Il Fatto 9.10.18
Il candidato Richetti esattamente a metà tra Matteo e Renzi
di Andrea Scanzi
Matteo
Richetti si è ufficialmente candidato al ruolo di segretario del Pd.
Nulla di clamoroso: prevederlo era facilissimo. Il Matteo dotato del Pd,
con quel suo tono furbamente autocelebrativo, ha detto: “Mi hanno
chiesto se fossi matto. La vera follia è starsene con le mani in mano
mentre questo Paese è governato da Salvini e Di Maio. E io dovrei stare
fermo ad aspettare le tattiche, le cene?”. Richetti, dunque, lo fa per
noi: per salvarci dai populisti, dai sovranisti e dalle Tenebre. Grazie
Matteo. Questa rubrica ha già parlato di Richetti, non per sadismo ma
perché il personaggio è uno dei pochi under 45 pidini dotati di talento.
Il 7 aprile scorso, il senatore di Sassuolo ha varato l’enigmatica
corrente “Harambee”, con l’intento di “smuovere il trauma del 4 marzo”.
Un “trauma” a cui Richetti ha contribuito in prima persona, essendosi
ridotto da fine 2016 – giusto a ridosso del referendum del 4 dicembre – a
zelante portavoce ventriloquo di Renzi. Vederlo zimbellato dal Matteo
(al tempo) più noto era avvilente: non tanto per noi, quanto per lui.
Dopo essere stato renziano della prima ora, Richetti aveva rotto con
Renzi per motivi più personali che politici. A quel punto, durante la
fugace ma spietata età dell’oro renziana, era stato relegato ai margini:
una sorta di via di mezzo tra renzismo e civatismo. A microfoni spenti,
prima e dopo le puntate dei talk show, Richetti riservava critiche
durissime a Renzi e renzismo. Roba che, in confronto, Di Battista è
Gozi. Poi però, in diretta, menava puntualmente il can per l’aia. Da
buon democristiano emiliano. Pareva attendere il perdono del Tondo di
Rignano, che è infatti arrivato dopo una puntata di Otto e mezzo nel
settembre 2016, durante la quale Richetti perorò la causa del “sì” al
referendum. Lo ricordo bene perché a quella puntata c’ero anch’io.
Richetti non disse nulla di clamoroso, ma il solo fatto di apparire più
convincente di Genny Migliore esaltò il Tragedia. Che, a quel punto, lo
richiamò a sé.
Di colpo Richetti cominciò mestamente a
scodinzolare, ripetendo i mantra renziani e subendo passivamente le sue
angherie quando quell’altro lo sfotteva sui chili di troppo e i capelli
che cadevano. Scene terribili: quello straziante periodo vissuto da
scendiletto renzico resterà una colpa imperdonabile. Richetti è però
uomo intelligente, oltre che ambizioso, gradevole e scaltro. E dunque si
è candidato. A Otto e mezzo, incalzato da Damilano, è arrivato a dire
che è impossibile che lui perda: di sicuro l’autostima non gli manca.
Durante la puntata di giovedì scorso, Richetti non ha voluto infierire
sul servizio fotografico della Boschi (che lui ben conosce). Ha detto
che il suo Pd vuol tenere insieme Corbyn e Macron, che è un po’ come
dire “Sono vegano, ma la chianina mi fa impazzire di brutto”. E si è
guardato bene dallo sciogliere il dilemma di fondo: la sua candidatura è
o non è renziana? Su questo Richetti sta nel vago, speranzoso di
calamitare quei renziani in fuga dal Bomba e al tempo stesso ostili a
Zingaretti. Richetti fa bene a porsi come obiettivo un Pd “diverso”, ma
tale discontinuità non può prescindere dal riconoscere come Renzi sia
stato l’Armageddon di sinistra e partito. Invece lui sta nel mezzo,
convinto che paraculismo e supercazzole gli garantiscano l’ambito
scranno. Sarà forse per questo che, dopo aver sentito con attenzione i
quaranta minuti di semi-monologo richettiano su La7, mi sentivo carico
come una blatta, reduce magari da un simposio su Hegel moderato da
Raimo. Non solo: di quei 40 minuti, a ben pensarci, non ci avevo capito
nulla. Forse anche meno.