venerdì 5 ottobre 2018

Il Fatto 5.10.18
Barbara Spinelli: “Il razzismo è ben più allarmante dei conti”


Barbara Spinelli è intervenuta nella sessione plenaria del Parlamento europeo in seguito alle dichiarazioni di Consiglio e Commissione europea su “Emergenza umanitaria nel Mediterraneo: sostenere le autorità locali e regionali”. “La Commissione si allarma – ha detto l’europarlamentare italiana – per il possibile deficit spending in Italia (ricordo che i poveri assoluti sono nel mio paese cinque milioni) ma approva una legge sulla sicurezza che decurta i permessi umanitari, toglie certezza legale ai richiedenti asilo, elimina fondi per le strutture municipali di accoglienza migranti. Dice Draghi che ci sono parole che creano danni alle imprese, ma le parole di Salvini sul sindaco di Riace, arrestato ieri per favoreggiamento dell’immigrazione e irregolarità minori, sono benevolmente ignorate. ‘Sei uno zero’, ha detto il ministro di chi, con fondi in diminuzione, ha salvato un intero villaggio dallo spopolamento integrando i profughi.
Non parlo solo dell’Italia: arresti e violenze contro chi facilita accoglienza e integrazione si moltiplicano. Cédric Herrou, Diego Dumont, il sindaco Mimmo Lucano: la lista si sta allungando, Commissario Oettinger, e vorrei sapere se questo allarma anche lei”.

Corriere 5.10.18
Psiche In «Diagnosi e destino» (Einaudi) Vittorio Lingiardi indaga sulle conseguenze della presa di coscienza del paziente
Noi, di fronte al male
Tormenti e difesa: così la mente reagisce alla scoperta della malattia
Gli effetti di una prognosi possono rivelarsi più dolorosi della patologia in sè
Parlando al malato ci sono parole che i medici non dovrebbero mai dire
di Eugenio Borgna


Questo bellissimo libro — Diagnosi e destino ( Einaudi) — di Vittorio Lingiardi, che, psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, ha come parola tematica la diagnosi. La malattia nasce in noi improvvisamente, o lentamente, desta timori e angoscia, ma, fino a quando non se ne sia precisata la diagnosi, non lascia morire in noi la speranza che la malattia sia curabile. La diagnosi, sola, ci confronta con la realtà della malattia; e della diagnosi, delle risonanze emozionali che ne conseguano nel medico e nel paziente, si occupa questo libro. Un libro che si legge con febbrile passione sia perché ciascuno di noi non può non riconoscersi in un tema, come questo, così vicino alla nostra vita sia perché l’autore ne parla sulla scia della sua grande cultura clinica e psicopatologica, psicoanalitica e letteraria, mai astratta e animata sempre da una scrittura palpitante di vita vissuta.
Sono tre i capitoli che compongono il libro: il primo (diagnosi e tormento) è tematizzato dagli aspetti umani e psicologici, nostalgici e dolorosi, che si accompagnano in un medico e in un paziente alla formulazione della diagnosi. Richiamandosi a una folgorante definizione di Karl Jaspers, che è stato grande psichiatra prima di diventare grande filosofo, Vittorio Lingiardi parla del tormento che si accompagna alla diagnosi. Sono diversi i modi di vivere e di rivivere il cammino emozionale che porta alla diagnosi, ma non si può essere medici senza essere animati dalla preoccupazione e talora dalla angoscia nel comunicare la diagnosi al malato, e ai suoi familiari. Come non dire, e non ribadire, l’enorme importanza che hanno le parole, queste creature viventi, nel non accrescere la sofferenza dei pazienti, e le pagine che, in questo primo capitolo in particolare, si dedicano a questo aspetto fondamentale della relazione fra medico e paziente, lo mettono in drastica evidenza. Ci sono parole che i medici non dovrebbero mai dire, e Lingiardi ricorda quello che diceva Umberto Veronesi: invitava a non dire mai la parola cancro se non si vuole accrescere il dolore di una persona che, fragile e indifesa, si consegna alla cura di un medico.
Queste cose, descritte nel corso del libro con una grande chiarezza, sono immerse in splendide citazioni letterarie (da John Donne e da Marcel Proust, da Virginia Woolf e da Susan Sontag, in particolare) che le rendono affascinanti, senza che nulla perdano del loro valore emozionale e didattico. Un capitolo, questo, che ci consente di conoscere meglio nelle loro interne articolazioni le malattie dell’anima e quelle del corpo, e di giungere a una migliore comprensione dei meccanismi psicologici che sono in gioco negli svolgimenti della malattia, e a una più consapevole accoglienza del dolore che ne nasce in noi, e negli altri da noi.
Il secondo capitolo, diagnosi e difese, si incentra sulla diagnosi considerata non nel momento cruciale della sua formulazione, ma nella sua evoluzione, e nelle sue risonanze psicologiche e psicodinamiche nel paziente. Sono pagine non meno interessanti, e non meno appassionanti, nelle quali si manifestano nella loro ampiezza e nella loro profondità le conoscenze psicodinamiche ed ermeneutiche di Vittorio Lingiardi che splendidamente descrive e analizza la gamma delle forme di difesa, alle quali è possibile ricorrere quando ci ammaliamo, educandoci a non stancarci mai dal seguire il cammino misterioso che, come diceva Novalis, porta al nostro interno: alla nostra interiorità. Conoscere quello che avviene, o può avvenire, in ciascuno di noi è la premessa alla cura, e alla decifrazione del destino, inteso in psicoanalisi, e Lingiardi si richiama in questo a Françoise Dolto, non come qualcosa di determinato, ma di indeterminato e di ignoto, che riguarda il transfert, l’immaginario e la storia del soggetto: la diagnosi può produrre non il destino, ma un destino, con cui dovremmo sapere dialogare.
Noi viviamo immersi in un fiume eracliteo di immagini e di emozioni che non ci consentono di guardare dentro di noi, e nemmeno di guardare dentro gli altri. Solo quando il fiume della vita si inaridisce, come avviene nella malattia, ci è possibile riconoscere elementi, risorse, ragioni di vita, che altrimenti ignoreremmo. Un libro, come questo, fra le altre cose, ci fa pensare, e ne ha un valore maieutico, alla diagnosi di malattie che hanno accompagnato la nostra vita, e alle quali potremmo attribuire orizzonti di senso diversi da quelli che abbiamo attribuito loro in passato. Ma, in ogni caso, è necessario conoscere le difese capaci di arginare le conseguenze di una diagnosi che sono, o almeno possono essere, ancora più dolorose e strazianti di malattie.
L’ultimo capitolo, diagnosi e psiche, ha a che fare con la diagnosi in psichiatria che è più fragile e conflittuale che non la diagnosi in medicina. Ci sono psichiatri che non fanno diagnosi, ed è cosa che Lingiardi giustamente contesta: la diagnosi è un momento di conoscenza e di incontro, ed è impossibile avere un colloquio con un paziente senza farsi una idea della sua personalità. La diagnosi è al servizio del paziente, e ci aiuta a scegliere con cognizione di causa quale terapia sia la più indicata; ma bisogna guardarsi da quella che egli chiama diagnostica selvaggia: una vera diagnosi è figlia di un tormento clinico: scegliere una soluzione che sappia ricondurre il paziente a una categoria più generale e contestualmente alla sua unicità. La ideologia, e in ogni caso le diverse concezioni teoriche, dilagano nella articolazione tematica e nella classificazione delle malattie psichiche, e delle diagnosi che portano al loro riconoscimento; e anche in questo campo, lacerato da conflitti teorici, la parola radicale ed equanime, attenta e profonda, di Vittorio Lingiardi consente al lettore, e a ciascuno di noi, di orientarsi in un groviglio di tesi e di controtesi. Di queste, e di altre cose, che riguardano la diagnosi in psichiatria, questo libro ci parla con la serenità necessaria, senza mai sconfinare in aree ideologiche, e consentendoci di conoscere gli elementi essenziali della cura che, in psichiatria in particolare, ha bisogno di cultura e di esperienza, di studio e di passione, ma anche di sensibilità e di intuizione, e non solo di conoscenze teoriche.
Non potrei ora non citare le parole conclusive del libro che ne colgono il senso radicale. «Il più delle volte la diagnosi, soprattutto quella medica, è una conoscenza obbligata, una sorpresa sgradita, un accidente e un fardello. Ci fa sentire bollati e menomati proprio nel momento in cui siamo più fragili ed esposti. Ma la fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo»; e infine: «Quando ne ha la possibilità, la diagnosi apre la porta alla conoscenza, alle risorse, alla cura di sé».
Sì, un libro che ci aiuta a conoscere quello che noi siamo, e quello che diveniamo quando la diagnosi di una malattia scende in noi. Un libro che consente di guardare alla psichiatria come a una disciplina che non si occupa solo di malattie psichiche ma anche degli aspetti psicologici ed esistenziali delle malattie somatiche.

Corriere 5.10.18
Alda Merini e la «follia benefica»
di Ida Bozzi

«Ci siamo nutriti ancor di più del nettare soave della follia, che partorisce arte. La nostra follia è benefica al genere umano». E ancora: «Pulizie etniche, campi di concentramento, fosse comuni! Stupri. Disperazione. Noi tutti dove eravamo?».
Sono parole di Alda Merini, brani inediti sugli argomenti più vari, che compaiono nel volume L’altra faccia della luce. Favole inquiete: dialogo tra Sabatino Scia e Alda Merini (con la prefazione di Mario Luzi, Europa edizioni, pp. 98, e 14), che si presenterà oggi a Milano. Nel libro, lo scrittore Scia ha raccolto le proprie favole e i «commenti» dell’amica Merini. Ne risulta un dialogo intrecciato tra i due autori, a partire dagli argomenti fiabeschi: le narrazioni di Scia, parabole popolate di animali che come gli umani intrecciano legami ma anche inganni e ferocia, diventano per la poetessa l’occasione per raccontarsi, ricordare le sofferenze, i «dottori», i «matti», le passioni, la fede. Ma anche per illustrare la sua visione del mondo e della natura umana.
Ne parleranno oggi lo stesso Scia e gli ospiti alla presentazione del volume, che sarà anche un momento di ricordo della poetessa: l’incontro si terrà alla milanese Casa delle arti - Spazio Alda Merini (alle ore 18, in via Magolfa 32), e con l’autore interverranno Arnoldo Mosca Mondadori, Andrea G. Pinketts e Francesco D’Episcopo.

Il Fatto 5.10.18
“Io rispetto la Costituzione più di altri”
Riace - Il sindaco Mimmo Lucano, ai domiciliari, ascoltato dai magistrati di Locri
“Io rispetto la Costituzione più di altri”
di Lucio Musolino


“Mi stanno accusando di un reato di umanità. È tutto assurdo. La Costituzione la rispetto più io che altri che si nascondono dietro le regole. La Costituzione nasce dalla resistenza, dal rispetto degli esseri umani. E questi esseri umani non hanno colore della pelle diverso, sono tutti uguali”. Dopo l’interrogatorio di garanzia, durato tre ore, il sindaco di Riace Mimmo Lucano ha gli occhi stanchi, provato dopo due giorni ai domiciliari. Ma ieri mattina ha risposto a tutte le domande dei magistrati che lo accusano di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento diretto del servizio di raccolta dei rifiuti.
Accompagnato dai suoi avvocati Antonio Mazzone e Andrea Daqua, in Tribunale a Locri Mimmo “’u Curdu” ha raccolto le forze e, punto su punto, ha replicato alle contestazioni della Procura che, dal giorno del suo arresto, non sta facendo altro che lamentarsi di quella parte dell’inchiesta, cassata dal gip, sulla gestione dei fondi per l’accoglienza.
Lucano non ha mai intascato un centesimo, dice il gip. Eppure il procuratore di Locri Luigi D’Alessio lo vuole arrestare di nuovo per truffa ai danni dello Stato. Lucano si difende e contrattacca. Non ci sta a passare per un trafficante di uomini, per un sindaco con mani e piedi dentro quel business dei migranti che per una vita ha combattuto, riuscendo a dimostrare che l’accoglienza è un’opportunità anche per i piccoli Comuni che rischiano di scomparire. Come è stato per due cooperative, iscritte nell’albo comunale, e non in quello regionale previsto dalla normativa (tra l’altro non operativo fino al 2016), e alle quali aveva affidato la raccolta rifiuti senza gara. Un po’ come hanno fatto altri Comuni, a partire da Reggio Calabria nel 2013 guidato dai commissari prefettizi.
Nel capoluogo di provincia non è reato, ma a Riace si per la Procura di Locri. “Ma come? – dice Lucano – In una zona assediata dalle ecomafie, inquinamento dei mari, c’è una mafia che controlla il ciclo dei rifiuti, io ho cercato di fare luce e devo pagare per questo? È assurdo. Nelle cooperative lavoravano le persone più svantaggiate di Riace insieme ai rifugiati”.
Tra le accuse anche i matrimoni fittizi tra residenti e ragazze immigrate che, così, avrebbero ottenuto il permesso di soggiorno. “Perché parlano di matrimoni combinati? – si sfoga Lucano –. È stato solo un episodio ma non era combinato. Abbiamo fatto le pubblicazioni, con tutte le procedure regolari. È una cosa assurda. Anche gli inquirenti durante l’interrogatorio hanno parlato di reato di umanità. Però, dicono, ci sono le regole”.
“Ma sono state regole quelle dell’ex ministro Minniti che ha fatto accordi con i lager libici dove morivano delle persone?”. Lucano è un fiume in piena: “Anche i campi di concentramento, quando c’era Hitler, rispettavano le regole. A queste persone vorrei chiedere se è giusto quello che è successo a Becky Moses”. È la ragazza morta carbonizzata a gennaio nella baraccopoli di Rosarno dove si era nascosta perché costretta a lasciare Riace dopo il rifiuto dell’asilo politico: “Chi ha pagato per quello che le è successo? Ciò che ho fatto – afferma ancora – è evitare che ci fossero tante Becky. Salvare anche una sola persona dalla strada vale dire fare il sindaco, dà significato a un’intera vita. Io non ho mai avuto un tornaconto economico. Anche per quanto riguarda la fiction con Fiorello io non ho chiesto alcun compenso”.

Repubblica 5.8.18
Durante lo sgombero degli Spada a Ostia
Io, insultata dalle donne del clan per impedirmi di fare la cronista
di Federica Angeli


ROMA Bastarda, pappona, infame, te ne devi andare da qui, fai schifo». Le operazioni di sgombero dell’appartamento al primo piano al numero 20 di via Ingrao, Nuova Ostia, di Vincenzo Spada e Tamara Suleyman, figlia di Franchino detto l’iracheno (vecchia "gloria" della Banda della Magliana) erano ormai agli sgoccioli. Il figlio di quell’Enrico Spada, il più anziano del clan morto due anni fa, e nipote del boss Carmine al 41bis, era ancora su a chiudere scatoloni in quella casa che abusivamente occupava da cinque anni.
Le donne del clan invece erano giù: la moglie di Ottavio Spada, Desirée Salera e la sorella Alessandra, le zie di etnia rom in abiti lunghi, circondate da cento tra agenti della polizia locale, della polizia di Stato, carabinieri.
Poco prima delle 8 era cominciato lo sgombero, il primo di una serie annunciata di interventi contro le occupazioni abusive di case popolari da parte del clan più potente di Ostia, decimato a gennaio da 32 arresti per mafia.
La strada era chiusa da nastri gialli, oltre la barriera noi cronisti con taccuini, telefonini e telecamere. Tra loro c’ero anche io. «Dottoressa, mi raccomando, stia sempre accanto a noi», la raccomandazione della scorta non manca mai quando per lavoro ci ritroviamo in situazioni potenzialmente a rischio. Quel pezzo di Ostia per me lo è.
Attorno alle dieci tiro fuori il telefonino e, come tutti, comincio a scattare foto verso il braccio meccanico che inizia a raccogliere dal primo piano mobili e scatoloni della famiglia di Vincenzo Spada per portarli via. Ed è stato in quel momento che mi è piovuta addosso la rabbia di quattro donne del clan. Sono corse verso di me gridando insulti, minacce che non comprendo bene («Fa’ che ti becco da sola senza scorta», leggo soltanto poi sul verbale dei vigili urbani consegnato alla procura) e un invito ad andare via.
Gridano in una gara a chi sputa l’ingiuria peggiore: «È tutta colpa tua, stronza», sento.
Un muro di uomini in divisa si para tra me e loro, il dirigente del commissariato Eugenio Ferraro e il comandante della polizia municipale Antonio Di Maggio sono in un attimo a pochi centrimetri uno da me e l’altro da loro, e impediscono alle donne di fare anche solo un altro passo nella mia direzione. E mentre continuo a filmare la scena mi accorgo che i carabinieri della mia scorta mi prendono quasi in braccio e mi fanno salire sulla nostra auto blindata. Solo a quel punto realizzo davvero cosa è accaduto ed esco dai panni della cronista. Fino a un secondo prima stavo solo pensando a fare il mio lavoro: la cronaca di uno sgombero e della prepotenza di un clan cui rimangono solo le cartucce dell’ingiuria e della minaccia. Volevo finire il mio servizio, stare lì fino alla fine, come tutti gli altri. Non ho potuto farlo. Sono dovuta andare via.
Le due sorelle Solera sono state denunciate per minacce dai vigili urbani e Vincenzo Spada e famiglia ora devono trovarsi un altro alloggio. Questa è la cronaca.
Con o senza di me lì, sul posto.

Repubblica 5.10.18
Il reddito di cittadinanza
Una certa idea di povertà
di Chiara Saraceno


Che siano 8 o 10 i miliardi che alla fine saranno destinati al reddito di cittadinanza, si tratta sempre di una cifra di gran lunga superiore a quanto nessun governo italiano abbia mai impegnato per il contrasto alla povertà. Si avvicina molto a quanto è stato stimato necessario per portare tutti coloro che si trovano in povertà assoluta (i cinque milioni di persone di cui si parla, che includono anche oltre un milione di stranieri regolari) al livello della soglia che la identifica. Anche se è molto meno di quanto sarebbe necessario per coprire tutti coloro che si trovano in povertà relativa, sarebbe una buona notizia.
Chi si scandalizza per l’entità dell’impegno di spesa dovrebbe piuttosto farlo per quella, quasi analoga, impegnata per garantire l’abbassamento dell’età della pensione ad un numero molto più ridotto di persone — 400 mila si stima — che non solo non si trovano in stato di bisogno, ma rappresentano un gruppo relativamente privilegiato, spesso con speranze di vita più lunghe sia di chi è povero, sia di chi, lavoratore o lavoratrice, non potendosi permettere di prendere una pensione esigua o non avendo ancora maturato l’anzianità contributiva richiesta, dovrà invece continuare a lavorare anche in condizioni pesanti. O per il condono fiscale, contrabbandato per pace fiscale a spese dei contribuenti onesti.
Lo scandalo, a mio, parere, sta nel modo in cui Di Maio, Castelli e compagni stanno ridefinendo il cosiddetto reddito di cittadinanza. Dopo avergli dato un nome che, intenzionalmente o meno, consentiva fraintendimenti — un reddito dato a tutti, in modo incondizionato — ora si ripromettono di trasformarlo in uno strumento non solo, come era già dall’inizio, selettivo, cioè destinato ai poveri, anche se con qualche confusione e incertezza su come identificarli, ma fortemente paternalistico.
Non verrà concesso in moneta liquida, ma su una carta di debito. Potrà essere speso solo su suolo italiano (non sia mai che un povero comasco attraversi la frontiera svizzera per comprarsi del caffè), in esercizi italiani (verranno esclusi Carrefour, Auchan e simili?) e possibilmente per prodotti italiani. Non potrà assolutamente essere speso per consumi voluttuari, immagino definiti da apposita commissione etica, e nemmeno risparmiato. Ciò che non si spende della somma mensile assegnata verrà perso, come i minuti e i giga dei contratti dei cellulari.
Dietro questo approccio c’è l’antica idea che i poveri siano inaffidabili, moralmente deboli. Lasciati a se stessi, invece di comprare latte e scarpe per i bambini e pagare l’affitto, si darebbero al bere e al gioco d’azzardo o alle spese pazze. Vanno messi sotto tutela. Riceveranno reddito in cambio di cessione di cittadinanza. Aggiungo che la scelta della carta invece del denaro liquido, già sperimentata con il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva) e non del tutto superata neppure con il Rei (Reddito di inclusione), pone anche altri problemi. Lascia tutto il potere di spesa al titolare della carta, a detrimento degli altri componenti adulti della famiglia. Espone all’umiliazione di vedersi rifiutati alcuni prodotti alla cassa del supermercato. Molti piccoli negozi, specie nei paesi, non hanno il bancomat.
Lo stesso vale per molte persone, specie tra i più poveri. Anche impedire di risparmiare in vista di spese future — ad esempio scarpe per i figli, una nuova cucina a gas, la riparazione del motorino con cui si va a lavorare, un regalo — contrasta con l’obiettivo di aiutare le persone e le famiglie a gestire il proprio bilancio, a programmare, quindi anche a risparmiare. Così si trasformano i poveri non in cittadini, ma in consumatori forzati sotto tutela.

Corriere 5.10.18
Trump conquista i sindacati Usa
di Massimo Gaggi


Il nuovo patto commerciale Usa-Messico-Canada piace agli imprenditori americani e ai mercati, ma piace anche ai sindacati: quelli americani danno atto alla Casa Bianca di aver negoziato un accordo migliorativo per i lavoratori rispetto a quello del 1994. La federazione Afl-Cio — storico motore delle campagne elettorali del partito democratico — e i suoi Teamsters dello spregiudicato Jim Hoffa, non sono arrivati fino al punto di aderire in modo formale all’Usmca. Ma danno atto ai negoziatori di aver chiesto e ottenuto molto per i lavoratori. Trump naviga sicuramente in acque difficili a un mese dal voto di mid term per l’impopolarità di molte politiche, passi falsi, qualche scandalo. E la battaglia per Kavanaugh non aiuta, anche se compatta il suo elettorato. Ma sull’economia beneficia di una congiuntura positiva, disoccupazione ai minimi, mercati azionari da record. E la stretta sui rapporti commerciali con l’uso brutale della forza del mercato Usa, il più grande del mondo, se fa crollare la popolarità dell’America davanti alle nazioni più deboli, comincia a piacere alle imprese, fin qui preoccupate dal protezionismo di Trump. Consensi che ora si estendono anche al mondo del lavoro. Sorpresa perché l’arcigno negoziatore di Trump, Robert Lighthizer, ha imposto norme di tutela con un vigore che i governi precedenti, Obama compreso, non avevano avuto: salari minimi più alti, tutela del diritto di sciopero e del diritto dei sindacati di entrare in fabbrica (spesso negato in Messico e non solo), perfino norme per proteggere i lavoratori immigrati e le donne. La differenza dal Nafta è anche questa: nel ‘94 il patto liberista fece crescere l’attività economica, ma, privo di sanzioni per la violazione dei diritti dei dipendenti, finì per produrre una concorrenza al ribasso sul costo del lavoro: sviluppo a caro prezzo per la classe operaia. Negoziando con gli altri partner nordamericani, Lighthizer non aveva certo l’obiettivo prioritario di proteggere immigrati e sindacati Usa: ma è questo l’effetto delle norme che ha imposto per frenare la concorrenza sleale del Messico fatta di bassi salari, boicottaggio delle unions e anche di sfruttamento di donne e lavoratori provenienti da altri Paesi del Centro America. Il nuovo patto, che riporterà alcune produzioni industriali negli Usa, peserà sulle elezioni di novembre: molti americani votano pensando soprattutto all’economia.

Il Fatto 5.10.18
Scrittori e giornalisti, il premio è l’ergastolo
La sentenza - Condanne a vita confermate per il tentato golpe ad Ahmet Altan e il fratello
di Roberta Zunini


La data del 2 ottobre 2018 verrà tristemente ricordata dai turchi e da tutti coloro che ritengono ancora la libertà di stampa una delle colonne portanti della democrazia. Da quel giorno ben 6 giornalisti, tra cui Ahmet Altan, suo fratello Mehmet, economista ed editorialista e la veterana Nazlı Ilıcak, 75 anni, dovranno scontare il resto della loro vita in carcere in seguito alla decisione della Corte d’appello del Tribunale penale di Istanbul.
La sentenza è giunta al termine del processo che li vedeva accusati di “attentato all’ordine costituzionale”. Anche il giornalista Sükrü Tugrul Özsemgül, Fevzi Yazıcı, esperto designer, e Yakup Simsek, art director, tutti collaboratori del quotidiano Zaman (chiuso per ordine della magistratura) dovranno scontare fino alla morte la “colpa” di aver fatto il proprio mestiere e di non essersi lasciati intimidire dal pugno di ferro del presidente Erdogan contro i media indipendenti. Ahmet Altan, uno dei più noti scrittori e intellettuali a livello internazionale, così come il fratello Mehmet Altan erano stati arrestati il 10 settembre 2016, Iliack e gli altri tre condannati erano finiti in carcere nella prima retata del regime subito dopo lo sventato golpe del luglio 2016.
Secondo i magistrati titolari dell’inchiesta soprannominata “la gamba mediatica di FETO”, ovvero i media legati all’organizzazione del religioso islamico e magnate Fhetullah Gulen (mentore di Erdogan nei primi anni della sua scalata al potere) in esilio da anni negli Stati Uniti, i giornalisti condannati avrebbero inviato agli spettatori messaggi subliminali durante una trasmissione televisiva la vigilia del fallito golpe “per prepararli e per minacciare il presidente Erdogan”.
Gli avvocati dei condannati ora si rivolgeranno alla Corte Suprema d’appello.
Ahmet Altan dalla prigione ha scritto alcuni saggi tra cui l’ultimo pubblicato anche in Italia intitolato Non vedrò mai più il mondo. Fin dal loro arresto molti intellettuali tra cui Noam Chomsky, Oran Pamuk, Arhundati Roy, Julian Barnes, hanno scritto un appello alle autorità turche affinché venissero liberati. La risposta è stata la peggiore possibile.
C’è un altro giornalista che rischia l’ergastolo qualora venisse estradato in Turchia dalla Germania dove si è trasferito due anni e mezzo fa. È Can Dundar, l’ex direttore di Chumuriyet già condannato a cinque anni di carcere per aver provato il trasferimento di armi turche ai ribelli siriani. Dundar, che ha già scontato sei mesi di carcerazione preventiva, mentre era in attesa del verdetto all’esterno del tribunale era stato assalito da un uomo armato che gli aveva sparato dopo averlo accusato di essere un “traditore”. Sempre il 2 ottobre, l’assalitore, Murat Sahin, è stato condannato a 10 mesi di prigione “per detenzione di arma senza licenza” ma è stato assolto per la sparatoria. Dundar ha definito la sentenza “un incoraggiamento agli attacchi contro i giornalisti”.

La Stampa 5.10.18
Il capo di Hamas apre a una tregua
“Non voglio più guerre con Israele”
di Davide Lerner


Il leader di Hamas nella striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ha rilasciato un’intervista senza precedenti ad un quotidiano israeliano dicendosi favorevole ad un cessate il fuoco di lunga durata con Israele. Sul fronte, però, il livello di allerta dell’esercito israeliano continua ad aumentare. «Non voglio più guerre con Israele», ha detto Sinwar. «Non è nel nostro interesse confrontarci con una potenza nucleare, non potremmo vincere, e una nuova guerra non è nemmeno nell’interesse di Netanyahu. La prossima sarebbe la quarta operazione su Gaza e non possono permettersi di concluderla come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima. Dovrebbero rioccupare Gaza (per impedire il lancio di missili verso Israele, ndr.). E non penso che Netanyahu, che sta tentando in tutti i modi di liberarsi dei palestinesi della Cisgiordania per preservare una maggioranza ebraica, desideri annettere un territorio con altri due milioni di arabi». Di regola, i politici palestinesi non concedono interviste ai media israeliani, temendo che la «normalizzazione» dei rapporti rischi di rafforzare lo status quo. Il quotidiano Yedioth Ahronoth, il giornale a pagamento più diffuso del Paese, è stato infatti bersaglio di un comunicato polemico di Hamas dopo la pubblicazione. «La giornalista ha detto di essere di “Repubblica” e del “Guardian”, non avremmo rilasciato a israeliani», ha accusato il movimento islamista, che però non ha smentito i contenuti dell’intervista, se non lamentando che «alcune affermazioni sono state distorte». Il tono del leader di Hamas, Yahya Sinwar, stupisce per l’inusitata moderazione, per uno che ha militato per una vita nelle frange armate di un’organizzazione votata alla distruzione d’Israele: «Ci troviamo di fronte a un’opportunità storica per cambiare le cose», dice, «ma il cessate il fuoco deve voler dire non solo nessun attacco da una parte e dall’altra, ma anche la fine dello stato d’assedio su Gaza, perché l’assedio è una guerra combattuta con altri mezzi», ha detto Sinwar a Yedioth Ahronoth. Israele mantiene un controllo fermissimo delle frontiere di Gaza, sia di terra che marittime, limitando radicalmente la possibilità di transito di merci e di persone.
Israele accusa Hamas di ignorare le disastrose condizioni umanitarie della Striscia, per investire invece in tunnel sotterranei progettati per aggredire Israele: proprio attraverso uno di questi tunnel, Hamas rapì nel 2006 il soldato israeliano Gilad Shalit, che fu poi liberato in cambio di oltre mille prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Sinwar, che è stato oltre vent’anni in carcere, in quanto mandante di un’operazione terroristica. Ma per Sinwar i tunnel sono fondamentali, soprattutto perché garantiscono l’approvvigionamento di beni di prima necessità: «Per fortuna ci sono i tunnel: a volte gli israeliani non fanno passare per i valichi neppure il latte, non saremmo sopravvissuti altrimenti», dice. Se un cessate il fuoco tenesse, sostiene Sinwar, forse Gaza potrebbe diventare come Singapore e Dubai. «Se solo per un momento ci fermassimo e pensassimo a Gaza come era una volta – lei hai mai visto delle foto degli Anni Cinquanta? Quando d’estate tutti venivano in vacanza a Gaza?», dice Sinwar, riflettendo sullo scenario (improbabile) che un cessate il fuoco possa durare a oltranza. «Ogni sera i nostri ragazzi guardano il mare e si chiedono come sia il mondo al di là delle onde, mi spezza il cuore», racconta. Nel colloquio, Sinwar dice anche che il ritiro israeliano da Gaza nel 2005 fu solo un passaggio dall’occupazione dall’interno all’occupazione dai confini, che Oslo è stata una menzogna per compromettere le chances di creare uno stato di Palestina, che gli aquiloni infuocati che da Gaza vengono lanciati verso Israele non sono un’arma ma un messaggio: «Siete più forti ma non vincerete mai».

Repubblica 5.10.18
Ma il negoziato su Gaza è bloccato e Israele rafforza l’esercito al confine
di Vincenzo Nigro


L’Egitto tenta una difficile mediazione. E resta da risolvere il nodo del rientro dell’Anp nella Striscia
Nelle ultime settimane di questa che verrà ricordata come “ l’estate degli aquiloni”, una tregua, una “ hudna” fra Israele e Hamas a Gaza era sembrata finalmente a portata di mano. Non è così, e forse non sarà così per molto tempo ancora. Ieri il portavoce dell’esercito israeliano ha detto che il capo di stato maggiore Gadi Eizenkot ha preso una decisione non più rinviabile: l’esercito schiererà altre truppe ai confini di Gaza. Per fermare gli aquiloni che incendiano i campi, per fermare le incursioni, i razzi, i nuovi possibili attentati. « Bisogna sventare operazioni terroristiche e impedire infiltrazioni in Israele dall’area della barriera di sicurezza, l’organizzazione terroristica di Hamas ha la responsabilità per tutto ciò che accade nella Striscia », dice l’esercito di Israele.
Da maggio Hamas ha messo il suo cappello politico sulla “ Grande Marcia del Ritorno”: migliaia di cittadini di Gaza si sono affollati ogni venerdì alla barriera con Israele per protestare, incendiare copertoni, lanciare aquiloni esplosivi ma anche razzi e bombe verso Israele. Insomma per mantenere alta la pressione su Israele che tiene sotto assedio la Striscia.
Per tutta l’estate questo negoziato segreto ma raccontato di continuo sui giornali è andato avanti fra Israele e Hamas con la mediazione dei servizi di sicurezza egiziani e del Qatar. Lo scopo di Hamas è quello di riuscire ad avere da Israele l’ossigeno necessario per governare la Striscia, far uscire la sua popolazione dalle condizioni di emergenza umanitaria in cui Gaza vive ormai da mesi. Israele ha interesse a una tregua per indurre Hamas a sospendere lo stillicidio di manifestazioni, il lancio di razzi e aquiloni incendiari che rendono furiosa la popolazione israeliana nel Sud, furiosa innanzitutto con il governo di Gerusalemme.
Israele non ha nessun interesse a riconoscere alcunché ad Hamas, che continua a classificare semplicemente come “movimento terroristico”. Non vuole cedere o concedere nulla a un movimento che utilizzando la lotta armata oltre che l’azione politica potrebbe sbandierare un allentamento della pressione su Gaza come una vittoria. Ma un negoziato mediato dall’Egitto che portasse appunto a una “hudna”, una tregua lunga il più possibile, è un male minore rispetto a una situazione di continua tensione ai confini.
Ieri dopo le anticipazioni dell’intervista di Yahya Sinwar in cui il capo di Hamas conferma l’interesse a una tregua, il premier Bibi Netanyahu ha rivolto la sua attenzione a Mahmoud Abbas. Oltre all’assedio militare di Israele, Hamas nella Striscia è colpita dalle sanzioni politiche ed economiche dell’Autorità Palestinese. Dopo aver espulso Fatah con la violenza dalla Striscia, Hamas adesso tratta con Abu Mazen. Ma l’Anp non riesce ancora a rientrare a Gaza, e per questo non vuole che Hamas abbia successo nel negoziato con Israele. Riconoscendo la supremazia politica dell’Autorità Palestinese anche nella Striscia, Hamas riuscirebbe a ottenere forniture di acqua, elettricità, di medicine e di altri beni di prima necessità che oggi Israele, l’Egitto e la Anp fanno arrivare con il contagocce.
Un blocco economico che ha reso le condizioni di vita nella Striscia insopportabili. Ma evidentemente Hamas non ha ancora intenzione di negoziare fino in fondo una condivisione del potere politico con l’Anp. Non ha intenzione di riconoscere nulla, neppure il diritto all’esistenza del nemico Israele. E l’assedio continua.

Repubblica 5.10.18
Sinwar (Hamas)
“Basta guerre, è ora di cambiare”
Intervista di Francesca Borri,


GAZA Mentre gli scontri al confine di Gaza si intensificano, il leader di Hamas, Yahya Sinwar, in una rara intervista con la stampa internazionale lancia un messaggio a Israele. «C’è una reale opportunità per il cambiamento.
La guerra non è nel nostro interesse. Ma nella situazione attuale un’esplosione è inevitabile».
Non incontra spesso la stampa, ma è a capo di Hamas da più di un anno. Perché parla ora?
«Perché è adesso che c’è un’opportunità di cambiamento.
L’opportunità di avere infine sicurezza e stabilità».
Un’opportunità? Adesso?
«Adesso. Sì».
La cosa più probabile, a Gaza, sembra una nuova guerra. In quest’ultima ondata di proteste si sono avuti quasi 200 morti.
«Mentre dall’altra parte un morto solo. Intanto direi che ‘guerra’ è termine fuorviante: non è che a Gaza a un certo punto c’è una guerra e gli altri giorni c’è la pace.
Siamo sempre sotto occupazione: l’aggressione è quotidiana. Varia di intensità. Tutto qui. E comunque la verità è che una nuova guerra non è nell’interesse di nessuno. Di certo, non è nel nostro: chi ha voglia di fronteggiare una potenza nucleare con due fionde? E però, se è vero che non possiamo vincere, per Netanyahu vincere sarebbe anche peggio che perdere. Perché questa sarebbe la quarta guerra. Non può concludersi come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima.
Dovrebbero riconquistare Gaza. E non penso che Netanyahu, che sta già tentando di tutto per sbarazzarsi dei palestinesi della West Bank, e mantenere una maggioranza ebraica, desideri altri due milioni di arabi. No. Con la guerra non si ottiene niente».
Suona un po’ strano, detto da uno che viene dall’ala militare di Hamas.
«Non sono a capo di una milizia.
Vengo da Hamas e basta. Sono a capo di una cosa decisamente più complessa: un movimento di liberazione nazionale. E il mio primo obbligo è agire nell’interesse del mio popolo: difenderlo, e difendere il suo diritto a libertà e indipendenza. Lei è una corrispondente di guerra. Ha voglia di guerra?»
No.
«E allora perché dovrei averne io?
Chi conosce la guerra, non ha voglia di guerra».
Ma lei ha combattuto tutta la vita.
«Infatti non sto dicendo che non combatterò più. Sto dicendo che non voglio più guerre. Voglio la fine dell’assedio».
I confini di Gaza sono più o meno chiusi da 11 anni. Non c’è più neppure l’acqua. Com’è vivere qui?
«E come crede che sia? Il 55 per cento della popolazione ha meno di 15 anni. Non stiamo parlando di terroristi: stiamo parlando di bambini. Non hanno nessuna tessera di partito. Hanno paura.
Paura e basta. Voglio che siano liberi».
L’80 per cento della popolazione vive di aiuti umanitari, ma Hamas in questi anni ha trovato le risorse per costruire i suoi tunnel.
«E per fortuna. Altrimenti saremmo morti tutti. È iniziato l’assedio, è iniziata la crisi e per sopravvivere a noi non è rimasto che costruire i tunnel. In certi momenti qui non entrava neanche il latte».
Non pensa di avere delle responsabilità?
«La responsabilità è di chi ha chiuso i confini, non di chi ha provato a riaprirli. La mia responsabilità è cooperare con chiunque possa aiutarci e mi riferisco soprattutto alla comunità internazionale».
E invece che armi, allora, non potevate comprare il latte?
«Se siamo ancora vivi, evidentemente l’abbiamo comprato. Il latte e molto altro.
Cibo, medicine. Siamo 2 milioni. I tunnel sono soltanto in minima parte per la resistenza e perché altrimenti non muori di fame, è vero, ma muori bombardato. E per la resistenza Hamas usa fondi propri. Non pubblici».
Quindi Hamas ora è dell’idea di un cessate il fuoco con Israele.
Che cosa intende per cessate il fuoco?
«Un cessate il fuoco. Calma assoluta».
Calma in cambio di calma?
«No. Calma in cambio di calma e della fine dell’assedio. L’assedio non è calma».
Calma per quanto tempo?
«Quello che conta realmente è che cosa succede intanto sul terreno.
Perché se il cessate il fuoco significa che non veniamo bombardati, sì, ma continuiamo a non avere acqua, elettricità, niente, continuiamo a vivere sotto assedio, non ha senso. Perché l’assedio è una forma di guerra. E tra l’altro è un crimine per il diritto internazionale. Non c’è cessate il fuoco sotto assedio. Ma se Gaza torna normale, invece, se arrivano non soltanto aiuti umanitari, ma investimenti, imprese, sviluppo, se iniziamo a percepire una differenza, allora possiamo andare avanti. E quello che so è che Hamas si impegnerà al suo meglio».
Hamas, durante il cessate il fuoco, terrebbe le sue armi? O accettereste una protezione internazionale, i caschi blu?
«Tipo Srebrenica?»
Deduco che sia un no.
«Deduce bene».
Molti pensano a Hamas e non pensano alle mense. Pensano alla seconda Intifada. Agli attentati suicidi. Per gli israeliani lei è un terrorista.
«Che è quello che loro sono per me».
Sembra un ottimo inizio, per il cessate il fuoco...
«E che dovrei dirle? Abbiamo colpito civili? Hanno colpito civili.
Hanno sofferto? Abbiamo sofferto.
Mi racconti di un qualsiasi loro morto e io le racconterò di un nostro morto. Di dieci nostri morti».
Che cosa pensa del piano di pace di Trump? Anche se non è molto chiaro di che cosa si tratti.
«Si tratta dell’eliminazione di ogni nostra prospettiva di libertà e di indipendenza. Non c’è sovranità, non c’è Gerusalemme. Non c’è il diritto al ritorno... Mi è più semplice dire quello che c’è: il nostro no. E non soltanto di Hamas. Su questo, siamo tutti uniti. No».
Dovesse riassumermi tutto questo in una frase, in una sola frase, qual è il messaggio che vorrebbe restasse più impresso ai lettori?
«È tempo di cambiare. Tempo di finirla con questo assedio. E cambiare».

Di che cosa stiamo parlando
Ieri l’esercito israeliano ha rafforzato lo schieramento attorno a Gaza. Oggi è in programma un’altra “Marcia del ritorno”, protesta appoggiata da Hamas, lungo la frontiera.
L’esercito ha detto di essere pronto “a vari scenari” e a livello diplomatico si moltiplicano gli sforzi per arrivare a un cessate il fuoco. L’intervista a Sinwar, pubblicata anche dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, apre a questa possibilità.

Repubblica 5.10.18
La proposta di tregua a Israele
La mossa del falco di Hamas
di Gigi Riva


Un cessate il fuoco, hudna in arabo, non è la pace, tantomeno il riconoscimento dello Stato ebraico. E non è la prima volta che Hamas lo propone ad Israele. La novità è che stavolta la richiesta, formulata in un’intervista a Repubblica e al quotidiano di Tel Aviv Yedioth Ahronoth, è di un falco, un duro fra i duri come Yahya Sinwar, 56 anni, ora capo politico del movimento islamista ma in passato uno dei leader militari delle brigate Izz ad- Din al- Qassam, il braccio violento, intransigente, da sempre refrattario a qualunque trattativa con " l’entità sionista". Nessuna reazione ufficiale del governo di Benjamin Netanyahu il cui esercito tuttavia, nelle stesse ore, ha deciso di rafforzare " su larga scala" la propria presenza attorno a Gaza per " contrastare il terrorismo e prevenire infiltrazioni lungo il confine con la Striscia".
Segnali divergenti, tutti da decrittare. Yahya Sinwar si è risolto al passo proprio mentre si rafforzano i venti di una nuova possibile guerra, sarebbe la quarta a Gaza, che una popolazione stremata dall’assedio non potrebbe sopportare. La mossa presenta dunque elementi tattici frutto della disperazione e in contrasto con una biografia che ha posto il suo autore tra i massimi fautori della resistenza terroristica. Nato nel campo profughi di Khan Yunis ( dove il fratello Mohammed continua ad essere il comandante delle brigate), Sinwar fu arrestato una prima volta per " attività sovversiva" quando non aveva ancora vent’anni. Fondatore dell’organizzazione incaricata di individuare le spie israeliane all’interno del movimento palestinese, nel 1989 fu condannato a quattro ergastoli per l’uccisione di due militari. Nel 2011 fu rilasciato nello scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione del soldato Gilad Shalit.
La sua elezione, nel febbraio del 2017, al vertice di Hamas al posto di Ismail Haniyeh è stata interpretata come una svolta estremista. È talvolta vero che la carica cambia le persone e non bisogna dimenticare che una così prolungata esperienza in prigione, un rapporto così stretto e quotidiano col nemico, possono ridurre i più intransigenti a dialoganti: gli israeliani hanno appreso molto, in questo senso, dai britannici che ai tempi dell’impero erano soliti trasformare i prigionieri in interlocutori. Certo Sinwar deve aver avvertito il peso ineludibile della responsabilità nei confronti dei due milioni di abitanti della Striscia. I quali, a 12 anni dalla vittoria nelle urne di Hamas, hanno visto via via peggiorare le loro condizioni di vita, dentro un fazzoletto di terra ermeticamente chiuso, isolati dal mondo, con scarso accesso all’acqua, all’elettricità, al gas. E hanno dovuto scontare, in certi periodi, la carenza di cibo.
Sotto la direzione dell’ex ergastolano, anche i venerdì di lotta della " marcia del ritorno" a 70 anni dalla nakba, la " catastrofe", l’esodo del 1948 dopo la sconfitta militare e la nascita dello Stato d’Israele, si sono trasformati in una carneficina la cui contabilità ammonta ad oggi a 193 morti e 21mila feriti. Dunque c’era bisogno di una svolta, per riconquistare un consenso assottigliato dai rovesci, dopo avere a più riprese sperimentato che la strategia della contrapposizione frontale è totalmente sterile se davanti si ha uno degli eserciti più forti, attrezzati e tecnologicamente avanzati del mondo.
Sinwar chiede allora una hudna, una tregua « ma non sto dicendo che non combatterò più, sto dicendo che non voglio più guerre » . Una guerra aggiunge « non è nell’interesse di nessuno » . Si impegna a rispettare un eventuale cessate il fuoco totale, niente missili rudimentali qassam, niente aquiloni incendiari. In cambio, la tranquillità di poter progettare una rinascita economica che permetta di uscire dall’attuale miseria. Servirebbe per rivaleggiare con l’avversario interno, il movimento secolare Fatah del presidente Abu Mazen, peraltro bollato di recente come " illegale", che nell’altro corno palestinese, la Cisgiordania da lui controllata, sta raccogliendo i frutti di un relativo benessere. Una rottura netta tra le due anime dei palestinesi determinata anche dalle voci per le quali il presidente starebbe per bloccare il trasferimento dei fondi annuali dell’Anp a Gaza, 96 milioni di dollari.
Uscito per anni dal cono di luce dell’informazione perché più stringente era la minaccia dello Stato islamico, l’eterno conflitto israelo- palestinese torna sotto i riflettori e ripropone i suoi irrisolti problemi. Le divisioni nel campo arabo favoriscono senza dubbio il governo di Gerusalemme e la politica dello status quo. Sta ora a Benjamin Netanyahu andare a vedere, come in una partita di poker, se l’offerta di Yahya Sinwar è un bluff per riprendere fiato e riorganizzare i suoi miliziani in vista di una nuova sfida. Per ora la sua risposta è un eloquente silenzio.

il manifesto 5.10.18
La Nobel e Wikipedia, la scienza femminile è invisibile
Donna Strickland, professore associato alla University of Waterloo (Ontario, Canada) e vincitrice del Nobel 2018 per la fisica festeggia con studenti e colleghi il 2 ottobre scorso
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA La settimana dei premi scientifici più famosi del mondo si è chiusa ieri con l’assegnazione dei premi Nobel per la chimica.
In totale, i nuovi premi Nobel “scientifici” (cioè senza contare pace, letteratura ed economia) sono 8: sei uomini e due donne (il 25%).
Sempre meglio dell’anno scorso, quando la settimana si era chiusa con nove uomini (e anche i Nobel per l’economia e per la letteratura andarono ad altri due uomini). E comunque meglio della media: dal 1901, 605 persone sono state insignite di un premio Nobel in una delle tre discipline: medicina, fisica o chimica. Di queste, solo 20 donne (il 3.3%): 12 in medicina, 5 in chimica e 3 in fisica; ma la gigante Maria Sklodowska Curie conta doppio, perché è l’unica donna ad averne ricevuti due, uno in fisica e uno in chimica.
Tra l’altro, il primo dei due, quello in fisica, lo ricevette assieme al marito Pierre nel 1903 solo perché lui si impuntò e minacciò di rinunciare al premio se non fosse stato dato anche alla moglie, della cui statura scientifica lui era ben cosciente, al contrario degli uomini del comitato dei Nobel, checché ne dica Alessandro Strumia.
La storia di Marie Curie, che dovette combattere contro vento e maree per rompere lo spessissimo tetto di cristallo di un mondo praticamente esclusivamente maschile (qui un podcast di Radio 3 del 2014 sulla storia della coppia, e qui uno splendido radio documentario di pochi giorni fa della Radio nazionale spagnola Rne sulla figura di Marie) ci porta però ai giorni nostri.
La neopremiata Donna Strickland, cui va il merito di aver spiegato come trasformare la luce laser in “pinzette ottiche”, è stata protagonista di quello che potrebbe sembrare solo un aneddoto ma è invece una potente metafora.
Chi martedì a mezzogiorno, il momento dell’annuncio del Nobel, abbia cercato il suo nome su Google si sarà accorto di una bizzarria inusuale: Strickland non aveva neppure una pagina su Wikipedia. Entrambi i suoi collaboratori uomini, sì.
La sua pagina ora è completa e riporta anche la lunga lista di premi che ha ricevuto nel corso degli anni. Ma è nata alle 12.14 (6.14 ora americana) di martedì.
Non solo: Strickland, 59 anni, 94 articoli di cui 20 citati più di 20 volte in altri articoli (il più citato, quello che le ha valso il Nobel, ha più di 4600 citazioni) non ha neppure una cattedra nella sua università, quella di Waterloo, in Canada.
È interessante notare che un anonimo utente aveva cercato di creare una pagina su di lei a maggio, ma uno dei moderatori di Wikipedia l’aveva bloccato perché l’articolo non dimostrava “che il soggetto avesse abbastanza qualifiche per essere un articolo di Wikipedia”.
In altre parole, Strickland non era abbastanza importante e non aveva ricevuto abbastanza copertura mediatica per essere considerata davvero rilevante secondo gli standard della famosa enciclopedia online. E questo nonostante fosse stata a capo di una delle più importanti associazioni scientifiche, la Optical Society.
La stessa Strickland, martedì nell’improvvisata stampa presso la sua università, si era mostrata sorpresa che ci fossero solo altre due donne Nobel in fisica: “Pensavo fossero di più”.
La sorpresa non è peregrina.
Secondo dati Eurostat, dei circa 700mila dottorandi nell’Europa dei 28 (nel 2015), poco meno della metà erano donne. Ma nello stesso anno, gli uomini costituivano i due terzi dei ricercatori. A capo di solo 1 istituzione scientifica su 5, dice She figures, c’è una donna, e la stessa proporzione vale per le cattedre universitarie.
Certo, va un po’ meglio che ai tempi di Curie, ma è indubbio che proprio nel campo dove dovrebbe vincere il merito e il riconoscimento del lavoro, in cui si fa gran parlare di “eccellenza”, il soffitto di cristallo e il gender gap sono più forti che mai.
L’invisibile Donna Strickland ci racconta la storia di migliaia e migliaia di ricercatrici sistematicamente sottovalutate dai loro colleghi maschi e dai media. Quella della pagina di Wikipedia di Strickland che è stata costruita dagli utenti in poche ore martedì è, scrive Brian Resnik sull’Atlantic, “una metafora di un processo di premiazione storico che è stato criticato a lungo per aver ignorato le donne nella sua selezione e per l’assenza di storie di donne nella scienza in generale”.
Alla BBC Strickland ha detto di non essersi mai sentita discriminata, e che non è professore ordinario solo perché “non ho mai fatto domanda”. Ma ammette che essere Nobel può “ispirare” le più giovani.
Che una donna riceva un meritato e prestigioso premio come un Nobel, che le storie di scienza, come spiegava il giornalista scientifico inglese Ed Yong in un recente articolo sempre sull’Atlantic, raccontino anche le donne ricercatrici con il giusto protagonismo, che ogni scusa sia buona per mettere sotto i riflettori il ruolo delle scienziate è l’unico modo per infrangere per sempre il soffocante tetto di cristallo che rende la scienza più sterile e più lontana dalla realtà.

il manifesto 5.10.18
Gli sguardi sulla Storia nelle foto della Guerra civile spagnola
Mostre. Al Teatro dei Dioscuri al Quirinale l'esposizione «Fu la Spagna!» curata da Daniela Aronico e Andrea Di Michele e organizzata dall'Istituto Luce-Cinecittà indaga il ruolo e la prospettiva fascista nel conflitto
Il miliziano fascista Arconovaldo Bonacorsi a Palma di Maiorca nel 1936
di Giovanna Branca


ROMA Dalle sue pieghe nascoste e dai suoi momenti più oscuri la Storia ci parla, «guarda» e riguarda l’oggi come monito e strumento di comprensione. L’anno prossimo segnerà l’ottantennale dalla fine della Guerra civile spagnola, un conflitto che ha coinvolto direttamente l’Italia su entrambi i fronti: quello repubblicano in cui si sono battute le brigate internazionali e con loro tanti italiani di valore come Nenni, Longo e Togliatti – e quello franchista che ha avuto il supporto delle truppe e le legioni volontarie fasciste a partire degli albori del colpo di Stato militare. Ma proprio l’intervento fascista nella Guerra di Spagna è un evento trascurato dalla storiografia – una «terra di nessuno» come dice Daniela Aronica, curatrice insieme ad Andrea di Michele della mostra organizzata da Istituto Luce-Cinecittà «Fu la Spagna! Lo sguardo fascista sulla Guerra civile spagnola» che si inaugura oggi a Roma al Teatro dei Dioscuri al Quirinale, dove resterà fino al 18 novembre.
«All’indomani della vittoria di Franco l’Italia è infatti subito impegnata nell’invasione dell’Albania, e di lì a poco scoppia la seconda guerra mondiale», spiega Aronica. «Quando invece le potenze dell’Asse vengono sconfitte, l’attenzione degli storici nell’Italia repubblicana si sposta sul ruolo e il contributo delle brigate internazionali». Ma la Guerra civile spagnola, continua la curatrice, è il primo grande «scontro ideologico» in cui si trovano coinvolte le nazioni europee, e quello dove viene consistentemente sperimentata una propaganda nuova, consentita dallo sviluppo tecnologico con i suoi mezzi leggeri come le macchine fotografiche: «È la prima guerra seguita in diretta da un pubblico di massa» – e non è un caso che sin dal suo inizio il regime fascista instauri in Spagna un suo ufficio propaganda dal quale, dopo aver passato la censura militare, arrivano in Italia le immagini che raccontano il conflitto.
Attraverso 300 fotografie – «la punta dell’iceberg» di oltre 20.000 immagini d’archivio studiate dalla curatrice e docente all’Università di Barcellona – la mostra lavora dunque sullo «sguardo fascista» sugli eventi suddividendolo in tre diverse prospettive: quella offerta dalle foto della stampa – «che costruiscono il racconto della guerra dal punto di vista del regime» – le foto dei legionari – realizzate privatamente e che possono tradire ad esempio l’orrore della morte – e quelle militari, nelle quali è evidente l’interesse verso i nuovi strumenti bellici come l’aviazione.
Un’analisi attenta e profonda che fa rivivere il materiale d’archivio e interpella lucidamente il modo di guardare gli eventi come componente essenziale degli eventi stessi, e colloca davanti ai nostri occhi «la Storia» non tanto nel meccanico inanellarsi delle sue date e delle battaglie ma proprio nella complessità degli sguardi che si incrociano attorno ad essa e che ci riguardano in quanto osservatori.
Possono bastare ad esempio le foto di una nave mercantile – il piroscafo Lombardia – a ricapitolare il ruolo del fascismo nella guerra di Spagna e il mutare della sua prospettiva: immortalata da legionari e militari mentre in incognito (senza bandiere e col nome coperto) lascia Gaeta nel 1936 alla volta di Cadice, testimonia il tradimento di Mussolini verso gli impegni presi con il Comitato di non intervento. La ritroviamo poi nelle foto che la immortalano al suo ritorno, a guerra finita, con il nome e i colori bene in vista, perché ormai il duce «vittorioso» non ha più remore a dare prova del ruolo italiano nella guerra. Un «golpe fallito – come lo definisce la curatrice – che diventa immediatamente una guerra civile internazionale, proprio come la Siria oggi». E, sempre in parallelo con l’oggi, fatta anche di organismi internazionali come la Società delle Nazioni che restano a osservare impotenti mentre l’Europa scivola nel baratro – e la realtà viene ridotta alla narrazione perenne della propaganda.
Una delle foto in mostra ritrae una donna repubblicana armata di fucile -«le donne italiane immortalate sono solo madri o vedove dei caduti, quelle franchiste sono infermiere, portano il velo e mai le armi» spiega Aronica – con lo sguardo fiero guarda in macchina e sorride: pubblicata da «Life» l’immagine viene descritta come quella di una combattente dopo la battaglia. Ripresa e «risemantizzata» dalla stampa italiana diventa una «megera» sovversiva. Da un angolo della Storia, la sua immagine continua a guardarci.

Repubblica 5.10.18
"Il regno dell’Uroboro", la raccolta di saggi di Michele Ainis
Siamo monadi digitali e lavoriamo (gratis) per i signori dell’algoritmo
di Maurizio Ferraris


Tutto, ricorda Michele Ainis ne Il regno dell’Uroboro — volume che raccoglie suoi recenti articoli e saggi brevi, alcuni dei quali apparsi, in forma leggermente diversa, su Repubblica — inizia meno di nove anni fa, il 4 dicembre 2009, quando Google avvisa che comincerà a personalizzare gli avvisi in base agli utenti: se cerchi "calcio", in base alle tue navigazioni ti può venir fuori "Juve" o "Roma" (e se cerchi spread, reddito di cittadinanza, vaccini, Junker che barcolla, avrai risposte coerenti con le tue abitudini). Perché tutto questo ha un valore epocale? Perché da quel momento si è compreso che la funzione capitale del web era registrare molto più che comunicare. Chi accede al web ha fisicamente l’impressione di guardare la televisione, ma in realtà tra il guardare un video in tv o sul telefonino ha luogo una rivoluzione copernicana. Nel primo caso, siamo noi che guardiamo il video. Nel secondo, per così dire, è il video che guarda noi, nel senso che annota quello che guardiamo, i commenti che facciamo, le persone a cui inviamo il link, la frequenza con cui ci ritorniamo. Il grandissimo merito di Ainis è di isolare lucidamente le conseguenze di questa rivoluzione, e di farlo con grandissima concisione, il che è un merito in sé, ma anche comparativamente, se si considera la pletora di libri che escono sul web, prima entusiastici, ora per lo più critici, ma che lasciano l’impressione di non aver colto il punto.
Le conseguenze della rivoluzione riguardano essenzialmente il sapere, la politica e il lavoro. Sul piano del sapere, abbiamo una sorta di monadizzazione della conoscenza, cioè la «solitudine di massa» di cui parla il sottotitolo del libro di Ainis. Ognuno di noi è una monade nel senso che si rappresenta il mondo, il world wide web, da una prospettiva, la sua, personalissima. Così che la "Rete ampia come il mondo" diviene la descrizione di casa nostra. E noi tutti viviamo in mondi diversi. È facile vedere come, nell’ambito della politica, questa frammentazione sia il terreno di coltura ideale per la crescita delle convinzioni identitarie, della rappresentazioni dogmatiche, delle teorie del complotto. Se nella tua echo camber sono convinti che la Luna è fatta di formaggio ti apparirà naturale pensare che chi dice che è fatta di pietra è parte di un complotto. E questo non vale ovviamente solo per la Luna, ma viene a toccare elementi più sensibili come il funzionamento dei mercati, le conseguenze delle manovre economiche, le conseguenze socioeconomiche delle migrazioni. Ma mentre gli elettori hanno informazioni molto parziali, perché monadiche, gli eletti (purché abbiano i soldi per pagarsi le informazioni, soldi ben spesi) ne hanno di molto esatte, almeno sulle credenze degli elettori. Da una parte, i politici sono visibilissimi, ma questi sono fatti loro, se lo scelgono attraverso una frequentazione compulsiva dei social. Dall’altra, ed è più significativo e drammatico, abbiamo il passaggio dei politici da classe dirigente a classe diretta, perché quello a cui rispondono non è una opinione pubblica vaga e impalpabile, ma una rappresentazione esatta del gradimento e dei desideri degli elettori. E se prevale, poniamo, la dottrina della luna fatta di formaggio, allora sarà politicamente doveroso dar vita alla lega del formaggio e al movimento della luna.
Di solito, le idee balzane e i sentimenti complottisti sono il frutto immaginario di disagi paure reali, per esempio rispetto al lavoro. È un fatto che c’è sempre meno lavoro e non è chiaro come potrà tornare. Da questo punto di vista, bisognerebbe distogliere gli occhi dal complotto della luna e dei mercati e considerare un fatto a cui pochi prestano attenzione. Mentre soddisfiamo i nostri bisogni ed esprimiamo le nostre idee, creiamo enormi archivi su noi stessi, sulle nostre abitudini, sulle nostre regole e sui nostri strappi alla regola. Così facendo, lavoriamo, gratis e senza saperlo, perché produciamo una ricchezza molto superiore a quella dei soldi. Un capitale che non si limita a dare informazioni su quanto possiamo spendere, ma su quello che siamo e quello che vogliamo. Mentre rinunciamo spensieratamente alla privacy, produciamo ricchezza. Ora, la privacy non ha prezzo, e non è chiaro come possa essere tutelata.
Ma il lavoro che produciamo un prezzo ce l’ha, può essere quantificato, e deve essere pagato dalle piattaforme senza gravare sui bilanci degli Stati. Riducendo lo scontento sociale, e magari rendendo più onorevole, fattibile, e gratificante, il compito politico di servire un popolo meno impaurito e arrabbiato.

Il Fatto 5.10.18
Happy hour sì ma nel weekend. Lo diceva Platone
Dall’Atene di Platone all’Inghilterra di oggi: il vino abbatte i nostri freni inibitori. L’importante è non ricordarsene
Happy hour sì ma nel weekend. Lo diceva Platone
di Laura Pepe


Quando arriva la sera del venerdì, gli anglofoni danno il benvenuto al fine settimana con l’espressione Thank God It’s Friday (ormai più popolare nella forma dell’acronimo Tgif): i cinque giorni consacrati al lavoro vengono momentaneamente congedati per lasciare spazio alla baldoria del sabato e della domenica. Chi può permetterselo riesce a trovare anche all’interno della settimana un momento di stacco: è l’happy hour, quell’“ora felice” in cui bar e locali alla moda si popolano per rifocillare i lavoratori con drink a prezzo ridotto. A prescindere dall’occasione specifica, weekend e cocktail pre-cena sono il segno di una netta cesura tra le ore intense della concentrazione lavorativa e quelle leggere da dedicare allo svago.
È, questo, il frangente della cosiddetta cultural remission, una distensione istituzionalizzata del controllo sociale sul comportamento che normalmente ci si aspetta dall’individuo. E non è un caso che, di regola, la transizione da un momento all’altro sia suggellata da un brindisi alcolico, a significare che il self-control, e la sobrietà che necessariamente gli si accompagna, possono cedere il passo all’allentamento dei freni inibitori che l’alcol favorisce. È evidente che perdere lucidità è inammissibile in orario di ufficio, ma è del tutto accettabile quando non si lavora più; e che colui che contravviene alle regole, se anche riesce a scampare a sanzioni più o meno pesanti, è comunque fatto oggetto di biasimo generale.
L’opposizione tra il binomio sobrietà-lavoro, da un lato, e alcol-tempo libero, dall’altro, non è scoperta recente, invenzione del capitalismo moderno. Al contrario, essa era già ben presente ai nostri antenati greci: i quali, mentre esigevano che si fosse irreprensibili nello svolgimento delle proprie occupazioni quotidiane – soprattutto se di una certa responsabilità –, tolleravano senz’altro che si alzasse impunemente il gomito in quelli che per alcuni versi possono essere definiti gli happy hour dell’antichità: i simposi, momenti istituzionalizzati di “bevuta collettiva” (questo significa in greco symposion), che in diverse polis greche intrattenevano, tra vino e discorsi più o meno impegnati, gli esponenti delle classi aristocratiche.
Prendiamo Atene: una legge attribuita al primo legislatore della città, Solone, puniva addirittura con la pena di morte il magistrato scoperto ubriaco nell’esercizio delle sue funzioni, mentre le testimonianze letterarie abbondano di descrizioni di simposi in cui tutti i partecipanti mostrano chiari i segni di un’ebbrezza più o meno accentuata. A questo proposito, non si può non ricordare il più celebre simposio letterario dell’antichità, quello di Platone: dopo che i simposiasti hanno concluso i loro discorsi su eros, tema prescelto per la serata, irrompe nella sala della bevuta uno tra gli uomini più in vista del tempo, Alcibiade: già abbondantemente brillo perché reduce da un altro simposio. Alcibiade ordina immediatamente che gli sia servita un’immensa coppa, colma di vino fino all’orlo, che egli non esita a vuotare all’istante, mentre tutti gli altri presenti seguono il suo esempio fino a sprofondare, poco dopo, nel sonno. I Greci, insomma, non hanno nulla da dire sull’eccesso alcolico, a patto che questo si manifesti entro il limite spaziale e temporale del simposio. E a patto, inoltre, che ci si procuri l’ubriacatura in modo civile. Già, perché l’ebbrezza del colto simposiasta è ben altra cosa rispetto a quella del rozzo popolino, o degli ancor più rozzi bárbaroi (il termine generico con cui i Greci indicavano chi era ignaro di lingua e di cultura greca), digiuni l’uno e gli altri di quelle nozioni elementari sul “come” bere e “quanto” bere che informano di loro stesse il simposio. Nel simposio vigono infatti norme ben precise sulle modalità in cui assumere vino – che non deve essere mai bevuto akraton, “puro”, ma sempre mescolato con un numero variabile di parti di acqua – e sul numero di coppe da vuotare per raggiungere l’effetto desiderato: si diceva che lo stesso Dioniso, il dio del vino, avesse dettato ai mortali quella che potremmo assimilare a una attuale “tabella di alcolemia” per descrivere gli effetti sul corpo delle diverse quantità di alcol: superate le tre coppe – che regalano salute, piacere e sonno – si inizia a perdere controllo, e l’euforia volge a ebbrezza sempre più intensa.
Proprio grazie a questa attenta regolamentazione, che le conferisce una vera e propria fattura rituale, l’ubriachezza non solo diviene accettabile, ma assurge anche a fatto sociale, a esperienza collettiva da condividere con tutti gli altri partecipanti al simposio. L’importante era, il giorno dopo, riacquistare la solita compostezza, dimenticando ciò che era avvenuto nel simposio: miséo mnámona sympótan, “odio il simposiasta che ricorda”, recitava un proverbio greco, che in termini moderni potremmo liberamente parafrasare con: “what happens in a symposion, stays in a symposion”.

Il Fatto 5.10.18
A lezione di filosofia con Eschilo e Oreste
di Camilla Tagliabue


Da che parte prendere quattro ore di spettacolo ispirato all’Orestea di Eschilo? Dalla fine, forse, che poi è anche “il principio”, almeno in questo adattamento, più che libero, iconoclasta: se abbiamo capito bene, la compagnia Anagoor prende a pretesto la tragedia classica, paradigma dell’Occidente, proprio per ribaltare il paradigma dell’Occidente.
L’operazione è coraggiosa, e proviamo a credere che sia riuscita, ma il paziente è morto: dell’intelligenza ed eleganza degli Anagoor – quest’anno insigniti del Leone d’Argento – non si discute, ma la pièce è cerebrale e farraginosa ai limiti della fruibilità. Sempre se abbiamo capito bene, gli artisti mettono in discussione la frattura tragica, alla base del modello occidentale (Io-Dio, soggetto-oggetto, mortale-immortale…), proponendone addirittura un superamento: verso il “vuoto”, la dissoluzione del sé, il ritorno al ciclo naturale di morte e rinascita, in un calderone di rimandi all’Oriente, alle civiltà arcaiche e alla new age bucolica.
Ma veniamo al teatro: appena passata a Romaeuropa Festival e prossimamente ospite di alcune piazze europee, l’Orestea tornerà in Italia a marzo, spacchettata in due tempi – Agamennone e Schiavi + Conversio –, tradotta ex novo e riscritta da Simone Derai e Patrizia Vercesi, con l’obiettivo di “descrivere le macerie dell’Occidente… In Eschilo il collasso del mondo arcaico, lo spezzarsi del senso mitico del mondo, l’alba della filosofia convergono in una forma d’arte inaudita che è anche un primo tentativo di prassi filosofica: la tragedia”.
Sacrificata al tal densità di pensiero è la trama, pervenuta a metà: si ferma, infatti, prima che Oreste vendichi il padre e non procede per azioni drammatiche ma per gesti posticci. Latitano anche i dialoghi e la narrazione vive di monologhi e spiegazioni, per non chiamarle lezioni, con voli pindarici (“orizzonte di pensiero”, sic) da Severino a Leopardi, da Virgilio ad Arendt. Alla filosofia si giustappongono poi brevi cenni di etnografia, antropologia, “grammatica” (sic) e una moralina finale sull’aggressività e il colonialismo occidentale, più citazioni spurie dal Talmud ad Apollo – ma almeno lui era nel copione.
Il pubblico risente dell’ardita verbosità, e infatti si scioglie – il pubblico rimasto in sala dopo l’intervallo, ndr – in un applauso a scena aperta a una toccante coreografia corale (firmata da Giorgia Ohanesian Nardin). Pur dilatato e cervellotico, l’allestimento è aggraziato, elegante, algido: dalle videoproiezioni alle luci tutto concorre a creare un’atmosfera apollinea, a parte qualche barbara distrazione come i fastidiosi flash stroboscopici, il continuo tappeto sonoro e i canti in tedesco. Gli attori, sovrastati dal disegno registico, paiono talvolta acerbi o piagnucolosi, ma la tragedia, a differenza dello psicodramma, vorrebbe essere sempre di lacrime asciutta.

La Stampa 5.10.18
L’idolo arcaico sembra un Modì
Com’è moderna la scultura di 6 mila anni fa
di Maurizio Assalto


La prima cosa che colpisce, di queste statuine, è la modernità. Fanno pensare all’arte del Novecento: Brancusi, Modigliani, Arp, Moore, il cubismo, l’astrattismo… Invece sono preziosi reperti, in qualche caso autentici capolavori che arrivano da un passato remoto - se non proprio dalla notte dei tempi, dall’aurora della civiltà. Ma parlare di modernità è un capovolgimento di prospettiva, una sorta di paradossale hysteron proteron storico-critico, perché in effetti è stata l’arte moderna a inseguire i progenitori nella loro straordinaria capacità di astrazione e di sintesi figurativa. La seconda constatazione è la grande vicinanza culturale che emerge tra aree lontanissime, come quelle che vanno dalla penisola iberica alla valle dell’Indo, in un’epoca in cui Vicino Oriente e Mediterraneo, con Egitto e Mesopotamia a fare da cerniera, parlavano lo stesso linguaggio artistico e il futuro mare nostrum non era un abisso che separava ma un’autostrada che univa.
È quanto si può constatare a Venezia nella mostra «Idoli. Il potere dell’immagine», curata da Annie Caubet, conservatrice onoraria del Louvre, e aperta a Palazzo Loredan fino al 20 gennaio (con catalogo Skira, disponibile anche in inglese). Cento oggetti (14 provenienti dalla veneziana Fondazione Giancarlo Ligabue, che organizza l’evento, e gli altri dalle maggiori collezioni pubbliche e private internazionali) eccezionalmente per la prima volta accostati in modo da farne risaltare le affinità e le varianti. Un viaggio nello spazio e nel tempo: ottomila chilometri e oltre due millenni di pre- e protostoria, dalla metà del V agli inizi del II, sulle tracce dei modi di rappresentare la figura umana.
L’arco temporale considerato rappresenta uno snodo cruciale nell’avventura dell’Homo sapiens, che vede il passaggio dal tardo Neolitico all’Età del Bronzo, e quindi dai villaggi di agricoltori su base famigliare e tribale alle prime forme di organizzazione urbana centralizzata, resa possibile dall’abbondanza delle risorse da amministrare e ridistribuire. Una grande transizione che avviene pressoché simultaneamente in ognuna delle aree interessate, scandita in tre fasi, corrispondenti a diversi modalità espressive.
Nella prima, che dal 4500-4000 a. C. arriva fino al tardo IV millennio, a predominare sono le figure nude femminili steatopigie (letteralmente: dai glutei grassi), caratterizzate da forme prosperose e attributi sessuali enfatizzati: costruite con un sapiente assemblaggio di volumi parallelepipedi, sferici e cilindrici (in qualche caso sembrano uscite dalla mano di Botero), sono un’immagine di quella Grande Madre che identificandosi con la natura e con il potere riproduttivo della donna rappresenta la più antica forma di divinità concepita dalle comunità di tipo agricolo-stanziale. I materiali impiegati vanno dalla roccia calcarea all’arenaria al marmo al basalto. Fin dal Neolitico gli scambi erano intensi, soprattutto il traffico dell’ossidiana, dalla Sardegna e dall’Anatolia, copriva distanze per l’epoca enormi. Con l’Età del Bronzo i commerci si allargano e intensificano: rame e stagno da Spagna, Anatolia, Cipro e Oman, per produrre la lega che dà il nome all’era, legname dal Tauro e dal Libano, oro e lapislazzuli dall’Afghanistan, corniola dall’India, avorio di ippopotamo ancora dall’India e dall’Africa, diorite dalle coste dell’Oceano Indiano. E con le merci viaggiano le idee.
Verso la fine del IV millennio, in coincidenza con il formarsi delle prime città, s’inizia una nuova fase. La preoccupazione dominante, ossessivamente ribadita, resta quella di assicurare la continuazione della comunità, e per questo la figura femminile è centrale. Ma adesso spogliata di ogni volume in eccesso, ridotta all’essenziale, stilizzata all’estremo, nello sforzo di dare forma visibile per la prima volta a concetti metafisici e a fenomeni misteriosi come la nascita, la morte, la malattia, l’alternarsi delle stagioni, il sorgere e il tramontare del sole. Dalle statuette cruciformi come quella di marmo bianco (ancora tardo-neolitica) ritrovata nell’area sacra di un villaggio nei pressi di Turriga, in Sardegna, di impianto quasi bidimensionale, con il corpo risolto in tre moduli geometrici e soltanto il naso e i seni prominenti (notevole perché il rapporto tra le sue parti si avvicina al valore della sezione aurea, quel P greco che avrà larga applicazione in scultura come in architettura dall’antichità classica al Rinascimento); alle figurine cicladiche in stile Modì, inizi del III millennio, con la testa a forma di lira, le braccia incrociate sul petto e solo il triangolo pubico a evidenziarne il genere; fino all’astrazione estrema degli idoletti a forma di violino, diffusi tra IV e III millennio dalle Cicladi all’Anatolia, o di quelli coevi «a occhi», da Siria e Mesopotamia, con solo due enormi bulbi a sormontare un corpo quadrangolare o semisferico.
In questa fase anche la figura maschile comincia a fare la sua comparsa, spesso fusa con quella femminile in statuette con collo e capo itifallici, forse a idealmente riunificare le componenti separate dell’essere umano. Ma è soprattutto nella fase successiva - III millennio, piena fase urbana - che le differenze di genere si stagliano nette, dalla Mesopotamia all’Oxus, nella rappresentazione naturalistica-idealizzata di un pantheon composito e geograficamente diversificato, composto di dèi e dee ben individuati, a cui si aggiungono mostri mitologici, eroi, sovrani, principesse. Come la cosiddetta Venere Ligabue che è stata la suggestione alla base della mostra: una statuetta assemblata con pezzi diversi di clorite scura e di calcare chiaro, acquistata negli Anni 70 dall’imprenditore Giancarlo Ligabue che a partire da quell’oggetto sviluppò i suoi interessi archeologici verso tutta l’area (riversati nell’88 nell’importante volume sulla Battriana).
A questa e alle altre Dame dell’Oxus, contrapposti come la morte alla vita, il caos al kosmos, la barbarie alla civiltà, fanno da contraltare le numerose raffigurazioni dello Sfregiato, un genio dal corpo ricoperto di squame, incrocio tra uomo, serpente e drago, con l’occhio destro solcato da una profonda ferita, ricordo di una battaglia cosmica che l’ha impegnato contro le potenze dell’ordine. La continuità generativa non è più un problema, adesso la prima preoccupazione è quella di garantire la stabilità organizzativa di una comunità articolata attraverso la collaborazione del sovrano con gli dèi. E in questo processo si moltiplicano e diversificano le varianti locali. La civiltà si è ormai imposta, ma l’ancestrale unità artistica e culturale si perde per sempre.