Il Fatto 1.10.18
La cittadinanza e i diritti umani nell’antica Roma
di Orazio Licandro
Su
un aspetto il governo gialloverde ha messo tutti d’accordo: dalle
opposizioni alla Chiesa cattolica, dalle organizzazioni sindacali al
volontariato e ai professori che hanno guidato il fronte contrario alla
sciagurata riforma costituzionale perseguita da Renzi, forte e univoca è
stata la voce che si è levata contro il decreto sicurezza Salvini.
Oltre a essere un maleodorante pentolone dove i migranti si mescolano
con terroristi e mafiosi, in una sorta di Milleproroghe della paura e
dell’odio, quel decreto contiene una misura odiosa, anzi aberrante, cioè
la revoca della cittadinanza a coloro che, avendola ottenuta,
commettono certi reati. Un arretramento spaventoso sul piano del
principio di uguaglianza e, pertanto, di un fondamentale della civiltà
giuridica in assoluto, che ne profila una sicura incostituzionalità.
Persino nell’antica Roma dinanzi al civis si usava una estrema prudenza.
Il cittadino poteva perdere la cittadinanza perché caduto in prigionia
bellica; ma qualora fosse riuscito a rientrare in patria la
riacquistava. Poteva, poi, anche perderla per quei crimini per i quali
era comminata la pena capitale. Tuttavia, non solo ciò valeva per ogni
civis e non soltanto per quelli di cittadinanza più recente, ma si
riconosceva comunque al cittadino la possibilità di sottrarsi anche alla
pena di morte con la facoltà di scegliere, sia pure un attimo prima
della pronuncia della sentenza da parte dei comizi popolari, di andare
in volontario exilium. L’Italia si trova in un tornante insidioso, e
tutto occorre salvo continuare ad alzare la tensione o segnare il passo
sul piano dei diritti della persona.