sul piano delle fonti la prima parte del libro, che ha quindi il merito di rovesciare il punto di vista corrente, proponendo una diversa – e interessante – visione del problema: merito non da poco. Muovendo di qui, nella seconda parte, Mazzarella analizza lo svolgimento della posizione di Heidegger, mostrando come, dopo il fallimento dell’esperienza politica, si dilegui la «storicità» propria di Essere e tempo e si imponga una prospettiva di tono apocalittico, che consegna tutto il presente all’abisso di un «anatema di tipo gnostico» al quale non è possibile sfuggire...
Il libro è denso di osservazioni importanti, ma a mio giudizio è interessante anche per un altro motivo di ordine generale: pone, e affronta, il problema dei rapporti tra filosofia e politica nei regimi totalitari di massa che noi, in Italia, conosciamo assai bene, perché se ne è discusso lungamente a proposito di Giovanni Gentile. Del resto, è stato Croce a stabilire, proprio su questo punto, un nesso diretto tra Heidegger e Gentile, già in una lettera a Vossler del 10 agosto del 1933; e con parole assai aspre, spiegabili, certo, alla luce del momento in cui sono state scritte, e anche della concezione crociana del rapporto tra prassi e teoria.
Ma il problema resta, e continua a interrogarci. Valga, per fare un solo esempio, il caso di un eminente filosofo italiano del Novecento, Cesare Luporini. Fu presente al famoso discorso che Heidegger tenne nel 1933 assumendo la carica di rettore della Università di Friburgo; e, turbato («fu un grosso colpo»), lasciò il suo seminario, ben consapevole della responsabilità politica di Heidegger. Ma ne riconobbe sempre la statura filosofica, pur essendo lontano, fin dall’inizio, dal suo ontologismo. Allo stesso modo, si distaccò da Gentile; ma proprio quando aderì al PCI (agosto del ’43) gli scrisse una lettera in cui gli riconobbe di avergli insegnato a «credere nel libero futuro degli uomini e ad operare per esso».
Allo stesso modo Mazzarella è consapevole dei limiti di Heidegger, della sua natura piccolo borghese, e del «legame non episodico, ma strutturale e motivato tra l’impianto della storia dell’essere heideggeriana [...] e il nazismo». Ma questo non gli impedisce di riconoscere la grandezza di Heidegger e di liquidare la propaganda riesplosa con la pubblicazione dei Quaderni neri, imperniata – e questo è il punto generale che il suo libro mette a fuoco – su una interpretazione meccanica, immediata, dei rapporti tra filosofia e politica.
I filosofi sono politicamente responsabili e devono essere giudicati in modo severo per le loro compromissioni con regimi come il fascismo e il nazismo, e Mazzarella lo fa mettendo anche in luce i nessi, se e quando ci sono, tra posizioni teoriche e scelte pratiche. Ma la filosofia, quando è grande filosofia – e lo è nel caso di Gentile e Heidegger – è tale perché, nonostante i suoi limiti «empirici», «ideologici» (e su quelli di Heidegger ci sono battute fulminanti della Arendt), è capace di sporgere oltre le barriere del proprio tempo storico. Dimenticare questo, non comprendere la complessità dei livelli dell’esperienza di un grande filosofo, serve solo a precipitarci nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Mentre per comprendere, anche la storia della filosofia, è necessario distinguere i livelli del discorso. Comprendere un testo, e questo vale anche per i Quaderni neri, significa considerare il genere cui appartiene, gli interlocutori ai quali si rivolge, il lessico di cui si serve, come stravolge – e in che modo – l’universo ordinario delle parole e dei concetti. E considerare se entra in circolazione subito, oppure in situazioni storiche e politiche profondamente diverse (come avviene, per fare un altro caso a noi ben noto, con i testi di Gramsci). E se è un testo pubblico o privato, come è il caso dei Quaderni neri: distinzione essenziale, anche quando si consideri importante, per la comprensione di un testo, entrare nell’officina di un filosofo. Se non si fa questo è difficile, anzi impossibile «leggere» un testo; si rischia solo di fare propaganda – operazione interessante, ma diversa dal comprendere storico. Si intende: se e finché si ritenga che «leggere» i testi abbia ancora un senso.
Il mondo nell’abisso.
Heidegger e i Quaderni neri
Eugenio Mazzarella
Neri Pozza, Vicenza,
pagg. 110, € 12.50
Il Sole 21.10.18
Evoluzione e cultura. Le abilità cognitive stanno diminuendo nel mondo occidentale per l’invecchiamento della popolazione e perchè le persone più istruite fanno meno figli
Il declino dell’intelligenza
di Gilberto Corbellini
Esiste qualche fattore, teoricamente definibile e più o meno quantificabile per efficacia causale, in grado di spiegare perché in alcuni paesi del mondo, rispetto a altri, c’è più benessere economico, più salute, più educazione, più felicità, meno corruzione, meno violenza, più efficienza delle istituzioni (stato di diritto), più produzione culturale, più scienza di qualità, etc.? A cosa si può attribuire il fattoche il progresso umano si sia distribuito difformemente nel corso del tempo, e tra le nazioni?
Sono state suggerite diverse risposte, negli anni. Dalla libertà economica (capitalismo), alla razionalità istituzionale,d all’illuminismo, con il suo impianto meccanicista-newtoniano, alla geografia ambientale, all’etica civica borghese, alla selezione genetica dell’intelligenza, etc. In realtà, nessuno di questi fattori, ognuno dei quali è un tratto necessario per capire la modernità occidentale, preso singolarmente risulta sufficiente per dar conto che alcuni paesi sono più sviluppati o progrediti di altri.
Lo psicologo dell’intelligenza austriaco Heiner Rindermann da un paio di decenni va costruendo una spiegazione alla quale ha ora dedicato un voluminoso libro, zeppo di dati, idee e argomenti. L’espressione «capitalismo cognitivo» è usata in questo caso con un’accezione diversa dai neomarxisti francesi che speculano di una forma di produzionedove cambierebbe la natura del lavoro e della proprietà, nonché i processi di valorizzazione di un capitale sempre più smaterializzato. Rindermann fornisce una definizione precisa di «capitale cognitivo», che scaturisce dalla ricerca empirica elaborata statisticamente attraverso la path analysis e che consiste nelle abilità cognitiva rilevabili a livello di individui, società o nazioni. Queste capacità cognitive consentono di predire statisticamente e spiegare teoricamente innovazione, produttività, reddito e differenze nella ricchezza, nonché hanno un impatto sulle norme politiche e l’organizzazione istituzionale determinando l’efficacia del governo, dello stato di diritto e della democrazia.
L’abilità cognitiva altro non è che intelligenza (capacità di pensare fluidamente in modi astratti e ipotetici), più conoscenza acquisita (capacità di cristallizzare conoscenze rilevanti per la soluzione di problemi), più uso creativo delle conoscenze per risolvere problemi. L’abilità cognitiva è stata chiamata anche quoziente intellettivo, capitale umano, capitale immateriale, competenza cognitiva, etc. e si può misurare a livello individuale o di popolazione con diversi approcci psicometrici, fra cui test di intelligenza o i vari test internazionali di valutazione tipo PISA, ma anche facendo riferimento agli anni di istruzione scolastica e ai risultati accademici.
L’abilità cognitiva si osserva in ogni contesto, incluso l’ambiente lavorativo o la vita quotidiana. Pensiamo a una persona alla prova con la soluzione di un problema più o meno complesso, che richiede un ragionamento. Si può constatare che esistono differenze nell’abilità con cui diverse persone risolvono lo stesso problema. La ricerca dice che questa differenza dipende dai geni: nondimeno quasi nulla si sa di geni e basi neurobiologiche dell’intelligenza. Il contesto ambientale, lungi dall’essere alternativo ai geni, è la chiave per spiegare l’aumento dell’intelligenza nel tempo: in che modo i fattori ambientali potenzino l’intelligenza non è chiaro, ma sono state chiamate in causa alimentazione, salute, stili genitoriali, reddito familiare, istruzione, cultura, etc. L’abilità cognitiva è importante anche per scelte o decisioni personali, che hanno una grande influenza, come se fumare, leggere, viaggiare, riprodursi, etc.
Le differenze tra nazioni per le abilità cognitive sono largamente descritte e possono arrivare all’equivalente di 13 anni di apprendimento scolastico. Anche le differenze storiche all’interno di paesi sono rilevanti, e alcuni studiosi hanno descritto, ancora sessanta anni fa in paesi sviluppati , la presenza di comunità umane dove le persone non erano in grado di fare un ragionamento astratto e ipotetico.
Gli incrementi cognitivi nel corso del ventesimo secolo (effetto Flynn), nei paesi sviluppati, sono stimati in circa 3 punti di IQ per decennio. Per tutto il secolo sono circa 30 punti. Un valore enorme. Questi dati per Rindermann dimostrano che le differenze storiche e nazionali in ricchezza, politica e cultura dipendono dalle abilità cognitive, che hanno verosimilmente trovato un contesto per evolvere verso i risultati che conosciamo grazie alla nascita sia della scienza moderna e sia del cultura civica borghese; proprio in Italia nel Rinascimento.
Gli aumenti delle abilità intellettive, una volta messi in moto, stimolavano lo sviluppo sociale e a loro volta erano positivamente influenzati dalle loro stesse conseguenze, producendo un processo storico e virtuoso di modernizzazione cognitiva e sociale. In altre parole, lo sviluppo umano occidentale è stato psicologicamente guidato dall’intelligenza, sociologicamente supportato da una cultura civica borghese e spinto avanti dalle élite intellettuali.
Questi fattori spiegano però le differenze stabili, attraverso territori e tempi. Ma i cambiamenti ambientali? Per Rindermann sono il prodotto dellevoluzione e della cultura, vale a dire cambiamenti genetici/epigenetici causati da pressioni selettive o fattori causali che plasmavano la psicologia umana per adattarne le capacità cognitive alle sfide ambientali, e l’uso sociale dei prodotti di questi cambiamenti psicologici. Evoluzione e cultura lavorano insieme cambiando il comportamento, i valori e il pensiero, cambiando l’istruzione nelle famiglie e scuole, influenzando qualità e funzionalità delle istituzioni e sostenendo o impedendo lo sviluppo cognitivo di individui, società e culture. Il tutto con un impatto su produzione, reddito e ricchezza. Ma continueràa esserci progresso?
La complessità a cui dover far fronte nel mondo sviluppato aumenterà per l’innovazione scientifica e tecnologica, per cui sarà richiesta una continua crescita di abilità cognitive. Ma queste stanno diminuendo nel mondo occidentale, dove peraltro le società diventano più vecchie con declino di intelligenza fluida e quindi di capacità di innovazione. Inoltre, le persone più istruite e cognitivamente più capaci fanno di regola meno figli. L’immigrazione è improbabile che supplisca a questa crisi di capacità cognitive, in quanto solo in minima parte è costituita da capitale umano integrabile. Infine, le risorse naturali calano, il clima cambia e la diseguaglianza cresce.
Rindermann discute una serie di scenari per il secolo in corso, prevedendo che a livello mondiale il quoziente intellettivo aumenterà ancora, ma nei paesi in via di sviluppo; mentre sta appunto diminuendo nel mondo occidentale. La crescita economica, invece, si ridurrà e il modo in cui le abilità cognitive moduleranno la crescita dipenderà da diverse variabili. Abbiamo detto del cambiamento e della transizione demografica (meno giovani e società più vecchie), ma ci potranno essere vantaggi locali nell’arretratezza (paesi più arretrati potranno progredire più rapidamente se in grado di agganciare la crescita). La crescente complessità (una sfida per le società con meno abilità cognitive, o che le stanno perdendo per insipienza dei politici) potrebbe costituire una sfida difficile da gestire, insieme ai rischi politici (instabilità politica, insicurezza e declino economico) e alle influenze egemonichedi potenze regionali.
Cognitive Capitalism. Human
Capital and the Wellbeing
of Nations
Heiner Rindermann
Cambridge University Press, Cambridge (UK), pagg. 576, $ 32.03
La Lettura del Corriere della Sera 21.10.18
Un sovranista da reality. I garbugli di Diego Fusaro
Un abile funambolo, spesso ospitato in tv, sdogana con un lessico pomposo le più banali teorie complottiste e le pulsioni autoritarie contro gay, femministe
e immigrati. Si presenta come un cultore di Marx ma blandisce i gruppi
di estrema destra, soprattutto CasaPound
di Donatella Di Cesare
La conduttrice si lascia andare a un sorriso mellifluo e complice. Sta per dare la parola a un ospite che, lusingata, chiama «professore». Tuonano i primi slogan: «turbocapitalismo apolide», «stanno sostituendo i popoli europei coi migranti», «l’antirazzismo in assenza di razzismo fa il gioco del potere», «così viene contrabbandato il mito omosessualista», il «nuovo ordine mondiale non tollera Stati-nazione e famiglie».
Avranno invitato in Tv un esponente di CasaPound? Ormai avviene anche questo. E invece nel video fa capolino la ricercata abbronzatura di Diego Fusaro, mentre la telecamera indugia sulla chioma scapigliata e il glauco sguardo accattivante. L’apparenza è sorretta da una spigliatezza vanesia e una loquacità che ha il ritmo del gergo calcistico. Prodotto inquietante dell’Italia odierna, Fusaro si fa passare come uno «di sinistra» (e se lo ammette lui?!), mentre scandisce parole d’ordine della nuova destra, aggressiva e astuta, capace di una straordinaria presa mediatica. Dissimulazione e raggiro sono le armi di quest’abile funambolo, che a ben guardare è il sovranista della porta accanto.
Ecco svelato il segreto del suo successo. Che cosa c’è di meglio che ascoltare, rifritti in salsa aulica, i propri più abietti e inconfessabili sentimenti contro migranti, femministe, omosessuali, vegani e apolidi di ogni sorta? Per di più in modo così semplificato? Le formulette di Fusaro, postate sui social media o proclamate con piglio professorale nei canali televisivi, compresa la Rai, sono un toccasana. D’un tratto tutto è chiaro: da una parte «noi», i buoni, che stiamo in «basso», vessati, precarizzati, circuiti; dall’altra «loro», i cattivi, che stanno in «alto», i burattinai dei mercati, i burocrati europei, ma anche i mondialisti, tacciati di essere gli agenti occulti della globalizzazione.
Così questo novello Zarathustra del «primato» nostrano e sovrano, che si spaccia per «pensatore anti-sistema», viene a svelarci i complotti di cui saremmo vittime. Lo fa con arte sopraffina, mimando il lessico pomposo del «filosofo» nell’immaginario collettivo italiano e infarcendo lo sproloquio con citazioni a caso, un po’ Marx e un po’ Heidegger, un po’ Gramsci e un po’ Gentile. Tanto in questo Paese, dove l’analfabetismo di ritorno ha raggiunto vertici epocali e l’ignoranza non ha più remore a esibirsi, chi controlla? In un attimo l’effetto esotico è raggiunto — quanto basta per lasciar intendere a chi non sa, o non vuol sapere, che questo singolare personaggio, che «pensa altrimenti», sia davvero un promettente filosofo, che le sue lunghe parafrasi, di cui riempie libri e messaggi, siano frutto di riflessione profonda e originale. Sennonché quei paroloni altisonanti non veicolano che bieche ideuzze e subdole nozioncine per un pubblico facile da abbindolare.
Caricatura della filosofia, tirata in ballo nello spazio pubblico solo per venire sbeffeggiata! Uno schiaffo a chi lavora seriamente. Eppure in Italia non mancano filosofe e filosofi, giovani e giovanissimi, molti dei quali sono stati costretti a cercare fortuna all’estero. Quale lezione dovrebbero trarre dall’indecoroso riconoscimento tributato in patria al ciarpame? Molti si sono espressi nella Rete, dove Fusaro — di cui gira un fake Diego Fuffaro (@FuffaroDiego) — è ormai apertamente schernito.
Le responsabilità non sono solo di media, tv, giornali, siti web. Ha le sue colpe la filosofia sia per aver taciuto, o talvolta persino plaudito, sia per quel rinserrarsi nell’astruso accademichese che lascia campo libero all’antipolitica. Non sono estranee neppure le case editrici che ne hanno pubblicato i volumi. Feltrinelli ha affidato la monografia su Gramsci a chi ne fa un gentiliano dell’ultima ora, una sorta di fascista. Lo stesso vale per Marx, ridotto a mero paladino dell’anticapitalismo.
Si potrebbe ignorare Fusaro, se non fosse per due motivi. Anzitutto perché resta il caso di questa ambigua figura, quasi icona della contemporaneità, incarnazione dello stato in cui versa la cultura italiana. Inoltre perché i suoi garbugli iperideologici, con cui proclama la fine di tutte le ideologie e il superamento di destra e sinistra, si sono rivelati ben più dannosi di quanto si volesse ammettere. I suoi slogan, reiterati ossessivamente, hanno certo contribuito alla vittoria del governo Lega-M5S, di cui Fusaro non ha remore a farsi portavoce. All’indomani della sua uscita dal mondo accademico — che sia «professore» è una fake news — la sua posizione è venuta alla luce.
Non si parli di commistione tra destra e sinistra, di «rossobrunismo»! Perché qui di rosso non c’è nulla. Da che parte si dovrebbe situare chi sottolinea la «parabola» che «dall’Internazionale comunista conduce all’odierna Internazionale liberal-finanziaria» (Pensare altrimenti, Einaudi)? Per criticare quella sinistra socialdemocratica che ha mostrato sudditanza verso il potere, non sostenendo i lavoratori e chiudendo i porti, non serve certo inseguire questa peripezia fascistoide.
Fusaro riprende a piene mani, riassumendo e banalizzando, l’insegnamento del suo maestro Costanzo Preve, che ha finito per essere un negazionista della Shoah e per pubblicare presso editori di estrema destra. D’altronde Fusaro collabora con «Il Primato Nazionale», testata vicina a CasaPound, forza politica che non disdegna di frequentare. Si vuol dire che è un fascista del terzo millennio? Oppure un neonazista? Non proprio.
È un sovranista che indica nell’Europa «un progetto criminale», ammira Putin, è vicino agli antiabortisti, antisemita quanto basta, scopertamente omofobo, cultore dell’«identità», fautore di un ritorno degli Stati-nazione, con la loro vecchia sovranità e i muri innalzati contro gli immigrati. Di questi parla come se non fossero persone, libere di scegliere, bensì strumenti per quella «sostituzione etnica» divenuta il mito del neofascismo odierno. Fusaro è maestro solo del complottismo, quell’ossessione paranoica per i poteri forti — il «governo mondiale», la «casta», le «élites» — che da qualche parte reggerebbero le sorti della storia; malattia del mondo disincantato, bisognoso di certezze e semplificazioni, la favola del complotto, facile da propagare e difficile da confutare, è il pilastro del populismo odierno.
Come definire l’inedito mix reazionario di Fusaro? Forse neppure serve definirlo. L’importante è vederne con chiarezza le componenti, senza sottovalutarlo. Non sappiamo forse già dove in passato hanno portato questi discorsi che oggi in Italia hanno aiutato l’estrema destra a diventare forza di governo?
il manifesto 21.10.18
Nella letteratura l’inconscio a cielo aperto, nella psiche i procedimenti della narrativa
Saggi. Giancarlo Alfano e Carmelo Colangelo, «Il testo del desiderio», da Carocci
di Federico Leoni
«Tanto la follia quanto la letteratura giocano con i segni, quei segni che si prendono gioco di noi». È con queste parole di Michel Foucault che Giancarlo Alfano e Carmelo Colangelo indicano, verso la fine della loro esauriente e nitida indagine, il terreno comune alle due discipline, che convocano a dialogo nel loro libro Il testo del desiderio Letteratura e psicoanalisi (Carocci, pp. 230, euro 19,00). L’ipotesi foucaultiana è duplice: sostiene anzitutto che i segni non obbediscono alle nostre intenzioni, non dicono ciò che vogliamo dire.
Siamo noi a lasciarci impregnare dai loro significati, sedurre dalla loro combinatoria cangiante. La psicoanalisi ha chiamato inconscio questo gioco di linguaggio e da subito ha posto le formazioni dell’inconscio, cioè i nostri sogni, lapsus, atti mancati, sotto l’egida delle regole che reggono l’autonoma creatività del gioco linguistico. In altri termini, ha fatto dell’inconscio una retorica, un mobile esercito di metafore, diceva Nietzsche. E non solo di metafore, naturalmente.
In seconda battuta, l’ipotesi di Foucault suggerisce che la follia e la letteratura siano qualcosa come giochi di secondo grado. Tanto nella follia quanto nella letteratura, saremmo di fronte a un insieme di meccanismi retorici che destrutturano o ristrutturano quella prima officina retorica in cui la nostra soggettività e la nostra esperienza hanno preso forma. Gioco che diventa sfida tragica nel caso della follia, e che si fa esperimento vertiginoso nel caso della letteratura. Non stupisce che alla prospettiva della psicoanalisi si siano ben presto affacciati sia i letterati che molti critici, indovinandovi una compagna di cammino preziosa per chi voglia illuminare il funzionamento di un testo poetico o narrativo. A questo proposito, Alfano e Colangelo procedono con giusta prudenza, consapevoli di come la psicoanalisi abbia spesso avvicinato i testi letterari pensandoli come una via per arrivare agli autori e ai segreti della loro psiche. Un certo personaggio, un certo intreccio avrebbe espresso in forma più o meno criptata i conflitti inconsci del poeta o del romanziere.
Lo stesso Freud si è spinto a un passo da questa tentazione, quando ha scritto di Leonardo e di Goethe, e non pochi suoi epigoni hanno imboccato con decisione questa strada, fra le prime la sua influente discepola francese Marie Bonaparte. Tutt’altra è la direzione in cui si sono mossi negli ultimi quarant’anni illustri critici letterari, su tutti Mario Lavagetto, Francesco Orlando, Jean Starobinski, citati a mo’ di stelle polari in questo risvolto della riflessione di Alfano e Colangelo.
La formula di Francesco Orlando, secondo cui la letteratura costituirebbe il luogo del ritorno non del rimosso, ma del represso, indica forse nel modo più chiaro la posta in gioco di questo genere di avvicinamento della psicoanalisi al testo narrativo o alla costruzione poetica. Secondo il grande studioso siciliano, nello spazio letterario riemergerebbero, traslati e cifrati dalle leggi interne al procedimento poetico o narrativo, non i contenuti psichici rimossi dall’autore, non l’inconscio dell’individuo che lo ha scritto, ma l’insieme delle idee e delle forme di vita che un’epoca ha silenziosamente accompagnato nell’ombra o recluso nelle segrete dell’indicibile.
C’è infine un terzo modo di guardare all’incrocio tra psicoanalisi e letteratura, di cui danno conto brillantemente Alfano e Colangelo: la psicoanalisi stessa, dicono, ha costruito una parte molto rilevante del cammino e del suo strumentario concettuale intorno a figure prese a prestito dalla letteratura. Basterebbe a sostenerlo il ruolo chiave che Freud assegna a Edipo e al ciclo delle tragedie sofoclee, alla posizione strategica che egli assegna alla figura della Gradiva ricavandola da un’opera letteraria tutto sommato minore come quella di Jensen, o ancora al peso straordinario che nel Lacan degli anni centrali assume la figura shakespeariana di Amleto.
Non solo l’inconscio è un laboratorio in cui i procedimenti letterari funzionano allo stato puro; non solo la letteratura è un inconscio a cielo aperto, uno spazio in cui una società non cessa di parlare di ciò che non sa di sé; ma la psicoanalisi stessa è una branca della letteratura, un geniale procedimento retorico, insomma uno di quei giochi di segni attraverso cui, diceva Foucault, ci prendiamo gioco di quei segni che si prendono gioco di noi.
il manifesto 21.10.18
Scrivere è proiettare la follia dell’Io nell’altro
Scrittori anericani. «Patrimonio», «Operazione Shylock», «Il teatro di Sabbath», «Pastorale americana»: quattro prelievi dalla parabola narrativa di Philip Roth
di Francesca Borrelli
Non al talento ma alla «ostinazione», non a una supposta dote naturale bensì a un elevato quoziente di «autortura» Philip Roth riteneva di dovere l’esistenza dei suoi libri, prima ancora del loro successo. Quando all’età di settantasette anni, con trentuno volumi alle spalle e un posto di primo piano nel canone occidentale, decise di mettere fine alla sua attività di scrittore, una motivata incredulità accolse la sua dichiarazione di cedimento alla stanchezza, la sua resa alle «frustrazioni quotidiane» non più sorrette dalla «vitalità intellettuale», dalla «energia verbale e dalla forma fisica necessarie per sferrare e condurre a termine un attacco creativo su larga scala a una struttura complessa ed esigente come quella del romanzo».
Ora, queste parole si trovano nella raccolta dei meravigliosi scritti di nonfiction (alcuni inediti in italiano, altri già antologizzati in due libretti einaudiani del 2004, Chiacchiere di bottega e del 2011, Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno ovvero, guardando Kafka) nel volume titolato Perché scrivere? Saggi, conversazioni e altri scritti 1960-2013 (traduzione di Norman Gobetti, Einaudi, pp. 451, euro 22,00), che esce in contemporanea con il secondo Meridiano delle opere di Roth, a cura di Paolo Simonetti (traduzioni di Vincenzo Mantovani e Stefania Bertola, Mondadori, pp. 1888, euro 80,00), una occasione per rileggere, a distanza di decenni, alcune delle opere più amate dello scrittore americano: Patrimonio, Operazione Shylock, Il teatro di Sabbath, Pastorale americana, corredate da note ai testi redatte con grande accuratezza, e la bibliografia (di Elèna Mortara) che permette di tallonare la vita di Roth, confrontandone i passaggi con quelli stravolti dalla inventiva dei suoi romanzi.
Proprio la rilettura (a oltre vent’anni dall’uscita) di Pastorale americana, emancipati dallo stupore iniziale, consente di immergersi in quella che deve essere stata la speciale sofferenza di Roth nell’intonare la voce di un personaggio che, diversamente da tanti altri e soprattutto dai suoi alter ego, nulla condivideva della sua biografia, aspirazioni, stati d’animo, acrobazie lessicali, fantasie, spirito di dissacrazione, nulla: quel Seymour Levov detto lo Svedese, che era stato una mitica apparizione della giovinezza di Nathan Zuckerman.
A cinquant’anni di distanza, quando dietro sollecitazione dello Svedese i due si rincontrano, Zuckerman – dopo essersi invano aspettato una rivelazione che motivi quella richiesta di parlarsi, riflette sulla affabilità dell’altro, frutto evidente di un baratto con la sua anima inesistente: «Quest’uomo – si dice – non può essere incrinato dal pensiero. Ecco il mistero del suo mistero».
Frutto della ruminazione di un ventennio, questo romanzo concepito e abbandonato più volte, è forse il più amato di Roth sebbene non altrettanto letterariamente virtuosistico di altri (per esempio La controvita) ma soprattutto esemplifica al meglio ciò che l’autore ebbe a dire in una intervista allo «Svenska Dagbaladet», ora raccolta nel volume einuadiano: non nelle opinioni dei personaggi vanno ricercate le idee dell’autore bensì «nella situazione che ha inventato per loro». E così, la genialità di Roth in Pastorale si estrinseca appunto nella cornice in cui situa i diversi caratteri: lo Svedese è l’orgoglioso, bellissimo, integerrimo ex marine innamorato della sua America, che ha raccolto degnamente l’eredità del laborioso genitore guantaio, proprietario di una fabbrica di eccellenza da cui deriva la recente prosperità della famiglia Levov. Tutto nella sua vita, compresa la moglie, ex Miss New Jersey pudicamente riluttante nel vantare quella datata celebrazione della propria bellezza, sembra aderire alla fede dell’uomo probo che crede nella perfezione, non fosse per Merry, la figlia balbuziente che all’età di sedici anni sparirà dalla vita pubblica, dopo avere piazzato una bomba nell’ufficio postale cittadino, uccidendo una persona.
Una lunga gestazione
Non allo Svedese, tuttavia, Roth affida il racconto del suo dramma, e non quando ci si sarebbe aspettati di ascoltarlo, bensì al fratello, l’arrogante cardiochirurgo Jerry, traboccante disprezzo per la sua famiglia di provenienza, che ne parla a Zuckerman in occasione di un ritrovo di ex allievi della scuola che entrambi hanno frequentato a Newark. Lo Svedese è ormai morto, la sua immagine imbozzolata nella malintesa considerazione di Nathan si impossessa della sua fantasia e comincia a parlare per lui: «Sognai una cronaca realistica». E parte la storia.
Ogni singolo dettaglio, nell’evoluzione di questo romanzo datato 1997 ma le cui prime settanta pagine manoscritte risalgono al 1972, porta i segni di una elaborazione che si indovina, anche grazie alle poche parole spese in proposito da Roth, persino persecutoria nella sua ricerca di perfezione. «Cominciare un libro è sgradevole» – ha detto nella intervista alla «Paris Review» raccolta in Perché scrivere? «Batto a macchina degli incipit e sono orrendi, sembrano un’inconsapevole parodia del mio libro precedente, più che l’imbocco di una nuova direzione, che è quello che vorrei… Spesso devo scrivere un centinaio di pagine, o anche di più, prima che venga fuori un paragrafo che sia vivo».
In realtà, stando a un altro sketch biografico raccolto nella antologia einaudiana, «Sugo o salsa?» – sul quale anche Paolo Simonetti richiama l’attenzione nel suo saggio introduttivo al Meridiano («una pietra miliare imprescindibile – scrive – … sulla quale convergono tutti i motivi centrali della sua narrativa») Roth avrebbe trovato sul tavolo della caffetteria che frequentava abitualmente nella Chicago del ’56, un foglietto di carta con una sequenza di frasi senza nesso, frasi che tuttavia lo irretirono al punto da trasformarsi, ognuna, nell’incipit dei suoi diciannove romanzi a venire: «mentre finge di interpretare retrospettivamente la propria opera – commenta Simonetti – Roth getta i semi della sua decostruzione critica».
Era la tarda primavera del 1993 ed era appena uscito uno dei suoi romanzi più godibili, Operazione Shylock, il cui sottotitolo è Una confessione, preteso resoconto di fatti realmente accaduti, come lo stesso Roth si premura di assicurare nella sua Prefazione, dove spiega come tutto derivi dall’essere stato assoldato dal Mossad per una operazione di controspionaggio.
L’anno in cui ambienta la trama, il 1988, è – probabilmente non a caso – lo stesso in cui scrisse in forma di lettera a Zuckerman la sua romanzesca biografia titolata I fatti, e di due anni prima è l’intervista a Primo Levi, ennesimo tassello di quel suo interesse per la causa ebraica trasformato in motore di pagine sarcastiche, tra le più memorabili di Roth. Qui, in Operazione Shlylock, quasi interamente ambientato a Gerusalemme, sono in scena due personaggi con lo stesso nome, Philip Roth, il secondo dei quali è un impostore che ha fatto propri i successi editoriali del primo allo scopo di accreditare la causa del «diasporismo», un programma politico finalizzato a riportare gli ebrei israeliani nei paesi europei dai quali erano emigrati, per scongiurare la minaccia araba di un secondo Olocausto.
Come ricorda Paolo Simonetti nella sua nota al romanzo, Operazione Shylock ebbe una accoglienza controversa: John Updike lo considerò datato e, per quanto spumeggiante, troppo carico di monologhi e interviste affastellate su un impianto debole, mentre Cynthia Ozick e Harold Bloom lo recensirono entusiasticamente e Saul Bellow lo inserì nel corso sugli scrittori contemporanei che teneva alla Boston University.
«Per me il lavoro, il lavoro della scrittura, consiste nel trasformare la follia dell’io in follia del lui», aveva detto Roth dieci anni prima a proposito di un personaggio che compare nella Lezione di anatomia, e questa considerazione sembra in effetti trovare in Operazione Shlylock uno dei sui vertici espressivi. Quanto alla sua personale interpretazione della questione ebraica, con relative accuse di diffamazione e conseguenti reprimende, più volte Roth si è dato l’occasione per chiarire le impopolari idee che coltivava al riguardo: «Per come la vedo io – ha scritto in «Immaginare gli ebrei» (ora nel volume einaudiano) – l’obiettivo del romanziere ebreo non è forgiare nella fucina della propria anima la coscienza ancora increata della sua razza, ma trovare ispirazione in una coscienza che è stata creata e demolita centinaia di volte solo in questo secolo». È un compito al quale Roth si è dedicato con effervescente irriverenza, e proprio nella esuberanza di uno stile che incorporava «i ritmi, le sfumature e l’enfasi del modo di parlare delle città con le loro folle di immigrati», ha trovato – a suo dire – il massimo piacere che la letteratura gli abbia concesso.
Le imprese di un burattinaio
Più ha calcato la mano, più ha strafatto, più ha sfidato il possibile, e più stellari sono stati i suoi risultati: solo un controllo spasmodico degli eccessi, di ogni sillaba della lingua messa in bocca ai suoi personaggi, gli ha garantito l’immunità da qualsivoglia caduta di stile. Ne è un esempio folgorante la prosa del Teatro di Sabbath (ora nel secondo Meridiano), di cui è protagonista un burattinaio messo a riposo dalla artrite deformante prima e dalla cacciata dal College dove insegnava poi, a causa delle molestie sessuali perpetrate ai danni di una studentessa. In lutto per la morte prematura della amante serbo-croata Drenka Balich, il burattinaio incarna al meglio delle sue virtualità espressive il Jewish Mischief, ovvero l’arte ebraica del dispetto, della birichianata, che innalza – scrive Simonetti – a «modello comportamentale, filosofia di vita, quasi una religione personale».
Roth si dedica al romanzo in gran parte al ritorno da un breve ricovero presso l’ospedale psichiatrico di Silver Hill nel Connecticut, una esperienza che ricorderà come letteralmente terrificante. Non a caso, quando nel 1995 lo presenterà ai suoi lettori, prima di leggerne alcuni brani ne parlerà come di «un libro in cui imperversa lo sfacelo, imperversa il suicidio, imperversa l’odio, imperversa la lussuria. In cui imperversa la disobbedienza. In cui imperversa la morte». All’uscita del romanzo, Frank Kermode gli dedicò una lunga analisi sulla «New York Review of Books» giudicandolo «straordinario», «un libro splendidamente perverso».
Il memoir dedicato al padre
Di tutt’altra natura, una natura del tutto eccezionale nella produzione di Roth, che considerava vantaggioso avere qualcosa o qualcuno da odiare per fornire combustibile ai suoi libri («uno scrittore deve infuriarsi per potere vedere») è il commosso memoir dedicato al padre nel 1991, sotto il titolo Patrimonio, ora anch’esso nel secondo Meridiano. Reduce da uno dei periodi più difficili della sua vita, lo scrittore americano segue passo passo la malattia di Herman Roth, il padre assicuratore che grazie al suo lavoro porta a porta per le strade di Newark aveva maturato una capillare conoscenza della città, poi raccoglie le sue considerazioni sottotitolando il libro Una storia vera, e si presta, per la prima e unica volta nella sua carriera, a condividerle con il pubblico, impegnandosi in una lunga torunée di reading.
Quale distanza emotiva, quale radicale straniamento dalla sua condizione di figlio amorevole, Roth dovesse guadagnare a sé per calarsi nei godibilissimi passaggi dei romanzi in cui Zuckerman riceve lettere esilaranti dal padre, o lo Svedese di Pastorale subisce l’indignazione del genitore ebreo di fronte alle pretese religiose della sua futura moglie cattolica (a proposito dell’eucaristia, da concedere o meno al futuro nipote: NON VOGLIO FAR DECIDERE A UN BAMBINO SE VUOLE O NON VUOLE MANGIARE GESÙ) è una delle implicite rivelazioni di Patrimonio. Più tardi, in una intervista alla «U.S. News & World Report» dell’11 febbraio 1991 (non contenuta nel volume einaudiano, ma riportata da Paolo Simonetti nelle sue Notizie sui testi) commenterà, a sigillo delle tante conversazioni avute con i medici e con il padre: «La sua morte non è avvenuta nell’universo delle parole». Come a denunciare, proprio lui, i limiti del linguaggio nel rendere conto dell’esperienza. Wittgenstein non sarebbe stato d’accordo, ma Roth se ne sarebbe fregato.
Il Fatto 21.10.18
I “Forrest Gump” latinos in marcia spaventano Trump
Centroamerica - Verso gli Usa 4 mila “caminantes” da Honduras, El Salvador, Guatemala. Il Messico schiera l’esercito al confine sud
di Paolo Frosina
Sono partiti in pochi, appena 160, all’alba di venerdì 12 ottobre dalla stazione degli autobus di San Pedro Sula, una delle città più pericolose al mondo, nel nord dell’Honduras. Ora sono almeno 20 volte tanto: una marea umana che è cresciuta a ogni passo. Hanno risalito Honduras, El Salvador, Guatemala, macinando – per lo più a piedi – oltre 40 chilometri al giorno. Ora il fiume di bandiere, volti e storie si è fermato, dopo 500 chilometri attraversati, a Tecún Umán, al confine col Messico. Vogliono entrare negli Usa, la terra che per loro è sinonimo di opportunità e speranza, ma che li teme, presidente Donald Trump in testa, soprattutto adesso che si avvicinano le elezioni di Midterm.
Si sono accampati nel parco, e sulla sponda del río Suchiate, che segna la frontiera tra Guatemala e Messico, cantando l’inno nazionale. Alla riva opposta del fiume, ad aspettarli, mille agenti messicani in tenuta antisommossa e grate d’acciaio alte tre metri. Per entrare in Guatemala, dall’Honduras, basta un semplice documento d’identità. Per passare il confine con il Messico, invece, è necessario il passaporto, ma in pochissimi ne sono in possesso. Così i 4mila caminantes hanno fatto della cittadina guatemalteca di Tecún Umán – 33 mila abitanti – il loro rifugio provvisorio.
Il grosso della carovana umana è arrivata qui due giorni fa. Tante le donne, tantissimi i neonati e i bimbi. C’è anche chi ha già provato a varcare la frontiera, imbarcandosi su natanti di fortuna per guadare il fiume. Scappano dalla povertà, dalla disoccupazione, dal reclutamento forzato e dalla violenza delle pandillas, le gang criminali centroamericane. Quando hanno potuto, sono saliti su auto, furgoni, persino tetti di bus. Molti agitavano bandiere bianco-blu honduregne e urlavano slogan contro Juan Orlando Hernández, il presidente accusato di connivenza con i cartelli del narcotraffico.
Mercoledì scorso, hanno attirato l’attenzione di Donald Trump. “Abbiamo informato i governi di Guatemala, Honduras e Salvador: se permetteranno a queste persone di attraversare i loro territori allo scopo di entrare illegalmente negli Usa, tutti i finanziamenti ai loro Stati finiranno”, ha scritto il presidente in uno dei tanti tweet dedicati ai caminantes. Il governo messicano di Enrique Peña Nieto, di tutta risposta, da giovedì ha ammassato al confine tra Tecún Umán e la città di Hidalgo, Mexico, poliziotti in assetto da “contenimento”. E Trump, postando il video di un aereo militare messicano che scaricava centinaia di agenti, ha ritwittato entusiasta: “Grazie Messico, non vediamo l’ora di lavorare insieme a voi!”.
“Ma è Dio che decide qui, non Trump – dice al Washington Post Luis, 32 anni – e noi non abbiamo altra scelta se non di andare avanti”. Con lui, venerdì, i primi honduregni hanno provato a passare il confine. Alcuni di nascosto, pagando 10 quetzal (poco più di un dollaro) ai traghettatori abusivi per passare il fiume, la maggioranza accalcandosi sul ponte Rodolfo Robles, l’unico che collega le due rive del río Suchiate. La “testa” del gruppo all’alba ha provato a sfondare: spingendo tutti insieme, hanno fatto cadere i cancelli, e qualche centinaio di migranti sono riusciti a far perdere le proprie tracce. Gli altri – inclusi quelli in regola con i documenti – sono stati respinti a lacrimogeni e manganellate. Resteranno a Tecún Umán. Si sono seduti a gambe incrociate sul ponte, che è coperto da una marea umana in attesa. Aspettano di sapere cosa sarà di loro.
Repubblica 21.10.18
Usa-Cina sfida tra imperi su tech, infrastrutture e debiti
Sul settimanale che torna in una nuova veste: lo spread ci costerà 7 miliardi
di Eugenio Occorsio
ROMA L’Italia rischia di dover mettere in piedi in fretta una seconda manovra per correggere gli squilibri e le superspese della prima, oggetto di furibonde polemiche e di fragili tregue in queste ore. Affari & Finanza di domani, il primo in veste totalmente rinnovata, pubblica i risultati-choc dei calcoli dell’Osservatorio dei conti pubblici, diretto da Carlo Cottarelli: se lo spread si fermerà alla quota 315 della chiusura di venerdì, i maggiori interessi costeranno allo Stato quasi sette miliardi nel 2019 e più di 11 nel 2020. Ma visto che non rientra ancora lo scontro con l’Europa – secondo la quale l’Italia ha avviato «il maggior scostamento dalle regole della storia del Patto di stabilità »– e che venerdì è arrivato il declassamento di Moody’s, è verosimile pensare che il costo crescerà. Per finanziarlo, come se non bastassero i 12 miliardi che il governo ammette essere privi di copertura, l’unica sarà emettere nuovo debito pubblico, sempre che i mercati siano disposti a comprarlo. E varare nuove tasse più o meno occulte, la cancellazione di deduzioni e detrazioni per imprese e famiglie, l’aumento di bollette e bolli pubblici. Una seconda manovra, appunto, stavolta nascosta ma necessaria.
Affari & Finanza di domani però, che vuole avere specialmente in questa nuova edizione uno sguardo ben aperto sul mondo, “apre” con una storia non meno appassionante: la rincorsa della Cina a conquistare il dominio tecnologico del mondo a scapito nientemeno che degli Stati Uniti. I quali mantengono per ora la leadership però sono incalzati dal potentissimo rivale asiatico, corroborato dall’affermazione di Huawei nella tecnologia del 5G e intenzionato ad assumere la supremazia nei semiconduttori, nelle auto elettriche, persino nelle soluzioni Internet. Per farcela, i cinesi mettono in campo un’immensa quantità di capitali pubblici e privati e una capacità operativa di prim’ordine. Il simbolo di questa affannosa rincorsa è la “Nuova via della seta”, di cui però Federico Rampini analizza sempre su A&F i mali occulti: dietro il gran numero di investimenti che serviranno a collegare est e ovest entro pochi anni – porti, ferrovie superveloci, aeroporti, autostrade – si celerebbe uno spirito colonialista e un modello economico sbagliato, tutto basato sui debiti.
C’è molto di più sul nuovo A&F.
Due le interviste di rilievo. La prima è con Yves Perrier, numero uno di Amundi. Pur mettendo in guardia l’Italia dagli eccessi di spread e debito, Perrier conserva un giudizio non negativo sul nostro Paese rimarcandone «la solidità del tessuto industriale», ed esclude qualsiasi ipotesi di uscita dall’euro. L’Italia è diventata particolarmente importante per Amundi, e Milano uno dei principali hub internazionali del gruppo, specialmente dopo l’acquisizione due anni fa (a vendere fu Unicredit) di Pioneer. Una fusione che procede molto bene, ora sta entrando in un’ulteriore fase di sviluppo. L’altra intervista è con Alan Dehaze, ceo di Adecco, il gruppo svizzero che seleziona personale in 60 Paesi. Che è meno accomodante con l’Italia: il decreto dignità, rileva, è mal congegnato perché non è provato che basti interrompere un rapporto temporaneo perché se ne crei uno indeterminato, ed è anacronistico perché «chi decide di investire in capitale umano deve poter contare su margini di flessibilità». Meno drammatico ma tutto da leggere, su A&F, è poi il racconto della fine del telefono fisso dopo oltre un secolo di storia. Dalla manovella al cordless, sono i nuovi smartphone e il web a determinare questo sviluppo, già realtà in Paesi come la Francia e la Gran Bretagna. Solo in Italia, nelle strategie di Telecom il rame ha ancora un futuro. Infine, un’inchiesta sul business delle miglia dei programmi frequent flyer: contabilizzati nei bilanci delle compagnie, valgono 120 miliardi di dollari. E’ addirittura nato un mercato nero fatto di scambi sul “dark web” di pacchetti di miglia.
Il Fatto 21.10.18
“Trump come Hitler e Salvini bigotto”: Moore ne ha per tutti
di Federico Pontiggia
“Salvini? Razzista e bigotto”. J’accuse firmato Michael Moore, che torna ai vertici della propria arte, e della propria vis politica, con il documentario Fahrenheit 11/9, alla Festa di Roma e in sala dal 22 al 24 ottobre. Dopo l’11 settembre di Fahrenheit 9/11, il regista di Flint, Michigan, inverte i numeri, e trova un’altra data capitale per la storia e la democrazia a stelle & strisce: il 9 novembre 2016 in cui Donald J. Trump è divenuto il 45esimo presidente degli Stati Uniti.
Non risparmia nessuno, da The Donald, che paragona a Hitler, alla rivale Hillary Clinton, da Barack Obama, reo di aver tradito la sua Flint, all’establishment democratico, tenendo però una porta aperta alla speranza, incarnata dai ragazzi di Parkland e dai candidati espressione della società civile: “Due terzi degli elettori oggi sono donne, giovani, di colore, loro porteranno i cambiamenti. Sono gli ultimi giorni del dinosauro morente, l’uomo bianco che ha sempre preso le decisioni nel nostro Paese”.
Mutatis mutandis, richiesto del perché l’attuale governo giallo-verde abbia largo consenso nonostante gli errori commessi, Moore risponde: “Sono qui da cinque giorni, ho visto tanta della vostra tv. Gli italiani vedono Salvini, Di Maio e li trovano divertenti, ma non c’è nulla di divertente”.
Le responsabilità sono diffuse: “La sinistra ha lasciato avvenisse tutto questo, ha pensato che per vincere dovesse smettere di essere sinistra e farsi centro-qualcosa. L’Unità nel 1990 diffondeva un milione di copie, oggi non esiste più: la sinistra deve decidere quel che vuole essere, deve riappropriarsi del proprio partito”. Perché i rischi, qui come negli States, sono sensibili: “La democrazia non ha meccanismi di autocorrezione, a differenza delle automobili moderne: Salvini può prenderne la guida e farla precipitare dalla scogliera. Questi potrebbero essere gli ultimi giorni della democrazia per come la conosciamo”. E affonda, ancora sul ministro dell’Interno: “Bisogna smettere di essere carini nei confronti di Salvini, è un bigotto, contrario al matrimonio tra omosessuali. Deve capire che è amore, a prescindere da chi si ama”.
Corriere 21.10.18
A Londra un oceano contro la Brexit «Vogliamo un nuovo referendum»
In 700 mila guidati dal sindaco Khan: i britannici decidano sull’accordo con l’Ue
di Luigi Ippolito
Londra Si aspettavano un fiume di gente, è arrivato un oceano: 700 mila persone hanno invaso ieri il centro di Londra per chiedere un secondo referendum sulla Brexit, in una delle più grandi manifestazioni mai avvenute nella capitale britannica.
Gli stessi organizzatori non speravano di radunarne più di centomila, ma alla fine la folla era tale che non tutti sono riusciti a entrare nella piazza del Parlamento e si sono dovuti stipare nelle vie circostanti. Una manifestazione pacifica, chiassosa e coloratissima: tante le famiglie, i giovani, i bambini vestiti con i colori della bandiera europea (e così perfino qualche cagnolino).
Ufficialmente l’obiettivo della marcia non era chiedere un secondo referendum tout court: il voto c’è già stato nel 2016 e non può essere semplicemente ripetuto. Si tratta piuttosto di ottenere un «voto del popolo» sull’accordo finale che Theresa May concluderà con Bruxelles: ma non è un mistero per nessuno che nel cuore e negli animi dei dimostranti c’era la ferma intenzione di rovesciare la Brexit.
Ma è proprio per questo che alla manifestazione di ieri non ha partecipato nessun politico di rilievo: non solo il governo conservatore esclude recisamente la possibilità di un secondo voto, ma anche il partito laburista resta molto cauto su questa prospettiva. Neppure l’opposizione vuole lasciar passare la percezione che si voglia mettere in discussione la decisione presa democraticamente nel 2016.
L’unico personaggio di spicco ieri era il sindaco di Londra Sadiq Khan, che si era già schierato di recente in favore di un nuovo voto: e non a caso, visto che l’elettorato della capitale è in grande maggioranza ostile alla Brexit. Per il resto solo figure di secondo piano, come il leader dei liberaldemocratici Vincent Cable, la «ribelle» conservatrice Anna Soubry o il dissidente laburista Chuka Umunna.
Il problema di un secondo referendum è che, come si è già detto, non si può semplicemente ripetere il primo: perché allora non farne poi un terzo, e andare al meglio dei tre? Assurdo. Allora il voto dovrebbe vertere sull’accordo finale: ma che succede se questo viene bocciato? Londra esce dalla Ue senza accordi o ci deve essere l’opzione di restare nell’Unione? Questione non facile da risolvere.
La verità è che, nonostante la dimostrazione di forza di ieri nelle strade di Londra, non esiste nel Paese una maggioranza a favore di un nuovo referendum: e l’opinione pubblica resta ancora sostanzialmente spaccata a metà sulla scelta europea. Una nuova consultazione, lungi dal dirimere la diatriba, non farebbe che riaprire una ferita che è tutt’altro che rimarginata. Ciò che oggi i più chiedono è di andare avanti: e mettere finalmente la Brexit alle spalle.
Italia, il Paese è questo....
Corriere 21.10.18
il sondaggio
Il 59% approva le misure
di Nando Pagnoncelli
Nel complesso la manovra del governo piace al 59 % degli italiani, mentre viene bocciata da uno su tre. La pace fiscale piace anche a chi vota M5S.
La presentazione della legge di Bilancio 2019 ha suscitato reazioni vivaci a più livelli e forti tensioni tra maggioranza e opposizione, tra il governo e le istituzioni europee. La risposta dei mercati finanziari non si è fatta attendere, lo spread ha raggiunto il livello più elevato degli ultimi 5 anni e la Borsa è in calo. A ciò si aggiungono i malumori tra le due forze della maggioranza sul sospetto di manipolazione del decreto fiscale.
Alla luce di queste reazioni, a distanza di tre settimane abbiamo voluto sondare nuovamente le opinioni degli italiani sui provvedimenti più importanti della manovra. I risultati non sono molto diversi rispetto al precedente sondaggio.
Iniziamo dai provvedimenti più divisivi, cioè il reddito di cittadinanza e la pace fiscale. Nel primo caso prevalgono le valutazioni negative, il 49% si dichiara contrario mentre il 42% è favorevole. Il consenso prevale largamente tra gli elettori pentastellati (73%), meno nettamente tra i leghisti (53%), mentre viene rigettato dalla stragrande maggioranza degli elettori dell’opposizione, con punte dell’85% tra quelli di centrosinistra. Piace ai potenziali beneficiari, cioè disoccupati, lavoratori esecutivi, residenti nelle regioni centromeridionali ma anche ai dipendenti del settore pubblico e alle casalinghe, mentre viene osteggiato dai ceti dirigenti e impiegatizi del settore privato, dai lavoratori autonomi, dalle persone più istruite e dai residenti delle regioni settentrionali.
Quanto alla pace fiscale, il 47% si dichiara a favore e il 42% contro. In questo caso il consenso prevale non solo tra gli elettori della maggioranza (64%, con lo stesso livello di consenso per i sostenitori delle due forze), ma anche tra quelli dell’opposizione di centrodestra, Forza Italia in primis (48%), e tra gli astensionisti (42%), come pure tra i ceti meno istruiti, le casalinghe, gli operai (mentre i lavoratori autonomi si dividono a metà), i residenti nel Nord est e al Sud.
Tutte le altre misure ottengono un ampio consenso, a partire dal taglio delle «pensioni d’oro», ossia la riduzione degli assegni pensionistici al di sopra dei 4.500 euro netti mensili, un provvedimento gradito dal 68% degli italiani, seguito dalla revisione della legge Fornero con l’introduzione della «quota 100» (58%), per finire con la «flat tax», cioè l’estensione della tassazione forfettaria al 15% a tutte le partite Iva con ricavi fino a 65.000 euro (55% i favorevoli). Nel complesso la manovra è apprezzata dal 59% degli italiani, mentre viene bocciata da uno su tre (33%). Piace a quattro elettori su cinque della maggioranza (81%), ma anche alla metà di quelli di FI, nonché agli astensionisti (50%). E fa breccia anche nel centrosinistra, dato che risulta gradita da circa un elettore su quattro (23%).
Rispetto al sondaggio di tre settimane fa aumenta dal 41% al 45% la quota di chi ritiene che la manovra non metterà a repentaglio la tenuta dei conti pubblici, mentre il 37% è di parere opposto e il 18% non sa rispondere. In ogni caso il deficit previsto e la possibilità di aumentare il debito pubblico non sembrano preoccupare più di tanto: infatti, secondo un nostro sondaggio per la trasmissione «DiMartedì» , il 55% ritiene che l’aumento dell’indebitamento sia necessario per far crescere l’economia.
Le reazioni dei mercati finanziari sono vissute come un’indebita interferenza. D’altra parte non brilliamo per competenze finanziarie (solo un italiano su quattro dà una definizione corretta di «spread» ed è in grado di valutare correttamente cause e conseguenze) e in questa fase ciò può rivelarsi molto utile in termini di consenso.
La manovra, quindi, è sostenuta da aspettative elevate. A questo punto per il governo non si tratta solo di mantenere gli impegni presi, quanto di verificare se (e quando) i risultati raggiunti corrispondano alle attese suscitate. Ma, come recita un proverbio inglese, la prova del budino è nel mangiarlo.
il manifesto 21.10.18
Poveri noi tra il gatto e la volpe
di Norma Rangeri
L’imbarazzante battaglia politica a colpi di condoni e la gara tragicomica tra Di Maio e Salvini a chi nasconde meglio l’evasore sotto il tappeto, rappresentano uno spettacolo che il nostro Paese e gli italiani non meritano. Il gatto (Di Maio) e la volpe (Salvini) hanno offerto un’immagine penosa di se stessi, senza neanche bisogno di un’opposizione di sinistra in grado di scalfire la maschera di credibilità e il consenso al governo gialloverde.
Ma il masochismo politico, per una coalizione che conta su una solida maggioranza, per il momento finisce con la cancellazione della non punibilità penale e dello scudo sui capitali esteri. Tutto risolto con un «amici come prima», sancito da un Consiglio dei ministri al quale la «manina» non ha partecipato.
Adesso cercano di incollare il contratto di governo fino alle elezioni europee, ma l’ultima sceneggiata rivela la difficoltà dei 5Stelle sia di fare i conti con la propria base, sia di conservare la forza elettorale che li ha portati a Palazzo Chigi. I colonnelli leghisti ormai li trattano come una truppa da mettere in riga, perché se per la Lega il condono è nel Dna, una tradizione «di famiglia» che risale ai tempi dei governi con Berlusconi, per il M5S essere quelli che si iscrivono all’albo dei furbetti e degli evasori appare come un boomerang.
E infatti il gran premio promesso da Di Maio allo scempio dell’abusivismo in Campania e soprattutto a Ischia (addirittura con la riesumazione del provvedimento del 1985, uno dei più estesi regali allo sfascio di quei territori), basta e avanza per smontare la piazzata del vicepresidente pentastellato che ha recitato il siparietto comico a Porta a Porta sul condono fiscale «a sua insaputa».
Le spine nel fianco della base grillina sono numerose e trafiggono non solo lo slogan «onestà, onestà», perché pungono profondamente anche il retroterra ambientalista e il campo dei beni comuni, a lungo coltivati dalla base, insieme all’avversione per il modello economico delle grandi opere. Non solo: il via libera allo sversamento in agricoltura dei rifiuti da idrocarburi, previsto dal decreto su Genova studiato dal fantasioso ministro Toninelli, rappresenta un altro regalo a chi potrà continuare a inquinare legalmente. Una violenza al territorio del Bel Paese che deve essere cancellata.
C’è poi un inquinamento più profondo che nutre i frutti velenosi della caccia all’immigrato: l’umiliazione del sindaco e dell’esperienza di Riace, lo smantellamento dell’accoglienza pubblica dei comuni per appaltare ai traffici dei privati la gestione di nuovi reclusori per i migranti, la discriminazione nei confronti dei bambini stranieri a Lodi. Proprio contro tutto questo, sabato prossimo, 27 ottobre, una iniziativa promossa da un corposo cartello di organizzazioni sociali, chiamerà alla mobilitazione in tutte le grandi città per fermare l’onda nera. Che minaccia anche la libertà delle donne, a novembre in piazza contro la violenza, il razzismo e in difesa della legge sull’aborto.
Ma sulla comunità nazionale oltre l’imbarbarimento della convivenza civile, sono già arrivate anche le prime cannonate della Commissione europea e delle agenzie di rating, determinando l’isolamento totale del paese, già punito da uno spread a livelli record. Eppure la linea di difesa del governo gialloverde, con le stime gonfiate di una crescita improbabile, a fronte di una sicura escalation del debito, aggrava la situazione di estrema difficoltà.
L’aspetto più preoccupante è che la Lega, proprio dentro questa crisi di credibilità e di immagine, stia guadagnano terreno, come sostengono tutti i sondaggi. Al contrario del M5S che accusa un appannamento. E la kermesse del Circo Massimo a Roma sembra, più che una celebrazione, una chiamata alle armi per ricompattarsi. Le divisioni nel gruppo dirigente, tra i parlamentari e gli amministratori locali, cominciano a manifestarsi. Non a caso il presidente della camera Fico, espressione della fase dei meet-up, cerca di arginare le falle aperte nel Movimento. Sull’immigrazione, sull’Europa, ora sul condono. E anche sul decreto sicurezza.
È possibile che i malumori all’interno del Movimento, come anche i dissensi con l’alleato leghista, finiscano in una bolla di sapone, perché tra far saltare il contratto e governare il Paese per cinque anni, la seconda via sarà quella preferita. Ma non c’è dubbio, come dimostrano le ultime schermaglie, che tra M5S e Lega si sia incrinato un rapporto di fiducia. E nei prossimi mesi, con le elezioni amministrative e quelle europee, l’amicizia tra il gatto e la volpe verrà messa a dura prova.
La Stampa 21.10.18
Lo choc che serve al Pd
di Federico Geremicca
Ormai l’espressione si è trasformata quasi in un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni contiene - naturalmente - un nocciolo di verità: l’opposizione non esiste. Lo si legge e lo si sente dire spesso, e la frase - buttata qua e là in un editoriale o in un talk show - fa sempre un bell’effetto.
Ci si riferisce, in particolare, all’opposizione che dovrebbe esercitare il Pd: e questa cantilena funebre comincia a trasformarsi in un grosso problema per un partito che prova a ripartire.
Infatti, annotate tutte le differenze (il riferimento possibile è al dramma dell’’immigrazione) la sensazione è che il Partito democratico sia finito vittima di quella che potremmo definire la maledizione della percezione. E dunque, così come la drastica riduzione del numero degli sbarchi non è servita a cancellare la percezione che l’Italia sia oggetto di un’invasione, allo stesso modo le iniziative del Pd (giuste o sbagliate che siano) sembrano non scalfire la generale convinzione, appunto, che «l’opposizione non esiste».
Se le cose stessero davvero così - e molti segnali sembrano confermarlo - è chiaro che per i democratici la strada sarebbe destinata a farsi ancora più in salita. Del resto, è stato forse lo stesso Pd a mettere il primo mattone di questa sorta di gabbia dell’irrilevanza nella quale si trova rinchiuso, nel momento in cui scelse la linea dell’isolamento subito dopo il voto. La sensazione che l’opposizione fosse fuori gioco (non esistesse, appunto) cominciò a formarsi allora: e da allora quella percezione si è via via radicata.
E proprio come per l’immigrazione, ciò è accaduto anche a dispetto dei fatti. Il Pd, certo, ha perso molte occasioni per tornare in campo: ma non è più immobile, e da un po’ sta provando a riavviare i motori. Opposizione parlamentare «stile Cinquestelle», una buona manifestazione di piazza (quella di fine settembre a Roma), l’avvio del percorso congressuale con candidature vere e contrapposte, perfino l’elaborazione di una (anzi due...) manovre economiche alternative a quella del governo. In termini di consenso, però, poco o nulla si è mosso, perché le percezioni sono difficili da modificare: e per farlo, a volte, può servire uno choc.
Da dove partire? Forse non più dal nome del leader da eleggere segretario, bensì dal profilo - etico e politico - del partito che quel leader dovrà guidare. E un profilo che non si fermi al solito elenco di virtù e di cose da fare ma renda esplicita, con coraggio, quella che un tempo si sarebbe chiamata politica delle alleanze. Al di là della costruzione di «campi larghi» e «liste aperte», insomma, con chi pensa di potersi alleare - domani - il nuovo Partito democratico?
Non è questione liquidabile come «politicista»: una risposta chiara a questo quesito, anzi, potrebbe cominciare a rimettere in movimento energie e disponibilità (anche lontano dal Pd) oggi in disparte per l’assenza di una direzione di marcia chiara. Messa necessariamente da parte la cosiddetta «vocazione maggioritaria», i democratici pensano che il Movimento Cinque Stelle - diviso in più anime, alcune delle quali in sofferenza di fronte alle politiche leghiste - possa essere un futuro alleato di governo? O ragiona, al contrario, intorno ad una qualche forma di nuovo patto con Berlusconi e quel che resta del centro?
È evidente che per chiedere voti bisogna spiegare con chi si intende poi spenderli: e indicare i Cinquestelle o Forza Italia, come possibili alleati, non è precisamente la stessa cosa. Certo, ci si potrebbe rifugiare (come accaduto fino a ora) in generici richiami a fronti progressisti che, al momento, paiono però lontanissimi all’orizzonte.
Se questa fosse la scelta, la percezione cambierebbe, certo: non più l’opposizione non esiste, bensì l’opposizione riflette ma prima o poi deciderà. Troppo poco per tentare la risalita in tempi di politica semplificata e slogan truci. Si dica con chiarezza, insomma (ed a farlo dovrebbero essere prima di tutto i candidati alla segreteria) cosa sarà il Pd e con chi farà accordi in futuro. Il dibattito potrebbe muovere energie e riservare sorprese. Perché, come da sempre, una scelta è sempre più comprensibile di una non scelta.
Repubblica 21.10.18
Lucano
“L’odio contro Riace la sta rendendo più viva i fondi privati ci salveranno”
Ci sono fondazioni che si sono fatte avanti offrendo aiuti e soldi Più colpiscono Riace più la rendono mitica, proprio come Troia Con i famosi 35 euro qui abbiamo creato laboratori artigiani, un asilo nido plurietnico, una scuola, presidi medici, un ristorante Certo che ho fatto errori ma è falso che sono metà cavaliere e metà bandito Il Lucano che raccontano non esiste: mi chiamo Mimì, non Mimmo
Intervista di Francesco Merlo
CAULONIA «Mi hanno reso importante, proprio io che dico tante cazzate, io che sono una testa di minchia».
Mimì si tocca la fronte e poi tocca la mia: «Ti dico una cosa che non devi fraintendere. Ricordi padre Puglisi, il prete santo? Quando a Palermo i mafiosi l’hanno ucciso in realtà gli hanno dato la vita».
Dici che ti vogliono uccidere?
«Vedi che non mi capisci? Non vogliono uccidere me, ma Riace.
Vorrebbero cancellarne la storia e farla scomparire dentro la sua geografia, in fondo alla montagna calabrese. Ma sta succedendo il contrario. Tutti capiscono che Riace non era mai stata così viva».
Ti è vietata la dimora. Puoi andare dappertutto tranne al tuo paese, dove, comunque, non sei più sindaco perché sei stato sospeso. Quanto ci soffri a vagare come Ulisse, non confinato ma sconfinato?
«Ulisse dici? Vedi, mi infliggono una sofferenza che ha dignità di poesia».
Gli avvocati sono poeti?
«Per favore, scrivi che Antonio Mazzone e Andrea Daqua mi difendono gratis. Mi pagano anche le marche da bollo».
Siamo nella cucina di un appartamento di Caulonia — «me l’hanno prestato per l’esilio» — a dieci minuti d’auto da Itaca, la pietrosa, aspra e dirupata Riace, e Mimì Lucano è circondato da tanti mimìlucanisti. Mi fa l’occhiolino: «Sei finito dentro la storia». È Riace che lo viene a trovare: «Io sono il vecchio complice, il palo della banda» dice con allegria il pittore Tonino Petrolo. C’è l’assessora Maria Spanò che sa come aiutarlo perché «Mimì si confonde nei concetti come prima si confondeva nelle procedure». E poi Kashai, pelle nera e barba bianca, e Bairam Akar, curdo con i verbi all’infinito: «Essere tu il rifugiato politico, tu finalmente riuscire a diventare curdo». Sul tavolo c’è una tovaglia di plastica con un tappeto di molliche recenti.
Mimì parla e straparla con le mani, che alza per disegnare il mondo: «“Coraggio, sindaco”, mi ha detto il pm. Ma ci vuole coraggio quando arriva la paura, e io di cosa potrei avere paura? Della solidarietà che mi arriva da Firenze e da Zurigo, da Napoli e da Parigi, da Vienna e da Palermo, dalla Germania e da Milano?».
È vero che due imprenditori milanesi vorrebbero finanziare Riace, cominciando con il comprare la tua famosa carta moneta?
«Non è il momento di fare nomi, ma ci sono Fondazioni private che offrono aiuto e soldi. Più la colpiscono e più rendono mitica Riace. Come la città di Troia. Riace è il nome di una fiaba, come Cenerentola».
La fiaba degli immigrati che arrivano dal mare e resuscitano un paese morto?
«Dovrebbero riprodurre questo modello nelle terre abbandonate del sud, nelle campagne desertificate della Sicilia, e ci vorrebbe un’altra riforma agraria.
Dicono che noi abbiamo “distratto” i soldi dell’assistenza. Lo stato versa 35 euro al giorno a immigrato. Hai visto cosa ne fanno nelle periferie di tutta Italia?».
Ho visto a Roma gli immigrati chiusi in palazzoni grigi con il cemento scrostato.
«Li tengono lì dentro a spiare e a farsi spiare dalle finestre. Ogni tanto portano le buste di plastica con il cibo. Li nutrono come si fa con i maiali. Se ci vai, capisci subito come si diventa razzisti e come nasce l’intolleranza dalla povertà, dalla tracimazione rancorosa della “generosità” di ghetto».
Trentacinque euro di odio?
«Con gli stessi 35 euro noi a Riace abbiamo creato il frantoio, i laboratori artigiani, vetro, ricamo, carta, gli aquiloni di Her?t, i vasi di Kabul... e un asilo nido plurietnico, una scuola, presidi medici, un ristorante, le borse-lavoro. E il paese diventa albergo diffuso per accogliere il turismo equosolidale. In una casa ha vissuto Wim Wenders, in un’altra Fiorello... Questa è distrazione o impiego di fondi?
Davvero è un sistema criminogeno?».
A Riace gli immigrati non commettono reati?
«Mai successo».
E i tuoi reati?
Mimì mostra i palmi: «Ma quali reati?». Si tocca il cuore, e poi la tasca: «Ci vuole un interesse criminale per commettere reati».
Agita gli indici e i pollici a L: «Ma se non ho niente!». E conta con le dita tutte le cose che non ha: «Trecento euro in banca, la macchina pignorata da Equitalia, niente casa, persino il telefono è rotto. Toccalo, diventa caldo caldo come un diavolo. Il tecnico mi ha detto: mettilo in frigorifero».
Niente errori?
«Certo che ne ho fatti. Ti ha detto Maria che mi confondo. Ma alla fine tutto torna perché non è vero che sono mezzo cavaliere e mezzo bandito. E i miei pensieri non sono strampalati come vorrebbero i tuoi colleghi che vanno a caccia di pittoresco calabrese. Ti sembro un ignorante? Non sono Pico della Mirandola, ma ho fatto il perito chimico, ho vinto un concorso per insegnare e ho insegnato a Torino.
Ho dato 16 materie a Medicina. Mio padre è stato maestro di scuola. Mio fratello è medico. Non mi vesto in sartoria, non ho staff né segretarie, parlo col cuore e a volte mi si affollano i pensieri, perché ne ho tanti. Sono difetti? C’è da riderne?».
Ce l’hai con i giornalisti?
«Questa te la devo dire bene: il Lucano raccontato non esiste, mi chiamo Mimì e non Mimmo e hanno scritto che sono primitivo e naïf. Si infilano nel luogo comune: Lucano è iperbolico e cafone perché un calabrese è sempre un calabrese».
E non è vero?
«Certo, ha un’identità forte: va sino in fondo, ha passioni, esaltazioni individualistiche, accese solitudini, e coltiva l’intelligenza libertaria sin dai tempi di Telesio e di Campanella... Ma hanno identità forti anche i siciliani, i sardi, i toscani, i genovesi, i romani, i napoletani. Solo agli indomiti e ostinati calabresi è riservato il pittoresco? Stasera vado da Fazio: in tv è anche peggio».
E la famosa compagna etiope?
«Mi hanno attribuito figli sbagliati e hanno stabilito che ho una compagna: ma che ne sapete? Io sono separato e vivo da solo, ma sono ancora un uomo. Ho tre figli: con Pina ci siamo sposati giovanissimi. Scrivi che è meravigliosa, anche se, per colpa mia, ci siamo separati. Ora vive a Siena con Eliana, la più fragile, la più sensibile. Poi c’è Martina che studia psicologia e vive con il fratello, Roberto, il grande, che è laureato in Ingegneria informatica e che...».
...non ti ha votato.
«Organizzò il movimento “Scheda bianca per Riace”. E al mio comizio di chiusura intervenne contro di me. Ora è diventato 5 stelle ed è, con me, politicamente severo. Una volta era di sinistra anche lui».
Ma c’era bisogno di inventarsi una moneta con la faccia di Che Guevara?
«Intanto non è una moneta. Si tratta di bonus, di voucher. Se funziona, perché non farlo?».
Anche D’Annunzio a Fiume stampò moneta.
«Il modello di Riace è di sinistra. E su questo non si scherza. Quando arrivò il primo barcone con i curdi noi abbiamo ristrutturato una casa per farne un ristorante. Il proprietario ci disse: compratevelo. Gli rispondemmo: non ci interessa la proprietà privata. Oggi non vuole più vendere e noi gli paghiamo un affitto di 5.000 euro all’anno».
Sei contro la proprietà privata?
«A Riace non serve. È una città libertaria. Il modello è quello delle comuni degli anarchici francesi “Longo Maï”, pacifisti e agricoltori, che vennero qui molti anni fa».
Chi sono i tuoi buoni maestri?
«Bakunin, Proudhon, il pensiero libertario, e poi Pasolini del “Vangelo secondo Matteo”, Franco Basaglia, Peppino Impastato, padre Puglisi, Camillo Torres, i curdi del Pkk, i cristiani della teologia della liberazione. Pedro Casaldáliga Plá diceva: “Il socialismo può essere cristiano, il capitalismo e il neoliberismo no” ».
Credi in Dio?
«A volte sì, a volte no».
E i tuoi cattivi maestri?
«Quelli che concretamente mi hanno portato sulla cattiva strada sono l’ex vescovo di Locri, monsignor Bregantini, l’ex sindaco comunista di Rosarno Peppino Lavorato e, prima ancora, Natale Bianchi, un ex prete sospeso a divinis, che fu mio insegnate di religione e ha tutt’oggi una vita travagliata. E poi Tonino Perna, il nostro “amico intelligente”. Insegna Sociologia Economica a Messina e a lui devo l’embrione del modello Riace. Fu suo il primo esperimento, a Badolato, nel 1997: un fallimento che ci servì da lezione. Poi, da presidente del Parco dell’Aspromonte, nel 2003 Tonino fece stampare una moneta cartacea. Lo abbiamo imitato: sono pezzi di carta risolutivi quando i ritardi di pagamento ti farebbero fallire. Nel mondo ci sono già 5.000 monete locali».
Per partire con il modello Riace dove avete preso il danaro?
«Ottenemmo un prestito di cento milioni di lire dalla Banca Etica perché in consiglio d’amministrazione c’era appunto Tonino Perna. Con il tempo li restituimmo tutti».
Da sindaco ti sei mai fatto prendere la mano?
«Ho sbagliato ad allargare troppo il modello, ad esportarlo fuori dal centro storico attirando così qualche speculatore. Perna mi aveva consigliato la prudenza, ma c’era il prefetto Morcone, proprio quello che ora dice che io deliravo, che da un lato mi copriva pubblicamente di lodi e dall’altro mi “allattava” il cuore per piazzare gli immigrati che nessuno voleva: “Prendili, ti prego”, e non c’era tempo per niente. Ora mi rimproverano di avere assegnato, senza gara, la raccolta dei rifiuti alla sola cooperativa che aveva un asino: le strade sono strette e le auto non passano. La gente legge “appalto per i rifiuti” e pensa alle grandi discariche, non al mio asinello spazzino».
Cosa succeederà?
«Immagino che revochino questo provvedimento sadico che non mi permette di tornare a casa mia».
Ti senti vittima del clima politico?
«Non mi ha certo arrestato Salvini, non ha questo potere. Ma anche la giustizia, si sa, è figlia del suo tempo, dei suoi pregiudizi, della sua politica. E Riace era, anzi è, uno scandalo troppo di sinistra nella brutta Italia di destra che stanno costruendo».
Repubblica 21.10.18
Viaggio nel sindacato
Riformisti contro massimalisti la Cgil si divide sul segretario
Camusso sostiene Landini, i pensionati preferiscono Colla. I dirigenti si lanciano accuse incrociate di eccessive simpatie ai Cinque stelle o collateralismo col Pd
Le categorie si stanno schierando
di Paolo Griseri
TORINO La sintesi è in due fotografie, ormai diventate pietra dello scandalo nelle opposte tifoserie. La prima immagine è del giugno scorso e immortala Bruno Papignani, segretario della Fiom emiliana, insieme a Luigi Di Maio di fronte ai cancelli della Menarini di Bologna, in lotta per sopravvivere. Perpignani posta l’immagine su Facebook e scoppia il finimondo. “Grillino”, “amico dei fascio-stellati”, ecc. Il secondo fotogramma fissa il momento in cui Vincenzo Colla fa capannello con Maurizio Martina e Nicola Zingaretti alla marcia per la Pace: “Collaterale al Pd”, “Cinghia di trasmissione” e via accusando. Tutto, insomma, congiura affinché il confronto tra i due candidati alla successione di Susanna Camusso, Maurizio Landini e Vincenzo Colla, diventi una caricatura da teatro dei pupi. Al contrario, la discussione sul nome del futuro segretario generale del maggiore sindacato italiano è maledettamente seria e può diventare uno snodo nella storia della sinistra italiana. La stessa categoria del populismo non serve affatto ad interpretarla. Quella divisione è più profonda perché nasce molto prima del “dimaioismo”, malattia senile del comunismo. Sembra piuttosto attraversata dallo stesso confronto tra massimalismo e riformismo che caratterizzò cent’anni fa il confronto nel Psi originario. Poi, certo il filo attraversa personaggi tra loro diversi. L’alternativa Turati-Bordiga non è quella tra Minniti e Zingaretti e neppure, di conseguenza, la contrapposizione tra Colla e Landini. Sembrano però evoluzioni nello stesso solco.
Non tutti i dirigenti accettano di schierarsi. Sostengono di volere “l’unità dell’organizzazione”, perché “i segretari passano e la Cgil resta”. Per il responsabile regionale della Calabria, Angelo Sposato, «l’importante è che tutti siano d’accordo sull’autonomia del sindacato dalla politica e sul documento che stiamo approvando nei congressi. Landini o Colla? Mi preoccupo della fuga dei giovani dal mio territorio, costretti ad emigrare per trovare lavoro al Nord». Non si schiera esplicitamente neppure Massimo Bonini, numero uno della Camera del lavoro di Milano: «Il mio problema principale non è il nome del segretario. È come tenere insieme il lavoro tradizionale e quello innovativo, come portare diritti a tutti cambiando il nostro modo di fare sindacato». Chi comincia ad entrare più nel merito delle differenze è il leader della Cgil campana, Giuseppe Spadaro. Landini massimalista? «Intorno a lui verrà proposta una squadra che lavorerà e troverà i punti di equilibrio. Non vogliamo certo un modello di tipo leaderista come è stato Renzi nel Pd. Abbiamo gli anticorpi per evitarlo ».
Ben prima della discussione sulla successione a Camusso, la Cgil aveva già sposato alcuni temi che solo successivamente sono diventate un cavallo di battaglia dei grillini: «Come facciamo a rimanere indifferenti di fronte a chi propone quota 100 o la pensione dopo 41 anni di età? Sono stati il nostro cavallo di battaglia in tante manifestazioni », spiega Spadaro. Semmai, in Campania, il vero problema non è «il fatto che nei luoghi di lavoro comincia a diventare popolare la propaganda di Salvini». Di conseguenza una segreteria di Landini potrebbe essere il contraltare perfetto. Per capire le ragioni profonde della divaricazione è inevitabile andare in Emilia, epicentro del terremoto. Tra il reggiano Landini e il piacentino Colla corre una divisione lunga un secolo. Basta sentirli raccontare dagli opposti schieramenti. Da quattro anni Bruno Pizzica guida i pensionati emiliani. Non è un mistero che lo Spi è uno dei santuari dei sostenitori di Colla: «Va bene che in un congresso ci siano più candidature alla segreteria. Non va bene che il segretario generale in carica invece di fare l’arbitro scenda in campo a favore di una delle due squadre». Come diceva la Francesca dantesca, “il modo ancor m’offende”. Pizzica si arrabbia: «Ma come? Siamo la Cgil, abbiamo sempre rifiutato l’idea di un uomo solo al comando. Abbiamo combattuto il renzismo e adesso ci troviamo di fronte al camussismo?». Accuse feroci. Non tanto a Landini quanto proprio alla gestione dell’attuale segreteria, considerata troppo tenera con il governo: «Per reagire al sopruso consumato sulla Diciotti ci abbiamo messo quattro giorni». Colla avrebbe reagito prima? «Colla ha dimostrato qui in Emilia di saper essere autonomo e rivendicativo verso il Pd». Ma insomma, che cosa deve fare un sindacato se il governo accoglie una parte delle sue storiche rivendicazioni? «Di fronte al razzismo, per me possono mettere anche quota 90 sulle pensioni ma non va bene lo stesso».
Frase chiave, quest’ultima. Speculare e opposta a quella che pronuncia Bruno Papignani, numero uno della Fiom emiliana, ovviamente sostenitore di Landini. È stato lui al centro della polemica per il selfie con Di Maio di fronte ai cancelli della Menarini: «Io mi batto per tenere aperta la fabbrica. Se arriva un politico che me lo promette, certo che mi faccio il selfie». E questo non è collateralismo? «Al governo ci sono destra e sinistra. Una parte dei 5 Stelle viene dalla sinistra. E se sono al governo con Salvini è anche per l’atteggiamento rancoroso del Pd che non ha voluto allearsi con loro. E anzi, aggiungo che se domani Di Maio rimette la cassa integrazione, mi faccio un altro selfie, senza problemi » . E se la promettesse il Pd? «Il Pd oggi non lo segue più nessuno » . Ma Landini riuscirà a sconfiggere le resistenze dei pensionati? « La base dei pensionati sta con lui. Sono i dirigenti che si oppongono » . I maligni insinuano che i pensionati potrebbero battere i pugni perché la Fiom ha sempre progettato di sciogliere lo Spi. « Noi non battiamo i pugni e non minacciamo nessuno», ribatte Pizzica. E aggiunge: «Certo non potremo essere molto solidali con chi pensa di scioglierci». E se l’organizzazione non sarà d’accordo? Il segretario dei pensionati emiliani scherza: « E che cosa vuoi che mi facciano? Non possono nemmeno licenziarmi: sono in pensione».
il manifesto 21.10.18
Potere al popolo in assemblea a Roma: i portavoce scelti dal voto via web
Cantieri della sinistra. Più di 500 i tavoli tematici, stamani la plenaria. In ballo lo strappo finale con Rifondazione
di Adriana Pollice
È cominciata ieri a Roma l’assemblea nazionale di Potere al popolo (che si concluderà oggi) dopo la campagna di adesioni (oltre 9.300 i tesserati) e la votazione sullo Statuto terminata con la vittoria del testo 1 e il conseguente scontro con Rifondazione comunista.
Ieri mattina hanno partecipato in oltre 500 ai tavoli tematici su ambiente e territorio; mutualismo, accoglienza, immigrazione, sicurezza; lavoro e redistribuzione della ricchezza; Unione europea, guerra, internazionalismo; questioni di genere, laicità e diritti. Si tratta della terza tappa di un lavoro cominciato alla scorsa assemblea nazionale di Napoli a maggio e proseguito poi durante il «Potere al popolo Camp» a Marina di Grosseto ad agosto. Lo scopo è individuare pratiche e mobilitazioni comuni sul territorio nazionale «contro il governo dell’odio».
Stamattina, a partire dalle 10 al Teatro Italia, ci sarà invece l’assemblea plenaria di Pap: si discuterà dei temi politici sul tavolo, a partire dall’attacco al modello Riace e a Mimmo Lucano da parte dell’esecutivo verdegiallo, alla manovra finanziaria e al ricatto dello spread. Ma si discuterà anche delle prossime elezioni europee: sarà infatti dalla base che dovranno arrivare «le proposte da confrontare con altre realtà politiche a livello europeo per decidere poi se e come partecipare alla campagna elettorale».
Ci sarà anche spazio per un confronto su come strutturare Pap come soggetto politico.
Domenica scorsa il coordinamento nazionale ha ratificato l’adozione dello Statuto 1 (28 favorevoli, 3 contrari e un astenuto) votato sulla piattaforma online tra le proteste di Rifondazione, che di nuovo domenica ha chiesto di azzerare tutto e ricominciare la discussione daccapo. Rigettata la proposta del Prc, lo statuto è stato adottato in forma sperimentale per essere poi sottoposto alla verifica degli aderenti e delle assemblee territoriali entro ottobre del 2019.
Oggi ci sarà la presentazione dei candidati al coordinamento nazionale e ai ruoli di portavoce, che verranno poi selezionati attraverso la piattaforma e le assemblee territoriali, di cui pure verrà discussa l’organizzazione. Resta da verificare se Rifondazione parteciperà o se si andrà verso una rottura traumatica, che lascerebbe aperti molti nodi a partire dal tesseramento. Sul sito di Pap c’è l’invito «a non partecipare a polemiche sui social e a restare concentrati sugli obbiettivi».
Il Fatto 21.10.18
Occhetto, testimone diretto dell’“eclissi” della sinistra
di Antonio Padellaro
“Queste parole furono coperte da una risata satanica. Noi eravamo esterrefatti. Lo scenario catastrofico che era stato evocato, come se emergesse da una demoniaca seduta spiritica, superava ogni immaginazione. Facevamo fatica a credere a quanto avevamo appena ascoltato”.
Achille Occhetto, “La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra”, Sellerio
Achille Occhetto è stato l’ultimo segretario del Partito comunista italiano e il primo del Partito democratico di sinistra. Fu protagonista della famosa svolta della Bolognina che – il 12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino – segnò in maniera indelebile la storia della sinistra, nel bene e nel male. Occhetto è anche ricordato come leader della “gioiosa macchina da guerra”, che chiamò a raccolta le forze del centrosinistra, sconfitte da Silvio Berlusconi nelle elezioni del 1994. Da quel momento, salvo sporadiche iniziative, Occhetto ha scelto l’ombra, quasi si sentisse un sopravvissuto. Eppure, egli resta il testimone diretto di una vicenda storica di straordinaria importanza. Come dimostra il suo ultimo libro, quasi un’autobiografia. Una miniera inesauribile di fatti e circostanze, di drammi umani e politici, di trionfi, di tragedie. Tutto intrecciato con l’esperienza di chi ha visto e sofferto molto. Come ogni libro di questo genere, “La lunga eclissi” va letto nella sua interezza.
In queste poche righe possiamo solo segnalare due episodi, di cui uno di impatto straordinario. Il primo riguarda Enrico Berlinguer che, svela Occhetto, già a metà degli anni 70 meditava una svolta rivoluzionaria. Accadde ad Agrigento, in una stanza d’albergo, durante la campagna per il divorzio quando, rivolto all’allora giovane segretario della Sicilia, il leader chiese, a bruciapelo: “Cosa ne pensi se cambiassimo nome al Pci?”. Nel corso della conversazione, Occhetto, “timidamente” fece la sua proposta: e se lo chiamassimo partito comunista democratico? “Berlinguer sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: ‘Da un lato è troppo poco, e dall’altro si finirebbe per far credere che noi attualmente non siamo democratici’”. E non se ne parlò più.
Nel libro si leggono pagine sconvolgenti sui regimi della paura: l’Urss e la Cina. Incredibile il capitolo intitolato “L’ultima cena: la rottura con i cinesi”, che potrebbe costituire la sceneggiatura di un film horror. Siamo verso la metà degli anni 60, in Vietnam gli interventi degli americani fanno presagire il conflitto, Occhetto partecipa a una riunione con i cinesi presieduta da Teng Hsiao-ping. Il monologo del segretario generale del partito, fedelmente riportato dall’autore, si sviluppa in un crescendo dal ritmo angosciante, che non può essere riassunto se non nella parte conclusiva. Quando, profetizzando l’escalation della guerra tra Washington e Hanoi, Teng auspica il seguente epilogo: “Con l’intervento dei cinesi i marines verranno ricacciati verso il mare. Allora gli Usa ricorreranno all’ultima estrema tappa. Getteranno la bomba atomica su Hanoi. Questo è un male ma anche un bene, perché a questo punto i revisionisti sovietici saranno costretti a scendere in campo al nostro fianco. Scoppierà così la terza guerra mondiale, che distruggerà l’imperialismo”. È qui che i presenti prorompono nella “risata satanica” che ammutolisce la delegazione del Pci. Non sappiamo se la guerra arrivò a sfiorare il punto di non ritorno progettato da Teng. Tuttavia, ora sappiamo a che punto poteva spingersi quella follia.
Corriere 21.10.18
La Cina delle invenzioni lunari
Un satellite per riflettere i notte il sole, un radar per cambiare il meteo
Così a Pechino la scienza immagina il fururo
di Guido Santevecchi
Un satellite per riflettere, di notte, la luce del Sole; un radar per cambiare il meteo: così a Pechino la scienza immagina il futuro
I bambini cinesi sanno fin dalla prima elementare che cosa sono le «Si da fa ming», le «Quattro grandi scoperte innovative» che l’antica Cina ha donato a se stessa e al mondo. La carta, la polvere da sparo, la stampa e la bussola sono figlie del genio creativo cinese e secondo Karl Marx hanno dato vita alla società borghese. Gli scienziati della Repubblica popolare stanno cercando di riprendere il primato innovativo mondiale con idee grandiose. L’ultima è la «Luna artificiale», ma c’è anche il «radar divino» e non vanno trascurate le «camere della pioggia» per creare un «fiume in cielo». Il denominatore comune di questi progetti è il tentativo di dominare la natura.
Il Quotidiano del Popolo, voce ufficiale del Pcc, ha appena annunciato che un istituto aerospaziale di Chengdu, capitale del Sichuan, si sta preparando a mettere in orbita una «luna artificiale» per illuminare le strade della città. Il satellite, dotato di uno specchio spaziale, rifletterebbe sulla Terra la luce del Sole ogni notte, sempre con la stessa intensità e senza doversi più inchinare di fronte alle fasi lunari: plenilunio costante. Secondo il signor Wu Chunfeng, presidente dell’azienda che ha prodotto la tecnologia, la replica sarebbe otto volte più brillante dell’originale e potrebbe proiettare la sua luce su un’area con un diametro compreso tra i 10 e gli 80 chilometri. Perché darsi pena di lanciare in orbita una costosa Luna finta? Perché la sua luce permetterebbe di sostituire i lampioni stradali di una grande città come Chengdu e risparmiare 1,2 miliardi di yuan all’anno in energia elettrica, afferma il signor Wu. Tutto pronto: partenza del satellite-specchio prevista nel 2020, dice il Quotidiano del Popolo.
Restano da discutere alcuni dubbi non trascurabili: secondo le anticipazioni di Wu la Luna artificiale orbiterebbe a 500 km dalla Terra, mentre quella vera è a 380 mila km. Per illuminare con precisione Chengdu lo specchio dovrebbe essere in orbita geostazionaria a 37 mila km, dicono esperti citati dalla Bbc. E poi ci sono le preoccupazioni degli ambientalisti sul rischio di disturbare la fauna. Il solito Wu replica che non c’è pericolo, perché la Luna artificiale produrrà una sorta di bagliore crepuscolare e quindi non dovrebbe influire sulla routine degli animali.
Ha messo in allarme non gli ecologisti ma i servizi segreti di diversi Paesi un’altra innovazione cinese: un sistema radar con un raggio d’azione di 2.000 chilometri, che ufficialmente ha lo scopo di studiare i fenomeni nell’alta atmosfera. In estrema e approssimativa sintesi il macchinario (un tipo di «radar di dispersione incoerente ad alta potenza» sperimentato da diversi Paesi) funziona generando rapidissimi impulsi di energia elettromagnetica e spedendoli in fasci nella ionosfera, la fascia dell’atmosfera che riflette le onde radio grazie all’alta concentrazione di ioni ed elettroni. Ma l’intelligence occidentale teme che i fasci sparati dal super-radar cinese possano influire sul clima, scatenando tempeste, uragani, tsunami ai danni del nemico. Lo strumento in costruzione nell’isola di Hainan, nel Mar cinese meridionale, è stato ribattezzato «radar divino». Scienziati indipendenti dicono che si tratta solo di teorie complottiste e che oltre a servire fini scientifici la struttura di Hainan può al massimo essere impiegata dai cinesi per spiare meglio le mosse delle flotte aeronavali avversarie.
Gli inventori di Pechino giocano però a sostituirsi alla divina provvidenza con il progetto per far piovere di più in Tibet e alimentare così i fiumi che scendono dall’altopiano, per combattere la siccità delle pianure settentrionali cinesi. Il piano è gigantesco, si tratta di concentrare su una parte del Tibet vasta quattro volte l’Italia decine di migliaia di camere di combustione che, bruciando carburante solido, disperderanno ioduro d’argento, un composto dalla struttura cristallina molto simile al ghiaccio; i cristalli salirebbero in alto, intercetterebbero i monsoni e «feconderebbero» le nuvole provocando pioggia abbondante. Nome in codice del progetto: «Tianhe», Fiume celeste.
il manifesto 21.10.18
L’aspirina dei Neanderthal
Pleistocene. Tracce di legno di pioppo ritrovate tra i loro denti lasciano supporre che fosse noto l'effetto analgesico dell'acido acetilsalicilico. Senza rudimenti di medicina, vista la loro sofferenza per ferite e traumi, più alta di altri animali predatori, non sarebbero potuti sopravvivere per duecentomila anni
di Andrea Capocci
Nell’Europa del tardo pleistocene, un uomo o una donna di Neanderthal avevano a disposizione molti modi per morire. Si poteva perdere la vita per il freddo o di parto, aggrediti da una iena o pestati da un altro Homo, per mancanza di vitamine o per un piccolo infortunio. Per una specie bipede che cacciava animali grandi e pericolosi a piccoli gruppi, anche rompersi un piede poteva diventare fatale.
PER LORO FORTUNA, i Neanderthal avevano già inventato la medicina e il welfare, cioè l’abitudine di prendersi cura l’uno dell’altro all’interno del gruppo. Molti ritrovamenti fossili di Homo neanderthal riguardano individui con problemi di salute gravissimi e tuttavia morti in tarda età. Da queste scoperte, gli scienziati hanno dedotto che l’organizzazione sociale dei Neanderthal prevedeva cure mediche per i più deboli. Nell’ultimo numero della rivista Quaternary Science Review, una ricerca della paleontologa Penny Spikins del suo gruppo di ricerca all’università britannica di York analizza sessant’anni di ritrovamenti e dà una spiegazione della nascita della medicina e della cura tra i Neanderthal.
Occuparsi di un familiare malato oggi può sembrarci un gesto talmente naturale da essere innato. Al tempo dei Neanderthal, invece, poteva costare la vita. I Neanderthal vivevano in gruppi di poche decine di individui che si spostavano spesso alla ricerca di cibo. Per nutrirsi, cacciavano animali anche di grande taglia, intrappolandoli in avvallamenti e dirupi. L’infortunio di un membro del gruppo avrebbe ostacolato gli spostamenti e sottratto risorse preziose per la collettività.
D’altra parte, la sopravvivenza di un membro anziano del gruppo permette la conservazione e la trasmissione di conoscenze preziose da una generazione all’altra. Inoltre, poter guarire dagli infortuni permette di adottare strategie più rischiose. Una delle caratteristiche dei Neanderthal e della mitologia che li circonda era proprio il loro avventuroso stile di vita. Cacciavano a mani nude animali molto più grandi di loro, come mammut e rinoceronti.
NE RISULTAVA un tasso di infortuni elevatissimo. Secondo uno studio del giapponese Wataru Nakahashi del 2017, tra l’80 e il 95% dei Neanderthal aveva sofferto in vita di ferite traumatiche di varia gravità. Si tratta di una percentuale elevatissima se confrontata con il tasso di infortuni rilevato in altre popolazioni di cacciatori-raccoglitori, ma anche rispetto ad altri animali predatori, come lupi o uccelli rapaci. Senza qualche rudimento di medicina, uno stile di vita così pericoloso sarebbe stato suicida. Invece i Neanderthal sopravvissero per circa duecentomila anni.
«Le cure sanitarie sono normalmente interpretate come una pratica culturale complessa senza una chiara funzione adattativa – spiega Spikins -. Invece, molti esempi di cura della salute tra i Neanderthal erano poco dispendiose e molto efficaci nel ridurre la mortalità».
OVVIAMENTE, dopo decine di migliaia di anni i resti riguardano ossa e denti e le informazioni che si possono ottenere riguardano soprattutto queste parti del corpo. Ad esempio, nelle «cartelle cliniche» studiate da Penny Spikins e colleghi figura il caso dell’iracheno «Shanidar 1» (i Neanderthal prendono il nome dal luogo e dall’ordine cronologico del ritrovamento), che soffriva nell’ordine di un arto paralizzato e atrofizzato, un braccio fratturato e amputato, un’infezione alla clavicola, una frattura del quinto metatarso, artrosi in vari punti, una tibia deformata e varie lesioni sul cranio. Eppure, lo spericolato «Shanidar 1» è morto a un’età compresa tra i 35 e i 50 anni, all’incirca l’aspettativa di vita media di un iracheno degli anni ’60.
Secondo la bioarcheologa Lorna Tilley dell’università di Canberra, questa longevità si spiega anche con la capacità dei Neanderthal di calcolare le probabilità di recupero prima di decidere se investire risorse del gruppo nel tentativo di salvare un suo membro. Se l’individuo infortunato non era in grado di muoversi autonomamente, il gruppo poteva fermarsi per qualche tempo e occuparsi del malato fino al recupero.
Negli ultimi dieci anni, i denti rinvenuti negli scavi hanno permesso di compiere eccezionali scoperte sulle abitudini dei Neanderthal. Essendo un organo decisivo per la sopravvivenza prima dell’invenzione del frullatore, il genere Homo ha imparato a curarli molto prima di Neanderthal: i primi interventi di odontoiatria risalgono a un milione e mezzo di anni fa. Il dentifricio anti-placca, invece, è un’invenzione molto più recente, per la fortuna dei paleontologi: nei depositi di tartaro rimangono tracce preziose dell’alimentazione dei Neanderthal.
UNA DELLE SOSTANZE più interessanti è stata identificata dalla microbiologa Laura Weyrich che, nel 2017, ha analizzato i denti appartenuti ai Neanderthal belgi e spagnoli. Oltre ai batteri responsabili di un ascesso dentale, Weyrich ha trovato anche tracce del legno di pioppo. Non essendo commestibile, l’ipotesi più probabile è che già all’epoca fosse noto l’effetto analgesico dell’acido acetilsalicilico, il principio attivo dell’aspirina e di cui il pioppo è ricco.
La bassa incidenza delle infezioni tra i Neanderthal si spiega invece con la capacità di curare le ferite. «Gli Inuit uccidono i lemming per usare la pelle per proteggere le ferite – scrive Spikins -. I Neanderthal potrebbero aver usato l’ocra come antisettico».
Infine, le dimensioni del cranio e del bacino suggeriscono che anche tra di loro la donna fosse assistita durante il parto. Avere un cervello di grandi dimensioni, come avveniva nei Neanderthal e in Homo sapiens, costituisce un vantaggio cognitivo. Aumenta però la difficoltà e i rischi del parto, rendendo necessaria la collaborazione di altre donne. Solo grazie alle ostetriche, il cervello dei Neanderthal ha potuto aumentare di volume e permettere lo sviluppo di attività complesse come il linguaggio.
Purtroppo, non rimangono tracce di altri organi. «Le evidenze archeologiche visibili probabilmente sono solo la punta dell’iceberg delle pratiche sanitarie più comuni», scrive Spikins.
RIMANE DA CAPIRE se anche Homo sapiens, che per diverse migliaia di anni convisse con Neanderthal, avesse competenze simili, e se tra le due popolazioni si sia verificato uno scambio culturale. È molto probabile che ciò sia avvenuto, perché l’analisi genetica dei resti dimostra che i geni di Neanderthal e sapiens si siano mescolati per via sessuale almeno in due momenti. In ogni caso, la salute dei nostri antenati deve molto ai Neanderthal.
Una ricerca pubblicata a inizio ottobre sulla rivista Cell da David Enard (università dell’Arizona) e Dmitri Petrov (università di Stanford, California) mostra che nel Dna degli attuali europei sono presenti 152 geni già rilevati in quello di Neanderthal e coinvolti nella risposta immunitaria contro virus come Hiv, epatite C e influenza A.
Secondo Enard, «i geni di Neanderthal probabilmente ci protessero contro i virus incontrati dai nostri antenati quando uscirono dall’Africa». L’accoppiamento con i Neanderthal potrebbe aver permesso loro (cioè a noi) di resistere a quelle malattie e diffonderci su tutto il pianeta.
Corriere La Lettura 21.10.18
Incognita India sospesa tra Usa e Cina
di Danilo Taino
Non sottovalutate le Maldive. Narendra Modi, il primo ministro indiano, non l’ha fatto e in settembre si è guadagnato una vittoria politica che non si aspettava. Perché, in una certa schizofrenia da globalizzazione, l’arcipelago delle meraviglie marine ha una posizione geostrategica che lo mette nelle mappe degli strateghi militari prima ancora che in quelle dei vacanzieri. Può essere un vantaggio. O una maledizione.
È che le Maldive sono sulle linee navali più importanti per il commercio indiano, e non solo per quello. Inoltre, la loro distanza minima dall’India (per la precisione dall’isola più meridionale dell’arcipelago Lakshadweep, ex Laccadive), è inferiore a cento miglia marine: se una potenza straniera piantasse una base militare lì, a Delhi correrebbero brividi lungo la spina dorsale del governo. In effetti, l’ipotesi che una potenza straniera mettesse le sue navi da guerra nelle Maldive era, fino a un paio di mesi fa, concreta.
Le relazioni tra Delhi e Malé, la capitale dell’arcipelago, sono state buone fino al 2012, quando il primo presidente eletto nelle Maldive, Mohamed Nasheed, fu deposto da un colpo di Stato. Il successore, Abdulla Yameen, che nel 2013 vinse elezioni molto contestate, dichiarò a parole l’amicizia con l’India ma in pratica spostò la collocazione politica del Paese in direzione della Cina. Dopo la sua salita al potere, Pechino ha fatto numerosi prestiti alle isole minori dell’arcipelago, ha firmato un trattato commerciale e ha costruito un ponte di due chilometri tra la capitale e l’aeroporto. Giusto per fare capire di che muscoli dispone, nell’estate del 2017 ha anche ormeggiato in un porto dell’arcipelago una nave militare. Nel governo di Modi, a Delhi, l’irritazione e l’allarme erano alti. E sono diventati pressioni per intervenire direttamente quando, lo scorso febbraio, Yameen ha decretato uno stato di emergenza e sospeso i diritti costituzionali per 45 giorni. L’ostilità del governo di Malé nei confronti dell’India a quel punto era palese. Modi ha avuto il sangue freddo di non intervenire, pur considerando le Maldive nella zona d’influenza indiana. E la pazienza ha pagato. In settembre, Yameen è stato spazzato via alle elezioni da un’opposizione unita attorno a Ibrahim Mohamed Solih, il quale, come primo atto, ha telefonato al premier indiano per riaffermare l’amicizia. Il vecchio equilibrio sembra ripristinato.
La vicenda può sembrare secondaria, lontana. In realtà, racconta molto di quello che sta succedendo nell’Oceano Indiano, di quella che è la strategia di espansione cinese sulle rotte che collegano l’Asia al Canale di Suez e poi all’Europa e di come in questo nuovo Grande Gioco asiatico l’India sia protagonista. È uno scacchiere in cui sono in movimento diplomazie, militari, alleanze economiche. È la regione dei monsoni, come ha scritto Robert Kaplan, nella quale si deciderà molto del futuro ordine internazionale. Gli Stati Uniti, che a capire la politica asiatica faticano da sempre, hanno deciso di aprire con decisione all’India, la democrazia più popolosa del mondo, durante l’amministrazione di George Bush junior. Barack Obama ha poi incrementato l’attenzione e i rapporti. Donald Trump dice oggi di adorare Narendra Modi e gli indiani. Non è sempre stato così. Dall’indipendenza della Gran Bretagna nel 1947, Delhi ha avuto una relazione profonda con l’Unione Sovietica: pur mettendosi alla guida del movimento dei Non Allineati, Jawaharlal Nehru, il primo premier dell’India indipendente, preferì il rapporto con il mondo socialista a quello con il sistema capitalista. E l’America reciprocò: la scelta di Washington di appoggiare, in funzione anticinese, il Pakistan annichilì le possibilità di amicizia tra Delhi e Washington. Tutto è cambiato con la caduta dell’Unione Sovietica: il riavvicinamento tra Stati Uniti e India non poteva non avvenire. Oggi è diventato più importante che mai.
Il problema è che il Grande Gioco è estremamente complicato in una fase di scontro aperto tra Pechino e Washington. Anche per Modi. Da un lato, Delhi osserva con una dose notevole di apprensione l’espansione che Pechino conduce nelle sue vicinanze attraverso la Belt and Road Initiative, la cosiddetta Nuova Via della Seta sulla quale il leader cinese Xi Jinping ha deciso di investire mille miliardi di dollari e molto capitale politico. Nell’Oceano Indiano la Cina sta cercando di costruire basi logistiche strategiche. Una è l’ampliamento del porto di Gwadar, terminal sull’Oceano del Corridoio Cina-Pakistan in costruzione. Permetterà a una parte delle esportazioni cinesi di prendere la via del mare senza dovere passare dagli Stretti di Malacca, a rischio potenziale di blocco in caso di conflitto con gli Stati Uniti: Gwadar, sulla costa pakistana, è in una posizione strategica, sulla via delle forniture di petrolio dal Golfo Persico all’India e all’Asia. Un secondo corridoio è previsto andare dalla Cina in Myanmar, fino a Kyaukpyu, sul Golfo del Bengala: acque di cui Delhi è gelosissima. Pechino ha poi acquisito la gestione per 99 anni del porto di Hambanthota, nello Sri Lanka meridionale, isola praticamente confinante con l’India. Se avesse messo una base logistica anche nelle Maldive, l’accerchiamento del subcontinente indiano sarebbe stato completo.
Si tratta di sviluppi che Delhi ha osservato con preoccupazione. La sua rivalità con la Cina ha diverse dimensioni. I due Paesi continuano ad avere dispute territoriali nell’India del Nord che di tanto in tanto precipitano in scaramucce. Gli stretti rapporti tra Pechino e il Pakistan, avversario storico di Delhi, tengono sul chi vive i governi indiani. L’espansione cinese un po’ in tutta l’Asia e soprattutto nell’Oceano Indiano sono in testa alla lista delle sfide di cui si occupa l’esercito di Delhi. E, in generale, più aumenta l’influenza cinese nella regione, meno spazio c’è per la crescita dell’influenza indiana: un gioco di rivalità tra le due potenze.
In questo quadro, Modi ha cercato e stabilito alleanze asiatiche, la più importante con il Giappone. Continua invece a essere restio a entrare in un rapporto strategico pieno con Washington: le mosse talvolta erratiche di Donald Trump sono un freno serio a una collaborazione in funzione anticinese. L’America First del presidente degli Stati Uniti solleva perplessità e dubbi anche a Delhi. Se da un lato la scelta di Trump di limitare l’espansione geopolitica della Cina va nella direzione degli interessi indiani, il governo di Modi e i suoi strateghi si chiedono che cosa farebbe Washington se le tensioni tra India e Cina sui confini himalayani diventassero un vero scontro, oppure se focolai di tensione si accendessero nell’Oceano Indiano. Difficile essere certi di un sostegno forte.
La politica commerciale della Casa Bianca, inoltre, non sempre è vista favorevolmente a Delhi, la cui economia per continuare a crescere ha bisogno di confini aperti. Di recente, Trump ha sostenuto che l’India vuole un accordo bilaterale sugli scambi con gli Stati Uniti, «per farmi felice». Ha però definito Delhi «il re delle tariffe», per fare capire che ogni accordo sarà costoso per gli indiani. La geopolitica prende molto spesso un posto di seconda fila, nel mondo del presidente americano, rispetto al gusto di una buona sfida a due, anche con Paesi amici e strategicamente importanti.
Modi l’ha capito. L’imprevedibilità di Washington ovviamente ha conseguenze. L’India ha annunciato che continuerà a comprare petrolio iraniano (benché in misura minore) anche dopo che le sanzioni americane contro Teheran entreranno in vigore in novembre. E ha confermato l’acquisto, per 5,4 miliardi di dollari, di sistemi di difesa S-400 dalla Russia, anch’essi soggetti a sanzioni da parte di Washington. Trump ha detto che la sua reazione a queste due decisioni indiane arriverà più presto di quanto si possa prevedere. Su un altro versante, i dubbi sulla disponibilità di Washington a intervenire al fianco dell’India in un eventuale conflitto regionale hanno spinto verso un ammorbidimento dell’atteggiamento indiano verso Pechino. Con i cinesi che ricambiano. Modi sa che, senza l’appoggio americano, uno scontro diretto con la Cina lascerebbe il suo Paese a pezzi. Pechino, che fino a poco tempo fa ignorava Delhi, la prende in maggiore considerazione oggi che la crescita economica indiana ha superato per dinamismo quella cinese.
Non si può dire che Modi e Xi siano finiti uno nelle braccia dell’altro: tra i due leader, però, sono in atto prove di disgelo sin dal loro incontro «informale» a Wuhan (Cina) la primavera scorsa. Il Grande Gioco si svilupperà sui tempi lunghi. E l’India è destinata ad avere un ruolo sempre maggiore. Nei palazzi del potere di Delhi, alla Borsa di Mumbai, nelle società hi-tech di Bangalore, il benchmark del successo è da anni il tasso di crescita rispetto a quello della Cina. Un fatto di rivalità ancestrale. L’orgoglio nazionale, spesso frustrato in passato, è stato massaggiato nei giorni scorsi quando il Fondo monetario internazionale ha previsto che la crescita indiana sarà del 7,3% nel 2018 e del 7,4% nel 2019, in entrambi gli anni più alta di quella dell’economia cinese. Il tasso di sviluppo, però, non ha solo un effetto sull’autostima degli indiani. Essere la potenza più dinamica della regione ha un valore politico nei confronti dei vicini, aiuta a tenerli legati, offre loro un interscambio maggiore e prospettive economiche.
Se questa ottima crescita avrà un effetto anche sugli umori degli indiani non è però certo. L’anno prossimo si terranno le elezioni generali e una riconferma di Modi, del suo Bjp e delle buone, anche se condizionate, relazioni con Washington al momento è probabile ma non scontata. Non perché l’altro partito nazionale sia tornato forte: il Congresso, di base meno aperto all’America, candiderà Rahul Gandhi, figlio di Sonia e Rajiv, nipote di Indira, pronipote di Nehru, continuando la storia della dinastia; probabilmente aumenterà i consensi rispetto al disastro del 2014 ma al momento le previsioni danno vincente l’alleanza che sostiene l’attuale primo ministro, attorno alla maggioranza assoluta dei seggi nel Lok Sabha, la camera bassa. A decidere il vincitore saranno i temi sociali e le divisioni ideologiche ed etniche esaltate dal nazionalismo indù di Modi. Le dinamiche degli equilibri regionali e globali non influiranno in misura decisiva sul risultato. Risultato che, però, influirà sulle dinamiche geopolitiche. Ed è bene sapere che, ultimamente, l’elettore indiano spesso sorprende.
Corriere La lettura 21.10.18
L’ordine del caos
di Guido Tonelli
Solo nell’edizione cartacea
la conferenza che Guido Tonelli tiene giovedì 25 ottobre a Torino (ore 18.30) presso l’Auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo (corso Inghilterra 3).
Il Sole Domenica 21.
I testi e i precetti
Ippocrate giustiziere di codardi e ciarlatani
di Armando Torno
Ippocrate, il padre della medicina occidentale, nacque intorno al 460 a. C. nell’isola greca di Kos. Poche sono le testimonianze dei contemporanei su di lui, tuttavia Platone e Aristotele lo ricordano come il più grande tra i medici. La sua immagine fu costruita in un secondo momento dai commentatori, tra i quali si ricorda Galeno, greco del II secolo della nostra era, vissuto anche a Roma. Qui, tra l’altro, curò l'imperatore Marco Aurelio.
Sotto il nome di Ippocrate ci sono pervenuti circa settanta scritti di medicina, non tutti di sua mano. Furono accorpati, con buone probabilità, ad Alessandria, dove fu attiva la più grande biblioteca dell’antichità: nacque in tal modo, per esigenze di catalogo, il cosiddetto Corpus Hippocraticum. In esso è difficile stabilire quali testi siano del medico di Kos e quali della sua cerchia; di certo contengono soluzioni diverse su cure e mali. Si può aggiungere che risalgono in gran parte alla seconda metà del V secolo e alla prima del IV dell’era precristiana: in quel tempo la medicina era una delle technai (tecniche o arti che si desideri tradurre) che suggellarono il passaggio alla scrittura di conoscenze trasmesse oralmente. E la medicina di Ippocrate giunse a essere una techne autonoma dopo polemiche contro le guarigioni magiche, praticate nei templi; o avversando quelle superstiziose, tipiche di qualche ciarlatano. Al medico di Kos, per dirla in breve, dobbiamo l’idea di diagnosi, prognosi e della terapia di tipo dietetico.
Ora, se la scienza medica vive in un’altra dimensione rispetto a quella del suo fondatore (egli non disponeva di farmaci, se non quelli riconducibili a infusi vegetali), il testo del Giuramento che ci è giunto resta attuale. La deontologia odierna del medico ha poche varianti rispetto a quella di Ippocrate. Un passo come questo lo prova: «In tutte le case che visiterò entrerò per il bene dei malati, astenendomi da ogni offesa e da ogni danno volontario, e soprattutto da atti sessuali sul corpo delle donne e degli uomini, sia liberi che schiavi». Certo, qualcosa è cambiato – in talune cliniche, dove è possibile porre fine alle proprie sofferenze - laddove si legge: «Non somministrerò a nessuno, neppure se richiesto, alcun farmaco mortale». E ancora: «Neppure fornirò mai a una donna un mezzo per procurare l’aborto».
Jacques Jouanna, professore alla Sorbona, è il massimo esperto mondiale di Ippocrate. Oltre la monografia sul medico greco e sulla Scuola di Cnido (più di 700 pagine, è apparsa in edizione aggiornata nel 2009 presso Les Belles Lettres), sta attendendo all’edizione critica dei testi del Corpus Hippocraticum nella collezione greca della medesima editrice parigina. Una quindicina i volumi apparsi sino a oggi, il progetto fu cominciato da altri studiosi oltre mezzo secolo fa. Da pochi giorni è disponibile, curato, tradotto e annotato dallo stesso Jouanna, il tomo contenente i testi del Giuramento, dei Giuramenti cristiani in versi e in prosa, de La legge.
Nuova collazione di codici, registrazione delle scoperte papiracee, aggiornamento critico sono le caratteristiche di tale libro che riflette il lavoro di una vita. Nelle quasi 200 pagine d’introduzione al Giuramento, Jouanna esamina tra l’altro anche la tradizione araba, oltre le scoperte recenti di testi, tra cui la prima in greco del 1508, apparsa presso Gilles de Gourmont (si deve a Jean Irigoin). Dettagliatissimo è il lavoro introduttivo e filologico sul breve scritto La legge. Vale la pena rileggerlo, laddove ricorda che l’inesperienza «è nutrice di codardia e d’arroganza». E non soltanto in medicina.
Le serment, Les serments chrétiens, La loi
Hippocrate
Les Belles Lettres, Parigi, pagg. 524, € 65
Il Sole Domenica 21.
Milton Mayer
Così il Führer conquistò i tedeschi
di Beda Romano
Quando nel 1935 Milton S. Mayer si recò a Berlino il suo obiettivo di corrispondente era di ottenere una ambita intervista con Adolf Hitler. Non ci riuscì. Certo non poteva immaginare che sarebbe tornato nel Paese a guerra conclusa e soprattutto che avrebbe scritto nel 1955 un originale studio della società tedesca ai tempi del nazismo. They Thought They Were Free – The Germans, 1933-1945 è stato appena ripubblicato negli Stati Uniti. A una lettura attenta, contiene straordinari richiami all’attualità politica e si rivela un utile strumento di analisi per capire le vicende contemporanee.
Di origine ebraica e tedesca, Mayer appartiene a una schiera di studiosi americani della Germania nazista. Mentre Saul K. Padover in L’anno zero (Utet, 2004) si ispirò ai suoi ricordi di soldato americano e William S. Allen in Come si diventa nazisti (Einaudi, 2014) utilizzò statistiche elettorali e sociali, Mayer scelse di investigare le esperienze individuali, intervistando dieci uomini, «dieci piccoli nazional-socialisti».
Gli intervistati appartengono tutti o quasi alla piccola borghesia: bancari, insegnanti, negozianti, artigiani, poliziotti, studenti. Conosciamo il fascino che il carisma del Führer suscitò su un popolo frustrato dal Trattato di Versailles e impoverito dalla Grande Depressione, così come i meccanismi di irrigimentazione che segnarono la Germania di quel periodo. Più interessante è capire come e perché i tedeschi assecondarono il crescente e visibile autoritarismo del regime nazista.
La risposta è contenuta nel titolo del libro. Almeno all’inizio, il nazismo offrì ai tedeschi l’impressione illusoria di maggiore libertà. Liberi dalle sanzioni imposte alla Germania dopo la Grande Guerra. Liberi dalla presunta oppressione di un altrettanto presunto complotto giudaico-comunista-massonico. Liberi da una Repubblica di Weimar ritenuta corrotta ed inefficiente. Liberi da un mondo intellettuale lontano dalla kleine Leute. Liberi, in un contesto velleitario di autarchia economica.
Il legame di sangue divenne una forma di rassicurazione, un modo per creare una nuova Deutschtum, che doveva promuovere le virtù non intellettuali e proteggere il Paese dalle minacce esterne. Il Reich andava purificato, e lo studioso o il letterato non erano più persone fidate e rispettate, ma diventavano oggetto di sospetto e risentimento. Come non fare un paragone con il presente? In molti paesi, lo stesso euroscetticismo si traduce nel desiderio di liberarsi dagli impegni comunitari e ritrovare una probabilmente illusoria libertà.
Solo gradualmente, il regime nazista divenne autoritario e liberticida, sancendo «una separazione tra il governo e la sua popolazione». Senza accorgersene i tedeschi «sprofondarono in un mondo di odio e di paura, e chi odia e teme non si rende neppure conto di odiare e di temere; quando tutti sono trasformati, nessuno è trasformato», scrive Mayer. L’autore chiese ai suoi interlocutori perché questi non reagivano alle violenze crescenti. La risposta era che non vi era nichts dagegen zu machen, non vi era nulla che si potesse fare.
In realtà, quanto più gravoso è il sentimento di responsabilità di ciascuno di noi dinanzi a un evento, tanto più avremo la tentazione non di respingere ogni responsabilità, bensì di negarne la sua stessa esistenza. La spiegazione che l’autore dà del comportamento dei tedeschi dinanzi ai primi segnali di una uccisione sistematica degli ebrei è convincente, e può essere applicata oggi ad altri fenomeni politicamente più modesti e spesso tragicomici, a iniziare dalle ruberie quotidiane di cui siamo tutti in un modo o nell’altro testimoni. In fondo, in entrambi i casi, le ragioni sono da ricercare nella crisi della democrazia rappresentativa e nella sensazione diffusa che non tutti sono uguali di fronte alla legge.
Il libro di Mayer contiene non pochi moniti, soprattutto quando l’autore spiega che all’ascesa di Hitler contribuì anche la paura molto tedesca dell’accerchiamento, della «pressione esterna». Il Paese è stato definito nel tempo dalle invasioni nemiche, in modo non dissimile dell’Italia. Il Führer cavalcò questo sentimento nel prendere il potere a Berlino. Anche ai giorni d’oggi c’è chi evoca continuamente la minaccia esterna per rafforzare il proprio ruolo politico.
They Thought They Were Free. The Germans 1933-1945
Milton Mayer
University of Chicago Press,
Chicago (1a ed. 1955), pagg. 378, 20