mercoledì 17 ottobre 2018

il manifesto 17.10.18
Il dono dell’incompiutezza
Saggi. «Marx eretico» di Carlo Galli, pubblicato per Il Mulino
di Benedetto Vecchi


Un libro felicemente anomalo, questo di Carlo Galli, filosofo della politica che ha ingaggiato da anni un corpo a corpo con le tesi del giurista Carl Schmitt, inquadrandolo in quella corrente di pensiero sotterranea, ma a suo modo potente, che dal nichilismo approda all’elegia della decisione. E che arriva a diventare la tonalità teorica dominante del nazismo.
ATTORNO A QUESTI TEMI, Galli ha lavorato molto, consegnando ai lettori testi importanti, come Genealogia della politica (Il Mulino), Spazi politici (Il Mulino), Contingenza e necessità nella politica moderna, Ancora Destra e Sinistra (questi ultimi due pubblicati da Laterza). La sua vita ha contemplato anche un impegno diretto, come deputato, nell’agone politico. Esperienza istituzionale che non lo ha molto entusiasmato, per i suoi riti e le sue ingessature, tanto in Parlamento che nel partito democratico che lo ha eletto.
Mai però Carlo Galli si era confrontato con le teorie marxiane, meglio con Karl Marx, autore che è stato certo letto, ma che è rimasto finora quasi sempre sullo sfondo, una specie di classico al quale fare riferimento senza nessuna sistematicità. Ed è da accogliere con piacere la pubblicazione del condensato, ma fertile saggio che il filosofo italiano ha dato alle stampe in occasione del duecentesimo anniversario marxiano con il titolo Marx eretico (Il Mulino, pp. 164, euro 13).
UN LIBRO che non ha nessuna pretesa di sistematicità nell’analisi del pensatore di Treviri, ma che ha un nucleo tematico e teorico che va valutato positivamente. C’è il titolo, che è programmatico, perché sgombra il campo da banalità e letture interessate a demolire Marx, magari osannandolo a parole.
L’autore della critica dell’economia politica è un eretico: non lascia nessun appiglio alla costruzione – come invece purtroppo è accaduto – di una teoria dogmatica, deterministica della critica alla società del capitale.
Marx, scrive Galli, si colloca su quel sentiero dove la teoria sfocia nella prassi e dove la prassi alimenta la teoria. I filosofi hanno interpretato il mondo, ora si tratta di cambiarlo, scriveva Marx. Questo tuttavia non significa che non bisogna più fare teoria e filosofia. Semmai significa che la prassi è esperienza della lotta di classe, della disparità di potere tra le classi e che tutto ciò fornisce materiale per la teoria. Si potrebbe dire che dietro la frase di Marx sul passaggio all’azione c’è un invito a una prassi che non si chiuda in un sistema, ma che tenga aperta sempre l’interrogazione sul mondo.
DUNQUE MARX ERETICO rispetto a Hegel (amato e odiato, ma verso il quale si pone come interlocutore alla pari), perché individua il nocciolo del capitalismo, cioè l’appropriazione privata della ricchezza prodotta socialmente. Per restituire l’individuo alla sua umanità è questo il nocciolo da fondere. Il proletariato è il soggetto che incarna lo sfruttamento del capitale. Per questo è il soggetto riconosciuto per combattere il capitalismo. Su cosa sia il proletariato Marx lo chiarirà parzialmente, lasciando però aperta la porta a modifiche, variazioni, aggiornamenti tanto sulla sua composizione che sulla consistenza politica.
INTERESSANTI sono i riferimenti di Galli agli scritti più direttamente storico-politici di Marx (il 18 Brumaio e Le lotte di classe in Francia), dove le dinamiche politiche e istituzionali francesi e l’entrata in scena del proletariato sono indagate sul loro divenire, dunque sui limiti, il potenziale, i rapporti di forza presenti nella società e nella scena politica. Il proletariato sarà sconfitto nel 1848 con la cancellazione della Comune di Parigi, ma la sua storia non finisce con quell’insuccesso, annota Galli.
Anche la ponderosa critica dell’economia politica occupa un posto di rilievo in questo testo di Galli. Marx è uno studioso sistematico. Lettore onnivoro, passa giornate intere nella biblioteca di Londra, studiando i teorici dell’economia politica (Adam Smith e David Ricardo, ovviamente), ma anche leggendo voracemente giornali e report sui fatti politici.
LA CRITICA DELL’ECONOMIA politica ha una notevole base documentale per segnalare che c’è sfruttamento, c’è plusvalore non pagato al lavoratore. Ma mai – e su questo non si può che concordare con Galli – l’impianto analitico del filosofo di Treviri è voluto diventare sistema o, peggio, una teoria economica da affiancare a quelle già esistenti.
Marx voleva sovvertire il mondo, voleva cioè la rivoluzione. Certo non ambiva a una nicchia, più o meno polverosa, nella galleria dei grandi pensatori della modernità, come è accaduto ad altri filosofi e sociologi.
C’È UN’ALTRA PAROLA che torna continuamente in questo libro. Incompiutezza. Marx è l’incompiuto, colui cioè che ha aperto molti sentieri, percorrendone alcuni e abbandonandone altri. L’incompiutezza lo avrebbe dovuto preservare dalla sua musealizzazione, ma non è stato così. Il diamat sovietico e molto marxismo della seconda e terza internazionale lo hanno invece ridotto a un santino e le sue opere a una successione di frasi fatte, usate per legittimare esperienze statali autoritarie e soffocanti. Vero, ma fa bene Galli a ricordare le molte donne e uomini che lo hanno invece utilizzato per affermare proposte di liberazione dall’oppressione.
Marx, dunque, incompiuto. È questa una delle chiavi di lettura del volume, che merita attenzione. Non tanto per quello che evidenzia: il suo progetto di critica del capitale, Marx non riesce a realizzarlo. Continuerà a studiare, leggere, scrivere, inviare lettere per affermare che bisogna continuare a scavare, a interpretare il mondo per trasformarlo, ma la sua filosofia sarà incompiuta.
Non c’è però in questa proposizione nessun intento demolitorio. Semmai l’implicito invito a riaprire i laboratori marxiani, dopo che la sconfitta si è depositata. Galli, in poche pagine, segnala percorsi di ricerca messi in campo in questi anni. Dalla ripubblicazione di nuove edizioni critiche delle opere marxiane, all’incontro di Marx con altri teorici della modernità capitalista. Da chi propone la critica dell’economia politica del capitalismo digitale e finanziario a chi vorrebbe deprovincializzare e decolonizzare il pensatore di Treviri. Tutti percorsi aperti in sordina dopo la grande sconfitta, ma che segnalano la vivacità della riflessione marxiana.
FORSE IL MODO MIGLIORE per ricordare Marx è alimentare i laboratori marxiani, entrare nuovamente negli atelier della produzione (così diversi da quelli industriali di fine Ottocento) e svelarne l’arcano. Producendo dunque teoria e producendo politica. Quella radical che si propone un programma minimo: l’abolizione dello stato di cose presenti.

il manifesto 17.10.18
Un umanesimo integrale
Karl Marx. Pubblichiamo un'anticipazione dall'intervento per la giornata di studi del 18 ottobre, dedicata da RomaTre al filosofo di Treviri
di Donatello Santarone


La tensione classica verso il pieno sviluppo della persona umana, presente in Goethe e Schiller, si scontra con la società classista del capitale. Per questo Marx si applica allo studio dell’economia borghese e alla critica della sua presunta naturalità ed eternità. «Tutta questa merda», scriverà ad Engels a proposito dell’economia politica. Comprende lucidamente che solo il superamento del regime della proprietà privata borghese, che determina la miseria materiale e spirituale dei lavoratori, potrà consentire a questi ultimi di riappropriarsi della grande tradizione classica. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro doveva servire proprio a questo, a restituire ai produttori associati tempo e mente per fruire dei più alti prodotti dello spirito.
L’ALTA CONSIDERAZIONE che Marx aveva nei confronti della letteratura traspare in tanti luoghi della sua produzione. Le opere degli scrittori prediletti si depositano nelle sue pagine e gli offrono tipi, rappresentazioni, analogie, metafore, luoghi, linguaggi che entrano in maniera organica nelle sue analisi economiche, storiche, politiche, filosofiche.
«Marx – ha scritto Franz Mehring nella sua biografia – trovava ristoro e sollievo nella letteratura. Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe. Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica». Le parole di Mehring sono la migliore spiegazione del carattere umanistico della personalità di Marx.
Nel Manifesto del partito comunista troviamo ad esempio, in un famoso e profetico passo sulla globalizzazione del capitale, un esplicito riferimento ad uno dei poeti più amati da Marx, cioè Goethe, e alla sua nozione di letteratura mondiale. «Mi convinco sempre di più – scrive l’autore del Faust – che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità e si manifesta, ovunque e in tutti i tempi, in centinaia e centinaia di individui Oggigiorno letteratura nazionale non vuol dir molto, sta arrivando il tempo della letteratura mondiale e ciascuno di noi deve contribuire al suo rapido avvento».
QUESTE PAROLE di Goethe del 1827, nel loro innovativo cosmopolitismo interculturale affermano l’ideale della poesia-mondo. Goethe, infatti, ha sempre avuto una costante frequentazione, oltre che con le letterature francese, inglese e italiana (ricordiamo la sua grande ammirazione per Tasso e Manzoni), anche per le letterature persiana, araba e cinese. Il Divano occidentale-orientale, composto di poesie ispirate a Hafez, un poeta persiano sufi del XIV secolo, ne è l’emblema. Non è un caso se oggi l’Orchestra giovanile di israeliani, palestinesi e musicisti dei paesi arabi voluta da Edward Said e Daniel Barenboim prende il nome dal libro di Goethe.
PER DARE CARNE E SANGUE alle sue analisi Marx ha bisogno della parola letteraria, la quale conferisce ai suoi scritti una forma preziosa e colta, una solidità estetica di tipo classico. Ne era così convinto che decide di terminare la Prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale con un verso di Dante, un verso che era «la sua massima favorita»: «Sarà per me benvenuto – scrive Marx – ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!». Dove Marx in verità modifica l’originale di Dante, il quale, nel quinto canto del Purgatorio, scrive: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti».
Sentiva un’affinità profonda con l’autore della Divina Commedia, in particolare per la comune e ingiusta condizione di esuli.
COME PER TUTTI gli scrittori a lui cari, anche nei confronti di Dante l’atteggiamento di Marx non è quello del borioso accademico, ma quello di chi «usa» i classici per leggere il presente e cercare in essi una risposta alle domande del mondo contemporaneo.
«Quando ci si pone la questione – ha detto il poeta e saggista Franco Fortini – se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo».
UN ESEMPIO di questa «dantizzazione» è nella dura polemica che il filosofo tedesco ingaggia, in un testo del 1853, contro il giornale conservatore Times che in uno dei suoi articoli se la prende con i rifugiati in Inghilterra accusati di essere «individui feroci», «rotti a ogni delitto». Non dimentichiamo che Marx era uno di questi rifugiati a cui l’Inghilterra non concesse mai la cittadinanza dell’Impero britannico, costringendolo per tutta la vita ad una condizione di apolide.
In questo articolo contro il Times, esempio della brillante e caustica polemica giornalistica di Marx, un posto di prim’ordine spetta proprio a Dante esiliato da Firenze ma fortunatamente risparmiato da un attacco del Times!

il manifesto 17.10.18
Se la narrazione amplifica la violenza dell’altro
«All’ordine del giorno è il terrore», un volume di Daniele Giglioli per il Saggiatore
di Massimiliano Guareschi


Alla svolta del millennio la parola d’ordine era globalizzazione. Chi ne magnificava i destini, chi rimpiangeva le rassicuranti striature del tempo andato, chi ancora rilevava come la realtà contraddicesse gli assunti della retorica di uno spazio aperto in cui tutto circolava liberamente. L’11 settembre 2001 apriva una nuova fase, più cupa, segnata dall’endiadi terrorismo e guerra. A partire dal 2008, con l’esplosione della bolla dei subprime, il centro della scena era occupato da una crisi che, lungi dal presentarsi come squilibrio momentaneo, avrebbe manifestato profondi effetti costituenti accelerando e sostanzializzando processi in gestazione fin dagli anni 80.
E COSÌ GIUNGIAMO al tempo dell’oggi. Per qualificarlo si ricorre all’ennesimo significante fluttuante, ossia «populismo», la cui indeterminazione rende agevole ogni declinazione.
All’ordine del giorno è il terrore. I cattivi pensieri della democrazia è un libro di Daniele Giglioli uscito nel 2007 e riproposto oggi da il Saggiatore (pp. 220, euro 23). Il volume si collocava sulla scia dell’attentato alle Torri gemelle, a una distanza sufficiente per coglierne le implicazioni di medio periodo ma ormai sulla soglia della crisi del 2008. Riprenderlo in mano comporta un immediato effetto di estraniamento, rendendo tangibile la distanza che ci separa da un tempo tutto sommato prossimo in cui si leggevano compulsivamente libri sull’Islam e si familiarizzava con le geografie delle aree di confine fra Pakistan e Afghanistan. A questa prima impressione, tuttavia, si accompagna, paradossalmente, la percezione di come in realtà quel tempo sia ancora il nostro, di come non costituisca un passaggio che ci troviamo alle spalle, di come in esso si siano depositati «materiali», a livello di strutture e rappresentazioni, destinati a essere in seguito ricombinati in nuove configurazioni. Ed è proprio all’insegna di questo mix di distanza e prossimità che la riproposizione del libro trova il suo significato.
IL TERRORISMO è una pratica, una tattica. Ogni uso del termine come definizione di specifici attori risulta abusiva e strumentale. Il terrorismo, infatti, è sempre la violenza dell’altro. Punto di partenza della riflessione di Giglioli non può che essere questa. Liquidata la questione, All’ordine del giorno è il terrore passa ai temi che ne costituiscono la ragion d’essere. Immediatamente, l’accento cade sulla modernità del terrorismo jihadista, di contro alle narrazioni che ne enfatizzavano il carattere di insorgenza del passato.
Si tratta di una chiave di lettura che avrebbe trovato in seguito ampie conferme, specie quando ad al Quaeda, come brand, si sarebbe sostituito il richiamo di Daesh. Una differente prospettiva politica, ma non solo: all’austero arcaismo ostentato, a livello di immaginario, da Bin Laden e dai suoi seguaci si sostituisce un’evidente dimensione «sottoculturale»: suv che corrono nel deserto guidati da combattenti dai lunghi capelli al vento e un look total black con i nasheed di maggior successo in sottofondo, schiave sessuali come premio hic et nunc anziché il rimando alle vergini del paradiso.
Se il terrorismo jihadista non costituisce l’assoluta alterità, che irrompe da un fuori temporale e spaziale, allora a porsi è la questione della relazione fra il terrorismo e democrazia, con il primo considerato come non il contrario ma il rovescio della seconda.
ALLA RICERCA DI SPUNTI di riflessione, Giglioli si indirizza soprattutto verso la letteratura, da quella che raccoglie gli echi degli attentati anarchici e nichilisti di fine ottocento e inizio novecento, i nomi sono quelli di James, Conrad, Dostoevskij, Zola, passando per il Lee Oswald di de Lillo o la terribile figlia dello Svedese nella Pastorale americana di Roth per giungere fino al Shalimar di Rushdie o al terrorista di Updike. L’itinerario si arricchisce, con un procedere saggistico a spirale, toccando la questione del Terrore giacobino, base di legittimazione, in negativo, delle architetture liberal-costituzionali volte a limitare la «tirannia della maggioranza» o recensendo le assonanze fra gli attentati anarchici e le coeve le pratiche delle avanguardie artistiche, nella costante ricerca di uno choc che, paradossalmente, non può che precipitare nello «choc atteso».
NELL’ANALISI di Giglioli, è nelle promesse e premesse tradite della democrazia che il terrorismo si radica, consumando la propria parabola votata al fallimento. Non a caso i personaggi letterari passati in rassegna si collocano all’insegna non dell’eroismo e dell’esotismo del male estremo quanto nella contingenza dell’accidente che si fa destino o dello scarto infinitesimale che apre alle biforcazioni più drammatiche.
A fianco del terrorista a emergere, in controluce, è un’altra figura, quella della vittima, non a caso centro di gravità di una successiva opera di Giglioli, sempre più centrale nei processi di autorappresentazione degli attori sociali e che, in una declinazione basata sul risentimento e sul «desiderio di protezione, più che dagli altri, a danno degli altri» costituisce la tonalità emotiva dominante di quello che, in mancanza di meglio, si usa oggi definire «populismo».

Il Fatto 17.10.18
Allarme spoiler: vi sveliamo come finisce la serie sul Pd
di Marco Palombi

Sì, è vero, magari ormai è un prodotto di nicchia, però noi seguiamo ancora con passione la serie sul Pd. Ora la storia è al punto che devono fare il congresso per capire chi comanda e ci sono già un po’ di candidati: quello che vuole rifare il Pd con Bersani, quello che vuole rifarlo coi grillini, quello del renzismo senza Renzi, quello giovane e poi c’è pure quello che manca, cioè Minniti, che però, prima di decidere, vuole aspettare di sentire che dice quello che è già segretario ma nessuno se lo fila (e aspetta pure lui). Intanto il quasi candidato non renziano di Renzi, cioè sempre Minniti, ha scritto Sicurezza è libertà (che è tipo Il liberismo è di sinistra di Alesina e Giavazzi ma per questurini) e lo presenta il 6 novembre a Milano con un cardinale vero (Becciu), uno finto (Letta), uno mezzo e mezzo (Veltroni) e un calabrese, che poi è sempre Minniti. Pure le sottotrame, però, sono appassionanti: Calenda, per dire, aveva promesso che se – come propone Calenda – fanno il Fronte Repubblicano, allora Calenda gli fa il favore di candidarsi alle Europee (coi voti loro) e sennò si ritira dalla politica; ieri ha chiarito che però nel 2019 rinnoverà comunque la tessera del partito che propone di sciogliere. Ora pare – ce l’ha detto un amico che ha visto la prossima stagione – che a un certo punto Gentiloni caccia Renzi, sottomette Zingaretti e Minniti e fonda l’Alleanza Ribelle con Calenda, che però poi scopre di essere il fratello di Di Maio e passa al lato gialloverde della forza e inizia a parlare malissimo della Fornero e allora Gentiloni, sconvolto, si fa frate…

La Stampa 17.10.18
Le nonne aiutano i giovani a battere la depressione
di Federico Taddia 


Riprendere in mano la propria vita, mettendosi in panchina. E non perché si è considerati una riserva - tutt’altro - ma perché su quella panchina puoi trovare l’allenatore che non ti aspetti: una nonna. Ci sono rivoluzioni che nascono per caso, per una necessità che scatena la giusta intuizione. Rivoluzioni che mettono il seme in terre lontane, dimenticate, per poi germogliare e diffondersi in direzione inattese. Come quella della «Panchina dell’amicizia», innescata dal visionario dott. Dixon Chibanda, uno dei soli 12 psichiatri dello Zimbabwe, Stato africano da 16 milioni di abitanti. Nessuno sa nel suo Paese - vessato da guerre civili, povertà e Hiv - quante persone soffrano di «kufungisisa», parola che nella lingua shona significa «pensare troppo» e che viene utilizzata per definire la depressione. 
 La stessa depressione che nel mondo, ogni anno, colpisce qualcosa come 300 milioni di persone e causa 800 mila suicidi all’anno. Pensare troppo, già. Questo il male comune delle nazioni in via di sviluppo e di quelle che si sviluppo ne hanno fin troppo. Male a cui il dott. Chibanda ha voluto rispondere a colpi di panchine. In legno o in ferro, belle o brutte, colorate o improvvisate: poco importa. Quel che importa è far sedere su quelle panchine le persone che hanno bisogno di ritrovare un qualche filo della propria esistenza, persone in corto circuito e che nel buio del tunnel in cui sono finiti possano scorgere un barlume. Facendosi aiutare da un esperto, un esperto di vita: un anziano. Nel solo Zimbabwe sono state 400 le nonne coinvolte, una schiera di corpi stanchi ma energici che ha accettato l’invito a rimettersi in gioco per la comunità e per i giovani incapaci di «pensare meno». Nonne che sono state allenate - se mai ce ne fosse stato bisogno - all’ascolto, al dialogo, alla capacità di trovare insieme possibili soluzioni a problemi apparentemente insopportabili. Chi ha già vissuto una vita, può farti assaporare un gusto nuovo della tua esistenza. Farti vedere sfumature celate. Suggeriti trame inesplorate. 
E’ questa la «medicina» pazientemente somministrata dalle nonne, che lo scorso anno sono andate in soccorso di oltre 30 mila persone nel solo Stato africano. Per un progetto che ha travalicato i confini, arrivando prima nel Regno Unito e ora negli Stati Uniti: in migliaia in questi mesi si sono seduti sulle panchine arancione installate a New York City. E dove anche i nonni sono stati coinvolti. Non «umarells» che si accontentano noiosamente di guardare i lavori in corso nelle vite altrui quindi, ma uomini che entrano in punta di piedi in queste vite. Portando in dote quello che più di prezioso hanno: l’esperienza. Una sorta di abbraccio generazione, di ponte - solido e rassicurante - da sfruttare e amplificare come opportunità. Riscoprire quelle saggezze, saggezze da vecchio, che rughe e capelli bianchi sanno portare. Anche solo per un confronto. Una chiacchiera. Un attimo insieme su quella panchina. Per non pensare troppo, per pensare meglio.