Il Fatto 12.10.18
Gaetano Azzariti
“Via l’art. 81 dalla Carta: sovrano è il Parlamento, non i mercati”
“La sovranità non appartiene alla finanza, ma neanche a un popolo astratto: la sovranità è solo costituzionale”
Eletto dal popolo. Le Camere, unica sede della sovranità popolare. In basso, di di Silvia Truzzi
Cominciamo
questa conversazione sul rapporto tra Europa e Stati, tra volontà dei
popoli e diktat di mercati e commissari, dall’inizio. Cioè dal secondo
comma del primo articolo della Costituzione (“la sovranità appartiene al
popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla
legge”). Partiamo dalla Carta anche perché parliamo con Gaetano
Azzariti, ordinario di Diritto costituzionale alla Sapienza.
Professore,
assistiamo a continue tirate d’orecchie, per di più preventive, su
quello che possiamo o non possiamo fare. La sovranità a chi appartiene?
Ai popoli o ai mercati?
Non certo ai mercati, ma neppure al popolo
astrattamente e retoricamente inteso. Nel Novecento la sovranità è
‘sovranità costituzionale’. Quando si evoca genericamente il popolo non
si fanno i conti con quanto prescritto dall’articolo 1, cioè che questi
esercita la propria sovranità entro le forme e i limiti stabiliti dalla
Costituzione: è questo il perimetro della sovranità.
E che succede se – come ora – i cittadini non sono disposti a farsi dire come votare dai mercati?
Anche
in questo caso le decisioni politiche fondamentali spettano non a
indeterminati cittadini, ma agli organi costituzionalmente competenti,
in primo luogo al Parlamento, ovvero – quando la Costituzione lo prevede
– alle decisioni assunte direttamente dal corpo elettorale. L’equivoco
di fondo è che spesso si parla di sovranità e si pensa a quella del
capo, che non è titolare di alcuna sovranità diretta; in Italia neppure
il governo è eletto dal popolo. Quel che si dovrebbe recuperare non è un
potere decisionale in ‘capo ai capi’, ma all’organo della
rappresentanza popolare, al Parlamento appunto.
Ma è possibile che si possa dettar legge dall’esterno anche sulla riforma delle pensioni di uno Stato sovrano?
Il
vero argine alle decisioni politiche dovrebbe essere la Costituzione.
Argine a tutte quelle misure che non tenendo in considerazione i
principi costituzionali finiscono per compromettere la salvaguardia di
diritti fondamentali. Da questo punto di vista, la misura che più
preoccupa è la flat tax, se essa dovesse essere concepita come un’unica
aliquota al 15% come si è a lungo scritto, poiché andrebbe in conflitto
con il principio della progressività fiscale.
Come siamo arrivati a questo conflitto con l’Europa?
C’è
stato un tradimento dell’Europa politica. La formula dei ‘piccoli
passi’ di Schuman (cominciamo dall’unione economica per arrivare
all’Unione politica) si è rivelata sbagliata. Una scommessa persa a
causa della sottovalutazione della forza del mercato che ha fagocitato
tutto. Dal ’92 i parametri di Maastricht hanno dominato lo scenario
europeo. E quando nel 2000 si è provato a reagire elaborando la Carta
dei diritti dell’Unione europea, l’Europa ha finito per voltargli le
spalle.
Qual è la morale?
Per rimanere in Europa si deve lottare per dare un primato dell’Europa dei diritti sull’Europa dei mercanti.
Si
può rimanere in Europa tentando di preservare il diritto dei cittadini
di esprimere, attraverso il voto, un indirizzo politico?
Sì,
riaffermando la centralità degli organi della rappresentanza politica
che oggi sono messi in un angolo. Penso al Parlamento italiano,
emarginato da esecutivi sempre più invadenti; penso anche al Parlamento
europeo, che con Lisbona nel 2009 si è cercato di rafforzare, ma che poi
si è visto espropriare dalle decisioni assunte dagli Stati membri i
quali indirizzano di fatto le politiche europee.
In Grecia c’è stato un referendum nel 2015, il cui esito è stato completamente sconfessato.
Sulle
ragioni dei diritti fondamentali dei greci è prevalsa la visione
europea di salvaguardia degli equilibri di un’economia senza diritti. È
il punto più basso dell’Europa dei popoli. Non avremo mai un’Europa
credibile se questa non riuscirà ad andare oltre alle ragioni di
bilancio e farsi carico dei diritti indisponibili delle persone che
devono essere comunque tutelati.
Però su tutto, sugli zero virgola e non solo, ha più voce in capitolo la Commissione europea che lo Stato italiano.
Non
c’è dubbio. Oggi l’Europa pretende di dettar legge attraverso i vincoli
economici. Io credo che dovrebbero essere rivalutati dei contro-limiti
costituzionali per salvaguardare i diritti. Sono contro-limiti
individuati dalle Corti costituzionali di alcuni Paesi e ormai
implicitamente ammessi anche dalla Corte di giustizia. In ogni caso, è
chiaro che c’è ancora molta strada da fare. Ma ciò che più preoccupa
credo non sia neppure tanto il conflitto in sé, quanto le ragioni di
esso.
Cioè?
Si scatena il conflitto solo per far prevalere gli
interessi egoistici degli Stati. È sintomatico che l’enfasi maggiore
riguardi la questione del debito, mentre le politiche sociali o le
stesse politiche migratorie, vengono ridotte a questioni di ordine
pubblico interno. Ciò che appare veramente inammissibile è l’assenza di
una politica comune e solidale in tema di migrazioni.
L’articolo 81
della Costituzione, diceva il professor Rodotà, è stato un grande
sbaglio perché mette il principio del pareggio di bilancio in
concorrenza con i diritti fondamentali (salute, istruzione, retribuzione
dignitosa).
Verissimo. L’articolo 81 è una serpe in seno alla
Costituzione. Se introduci certe norme nella tua Carta fondamentale è
difficile andare poi in Europa a protestare per il rigore preteso dalla
Commissione. Nel 2012 è stato introdotto all’unanimità e con grande
entusiasmo il vincolo di bilancio, subito dopo s’è pretesa maggiore
flessibilità. Comportamento anomalo che dovrebbe far riflettere.
Forse si dovrebbe partire da qui, eliminando l’articolo 81?
Sarebbe un bel segnale per far ripartire un’Europa dei diritti e non solo dei mercati.
LaStampa 12.10.18
Camerata Guevara
di Mattia Feltri
I
progressi del dibattito pubblico italiano sono esemplificati dalla
nuova polemica culturale a destra, suscitata dal poster in elogio a Che
Guevara diffuso dai giovani meloniani (giovani e meloniani, ecco due
colpe a cui rimedierà il tempo). Non l’ha presa bene lei, Giorgia
Meloni, né Maurizio Gasparri, né alcuni editorialisti stupiti
dall’ibridazione fra rossi e neri. Però, nuovo dibattito per modo di
dire: sarà la settantesima volta in cinquant’anni che qualche ragazzo o
qualche eretico di destra si invaghisce del Che, e qualche capo o
qualche custode dell’ortodossia di destra se ne rammarica. Adriano
Bolzoni, volontario di Salò, alla morte del Che ne scrisse la prima
biografia in angolatura fascista. E da allora è stato un continuo
innamoramento per il rivoluzionario che dannunzianamente rinuncia al
comando e riprende la battaglia, per l’idealista che prima spara e poi
parla (succede quando si crede troppo nelle proprie idee), per il
nazionalista antimperialista e antiamericano; e negli Anni Settanta le
camerette dei giovani fasci erano addobbate dalla foto del Che e da
quella di Valle Giulia, anno 1968, quando studenti di destra e di
sinistra fronteggiarono la polizia insieme, prima che arrivasse Giorgio
Almirante a porre fine all’incestuosa unione. Incestuosa perché il Che,
se ce ne fosse bisogno, è una delle prove della storia che comunisti e
fascisti sono gemelli separati alla nascita. A chiudere la questione
basterebbe quel sant’uomo di George Orwell, quando disse che pari sono, e
fra i due c’era poco da scegliere. E invece no, e chi resta in mezzo
prende botte a destra e a sinistra.
il manifesto 12.10.18
Caso Cucchi, quando la verità vince sulla demagogia
Giustizia.
La famiglia di Stefano Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è
affidata ai giudici e alle istituzioni, si è mossa nel solco della
legalità. Viceversa, coloro che hanno detto che per principio erano
dalla parte dei carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza
la legalità
di Patrizio Gonnella*
Il processo per
l’omicidio di Stefano Cucchi resterà nella storia della giustizia
italiana. Una storia fatta di violenza istituzionale, di morte, di
coperture, di silenzi, di indifferenza, di opacità ma allo stesso tempo
di determinazione, di forza morale, di rottura del muro della reticenza.
Verità processuale e verità storica si stanno lentamente approssimando
nonostante le umiliazioni e le dichiarazioni di quei politici che hanno
urlato nel tempo una verità dogmatica e stereotipata.
Oggi, di fronte
alla confessione di uno dei carabinieri che ha ammesso le violenze sul
corpo di Stefano, sanno di ridicolo e tragico quelle frasi che si sono
sentite nell’etere e lette sui social. C’è chi disse: «É morto perché
era anoressico» (Carlo Giovanardi), chi chiedeva alla famiglia di
Stefano «dove era quando lui si drogava» (Maurizio Gasparri), chi
affermava che Ilaria Cucchi «mi fa schifo» (Matteo Salvini).
A nove
anni dalla morte di Stefano Cucchi ci sono tre parole, di cui una
composta, che vengono esaltate da questa storia: empatia, spirito di
corpo, legalità.
Da alcune settimane il bellissimo film di Alessio
Cremonini Sulla mia pelle, delicato ma rigoroso allo stesso tempo, sta
riempiendo le sale cinematografiche, le piazze, le università.
Gruppi
di persone organizzano visioni comunitarie in luoghi pubblici e
privati. Ragazzi e ragazze, anche molto giovani, vedono il film e
restano senza parole, immedesimandosi in Stefano e in sua sorella
Ilaria. L’empatia è un motore che ha una forza dirompente. Favorisce
processi di indignazione. Ha la capacità di trasformarsi in valanga.
Stefano Cucchi è sentito come un amico o un fratello nei licei, nelle
università, nelle palestre e negli stadi. Ilaria è diventata una sorella
di tutti quelli che vogliono giustizia, che credono che non si possa
morire ammazzati, pestati a sangue, in una camera di sicurezza delle
forze dell’ordine.
Non tutti però sono Stefano. Non tutte però sono
Ilaria. Non sempre l’empatia porta a giustizia. In questo caso invece
sta accadendo un fatto straordinario, ossia la giustizia (e ne siamo
grati alla procura di Roma) si è messa al servizio delle vittime di
tortura. Accade raramente. Anche perché spesso a vincere è lo spirito di
corpo, primo nemico della verità.
Ieri, con la confessione di uno
dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, si è definitivamente rotto lo
spirito di corpo nell’Arma. I fatti di violenza o di tortura avvengono
molto spesso in circostanze tali per cui gli unici testimoni possibili
sono altri poliziotti o carabinieri. Solo se si rompe il vincolo di
colleganza, tanto più quando la vittima del pestaggio muore, la verità
storica potrà uscire fuori.
Ma affinché lo spirito di corpo si
incrini ci vogliono messaggi inequivocabili di trasparenza da parte dei
vertici delle forze di Polizia, ci vuole la rottura dell’indifferenza da
parte dell’opinione pubblica (quell’indifferenza che ha fatto chiudere
gli occhi a quei tanti funzionari che hanno fatto finta di non vedere il
volto tumefatto di Stefano che stava morendo di dolore), ci vogliono
sindacati di Polizia che caccino i loro iscritti infedeli alla
Costituzione e alla divisa indossata, ci vogliono procuratori che non
guardino in faccia nessuno, ci vogliono governanti e politici che non
siano ambigui nei loro messaggi di legalità.
La terza parola è
legalità. La legalità è una. É inammissibile una legalità doppia. Non
esistono persone immuni dalla legge. La legge non è un totem, può ben
essere criticata. La legalità comprende in sé la critica alla legalità.
Una cosa però non è accettabile, ossia che la legalità sia mitizzata,
esaltata e applicata a senso unico.
Caserme di Polizia e carceri sono
i luoghi dove più di altri dovrebbe essere rispettata la legge. Non si
può nel nome della legge violarla impunemente.
La famiglia di Stefano
Cucchi ha creduto fino in fondo nella legge, si è affidata ai giudici e
alle istituzioni, si è mossa nel solco della legalità. Viceversa,
coloro che hanno detto che per principio erano dalla parte dei
carabinieri hanno manifestato una cultura che disprezza la legalità. La
legalità si può criticare, ma è una sia per lor signori che per tutti
gli altri.
*Presidente di Antigone
Il Fatto 12.10.18
Intervista
“Ora le scuse di Salvini, La Russa, Giovanardi”
La sorella Ilaria - “Le aspetto da tutti quelli che hanno insultato negando la verità che sosteniamo da sempre”
di Silvia D’Onghia
“La
Russa, Giovanardi, l’attuale ministro dell’Interno, il sindacalista
della Lega Tonelli”. Non è un elenco del telefono, ma quello delle
persone che dovrebbero mettersi in fila per chiedere scusa. Nel giorno
in cui il processo per la morte di suo fratello è a una decisiva svolta –
dopo “appena nove anni” – Ilaria Cucchi passa la giornata tra telefono,
microfoni e telecamere. Era da molto che aspettava questo momento e,
anche se sa che la strada per arrivare alla verità non si è per niente
conclusa, può portare a casa, da mamma Rita e papà Giovanni, un
risultato importante.
Ilaria Cucchi, chi dovrebbe chiedere scusa?
Tutti
quelli che in questi anni hanno insultato Stefano, me e la mia
famiglia, che hanno voluto negare quella verità che sosteniamo fin dal
principio e che oggi è entrata in aula dopo nove anni di battaglie.
Facciamo i nomi?
Ignazio
La Russa, all’epoca ministro della Difesa, che appena venne fuori il
‘caso Cucchi’ si affrettò a difendere l’Arma dei carabinieri. Carlo
Giovanardi, secondo il quale mio fratello era solo un povero spacciatore
che sarebbe morto non per le violenze ma di inedia e di sciopero della
fame. Il sindacalista della polizia e leghista Gianni Tonelli, che parlò
di ‘vita dissoluta per le quali si pagano le conseguenze’. E poi
l’attuale ministro dell’Interno.
Matteo Salvini.
Non lo nomino neanche.
Non si è scusato per aver detto che un suo post faceva “schifo”, ma ha invitato lei e la sua famiglia al Viminale.
Adesso ha detto che mi riceverà: non mi interessa proprio.
E l’attuale ministra della Difesa, Elisabetta Trenta? Anche lei dovrebbe scusarsi?
No,
e di che? Ha annunciato che vuole incontrarmi: sarò lieta di farlo. Io,
i miei genitori e il mio avvocato la vogliamo ringraziare.
Dagli
atti viene fuori un’annotazione di servizio prodotta dal carabiniere
Francesco Tedesco e poi sparita. All’epoca quale fu l’atteggiamento dei
vertici dell’Arma?
Il comandante provinciale, Vittorio Tomasone (oggi
generale di corpo d’armata, ndr) telefonò a casa di mia madre per farle
le condoglianze e per dirle che avevano fatto le loro verifiche
interne, dalle quali sarebbe emerso che i carabinieri non avevano alcuna
responsabilità nella morte di suo figlio. Mentre oggi sappiamo di una
riunione collegiale con le persone interessate e sappiamo che fu
quantomeno modificata una annotazione di servizio.
Questo non significa che i vertici sapessero, però.
No,
certo. Ma sono sicura che la Procura di Roma vorrà andare avanti, per
stabilire – o escludere – che qualcun altro sapesse cosa subì mio
fratello in quella caserma.
Si aspettava una svolta come questa?
Ci
speravo. Io e la mia famiglia sono nove anni che combattiamo, abbiamo
sempre saputo la verità e finalmente ieri è entrata anche in un’aula di
giustizia.
La Stampa 12.10.18
Caso Cucchi, la famiglia primo argine nella tutela dell’interesse pubblico
di Giovanni De Luna
«Il
muro è crollato». La composta esultanza di Ilaria Cucchi si è espressa
in una frase di straordinaria efficacia. I muri, soprattutto quelli che
nascondono il potere, sono la patologia della democrazia. In passato
l’Italia ha pagato un prezzo altissimo all’opacità delle istituzioni,
alla mancanza di trasparenza e a un «segreto di Stato» alla cui ombra
restavano impunite le stragi e insabbiati i processi. Ma proprio allora,
alla fine degli Anni 70, direttamente dalla società civile, era
scattata una reazione che oggi trova nell’azione della famiglia Cucchi
il suo esito più confortante; nell’inerzia dei partiti, fuori dagli
schieramenti ideologici, e proprio per questo estremamente innovativa
nel panorama italiano, nacque una forma di mobilitazione che proprio
nelle famiglie aveva il suo perno. Famiglie spinte da motivazioni
affettive, ma con un’azione collettiva fondata su valori piuttosto che
su interessi utilitaristici e con lo scopo di mostrare a tutta la
collettività che chiedere giustizia per i loro cari non era solo una
faccenda privata. Un «familismo morale» che fu in grado di costruire una
«rete» al cui interno il dolore privato si trasformò nella tutela
dell’interesse pubblico alla verità e alla giustizia, l’affettività si
intrecciò con la cittadinanza, i sentimenti con la ragione. Nove anni è
durata la battaglia di Ilaria Cucchi per avere giustizia per il
fratello. Così come per anni si sono battute le associazioni dei
familiari delle vittime delle stragi (Piazza Fontana, Piazza della
Loggia, Bologna, Ustica, etc…) per sconfiggere depistaggi,
manipolazioni, complicità istituzionali. Ilaria Cucchi non ha voluto
trasformare suo fratello in un eroe. Ha rifiutato l’icona della purezza
del martire per mostrarne anche le fragilità, gli aspetti meno
edificanti; pur di far emergere la verità. Oggi, dopo nove anni,
l’omertà si è spezzata. Un carabiniere ha confermato che furono altri
carabinieri ad uccidere Stefano e altri carabinieri ancora si
adoperarono per cancellare il delitto.
Nove anni ci sono voluti
affinché il nostro ministro dell’Interno possa avere oggi la possibilità
di riconoscere nell’impegno dei familiari di Stefano Cucchi non un
attentato alla rispettabilità dell’Arma dei Carabinieri, ma il segno
della vitalità della nostra democrazia. I rischi di una deriva
autoritaria del sistema politico sono drammaticamente racchiusi nelle
pulsioni razziste e xenofobe che sono state liberate nel corpo sociale,
nello scatenarsi di egoismi carichi di rancore, nelle intemperanze di
chi cerca ossessivamente capri espiatori da immolare. Ma sono rischi che
una democrazia matura può controllare agevolmente. A patto che le sue
istituzioni, soprattutto quelle a cui lo Stato affida il monopolio
legale della violenza, siano consapevoli del loro ruolo di presidio
della libertà di tutti; se si dovesse incrinare la tenuta democratica di
chi detiene il potere di usare la forza (non solo i corpi di polizia,
ma anche l’esercito e la magistratura) il «familismo morale» sarebbe un
argine molto fragile, destinato ad essere travolto facilmente.
Corriere 12.10.18
La menzogna di stato
Per nove anni a Stefano Cucchi e alla sua famiglia è stata negata la democrazia. Poi, ieri, il muro di omertà è caduto
di Ezio Mauro
Vestivano
la divisa, portavano le stellette, erano due carabinieri, dentro una
caserma: e hanno pestato a sangue Stefano Cucchi, gettandolo a terra,
per poi colpirlo con un calcio in faccia.
Adesso lo sappiamo, a
distanza di nove anni dai fatti. La lunga battaglia solitaria di Ilaria,
la sorella del giovane morto una settimana dopo l’arresto, è finalmente
riuscita a rompere il muro di silenzio, di omertà, di ricatti e di
paura che ha avviluppato per un decennio quella vicenda con una falsa
verità, ostinatamente, contro ogni evidenza. Perché il corpo di Stefano
Cucchi, quel volto tumefatto e pieno di lividi per i colpi ricevuti, era
una denuncia che non si riusciva a nascondere.
Oggi ci troviamo di
fronte contemporaneamente una verità tardiva, e una vergogna di Stato
durata troppo a lungo, grazie a infinite complicità, a connivenze, a
correità.
A un senso dello Stato che non è sentimento ma solo
affiliazione d’apparato, e non cresce dentro la coscienza democratica e
nel pieno rispetto della legge e dei diritti del cittadino, chiunque
egli sia, naturalmente anche in manette.
continua a pagina 34
segue dalla prima pagina
Al
contrario. Perché è lo Stato democratico che ha peccato davanti al
cittadino Stefano Cucchi, arrestato per spaccio di droga quel giorno di
ottobre del 2009, quando è nato un diverbio perché lui non voleva
collaborare con la perquisizione personale e la fotosegnalazione, e due
carabinieri lo prendono a calci e pugni. Credono di poter fare quello
che vogliono, perché sono in uno spazio protetto, perché lui è nelle
loro mani, perché nessuno lo saprà, perché lui è un deviante e loro sono
lo Stato, perché hanno il potere, dunque possono abusarne: perché è già
successo, la storia recente d’Italia lo sa, e purtroppo loro sanno che
troppo spesso è una storia di impunità.
Ma questa volta c’è
l’ostinazione di una sorella, che espone quelle fotografie del cadavere
di Stefano, le trasforma in un’immagine che ci perseguita, che non può
lasciarci tranquilli. Nonostante quei lividi sul volto, la sentenza
incredibile di primo grado parla di «malnutrizione ». Comincia la
rincorsa nei tribunali, la gara contro la prescrizione, gli agenti di
custodia, i medici, finché nel 2015 si riaprono le indagini. E ieri, la
svolta decisiva. Per la prima volta uno dei carabinieri imputati di
omicidio preterintenzionale nel processo- bis ha confessato di aver
assistito al pestaggio di Cucchi, ha raccontato tutti i particolari e ha
chiamato in causa con nomi e cognomi i suoi due colleghi, che hanno
assalito l’arrestato, prima con uno schiaffo violento sul volto, poi con
una serie di spintoni fino a fargli perdere l’equilibrio, quindi con un
calcio con la punta del piede nell’ano.
Il carabiniere cerca di
fermare i suoi colleghi quando colpiscono Cucchi a terra, con un calcio
in faccia, ma inutilmente. Quando riferisce ciò che ha visto al
maresciallo suo superiore, cominciano le manovre di depistaggio: viene
invitato a dire ai magistrati che Cucchi stava bene e che non era
successo niente, dunque a nascondere tutto quello che aveva visto e a
tacere. Il carabiniere scrive però una relazione di servizio per i suoi
superiori e per la Procura, in cui annota i fatti di cui è stato
testimone, così come si sono svolti. Quel documento sparisce, e non
arriverà mai negli uffici giudiziari. Qualcuno lo ha intercettato e ha
impedito che un testimone del pestaggio di Stefano Cucchi portasse la
sua voce davanti alla magistratura. Per anni questa “confisca” ha
funzionato, nascondendo gli abusi, confinando la verità nel buio,
lasciando senza nome quei lividi sul volto di Cucchi.
E proprio da
quel documento sparito è nata la svolta. Perché a giugno il carabiniere
ha presentato una denuncia e, quando la Procura ha aperto un
procedimento contro ignoti, ha raccontato il pestaggio. Ieri la sua
deposizione è stata letta in aula, davanti a Ilaria Cucchi e ai suoi
genitori, che improvvisamente hanno visto rompersi la catena d’omertà
che aveva retto per nove anni. « Il muro è stato abbattuto — ha detto
Ilaria — ora saranno in tanti a dover chiedere scusa a Stefano e alla
sua famiglia ». Il ministro dell’Interno Salvini (che in passato aveva
polemizzato con Ilaria Cucchi: « Quel suo post mi fa schifo») ha
ripetuto ieri che «sorella e parenti sono benvenuti al Viminale»,
ricordando che «eventuali reati o errori di pochissimi uomini in divisa
devono essere puniti con la massima severità, ma questo non può mettere
in discussione la professionalità e l’eroismo quotidiano di centinaia di
migliaia di ragazze e ragazzi delle forze dell’ordine». «Quel che è
accaduto a Cucchi era inaccettabile allora e lo è ancor di più oggi», ha
detto più nettamente la ministra della Difesa Trenta.
Forse, tra i
titoli di merito delle forze dell’ordine, Salvini avrebbe dovuto
ricordare il coraggio del carabiniere che — da solo — ha voluto rompere
l’omertà e vincere l’inerzia dei tempi, consentendo alla verità di far
luce sulla vergogna degli apparati per la morte di Cucchi dopo nove
anni. Nove anni di democrazia negata a un cittadino morto innocente,
alla sua famiglia, alla comunità tenuta nell’inganno di Stato.
Repubblica 12.10.18
Le mosse dei pm
Intimidazioni e documenti falsi l’inchiesta spaventa i vertici dell’Arma
di Carlo Bonini
ROMA
C’è un ramo dell’inchiesta del pm Giovanni Musarò sull’omicidio di
Stefano Cucchi che cammina veloce e promette di non fermarsi. Due
distinti fascicoli per falso ideologico (già quattro i carabinieri
indagati) e soppressione di documento pubblico. Che interpellano
direttamente l’Arma e le sue gerarchie. E che intendono dare risposta a
quella che, dopo la confessione di Francesco Tedesco, diventa ora la
domanda chiave di questa vicenda. Chi ha sequestrato la verità per nove
lunghissimi anni? Chi ne aveva e ne ha ancora paura?
È un fatto che
la mattina del 9 luglio scorso, quando Francesco Tedesco si risolve
finalmente a sedersi di fronte al pm Musarò per scrivere la parola
definitiva sulla notte del 15 ottobre 2009, venga raggiunto da insistite
telefonate. Il Comandante del Nucleo carabinieri di Brindisi vuole che,
immediatamente, si presenti in caserma dove deve essergli notificato il
procedimento disciplinare “di stato” (quello che comporta la
destituzione). È una mossa giustificata, formalmente, dalla circostanza
che Tedesco, tre mesi prima, si è visto confermare dalla Cassazione una
sentenza di prescrizione del reato di abuso di autorità consumato su
Cucchi (uno di quelli che gli erano stati contestati nel processo
principale per omicidio e che era stato appunto dichiarato prescritto in
udienza preliminare). È una mossa inusuale, perché prassi e logica
vogliono che i procedimenti disciplinari non vengano avviati prima che
l’accertamento della verità in sede processuale sia concluso (e il
processo Cucchi è ancora in corso). È sorprendente, soprattutto, per la
coincidenza con un interrogatorio di cui, sulla carta, in teoria nessuno
deve sapere. Insomma, è una mossa che ha il sapore dell’intimidazione. A
maggior ragione perché si ripete in settembre, in coincidenza con il
secondo interrogatorio di fronte a Musarò, quando a Tedesco viene
comunicato che la sua istanza di sospensione del procedimento
disciplinare è stata rigettata.
Perché tanta improvvisa solerzia?
Ha ragione l’avvocato di Tedesco, Eugenio Pini, a rimanere stupito.
Al
punto da coltivare la speranza che l’Arma ora possa riconsiderare la
posizione del suo carabiniere. Valutare «il coraggio» e la «lealtà del
suo gesto», congelando tanta severità. E tuttavia, è evidente che l’Arma
e il suo Comando Generale stiano passando ore molto, ma molto
complicate. E che quella mossa ne sia la spia.
Sono infatti solo e
soltanto dei carabinieri — e si tratterà ora di stabilirne l’identità,
il numero, la posizione nella scala gerarchica — i falsi che dovevano
far deragliare la ricerca della verità. Almeno sette. Furono falsificati
il verbale di arresto e perquisizione di Cucchi. Fu falsificato il
registro del fotosegnalamento della caserma Casilina dove Stefano era
stato pestato. Furono falsificate le due annotazioni della caserma di
Tor Sapienza dove Stefano era stato trasferito per trascorrere la notte
in attesa del processo per direttissima (vennero taciuti gli evidenti
segni del pestaggio appena subito). Furono falsificati non solo il
registro che custodiva la nota di servizio con cui, il 22 ottobre 2009,
giorno della morte di Stefano, Tedesco aveva informato per iscritto la
propria scala gerarchica di quanto accaduto davvero, ma anche e
soprattutto la sequenza informatica dei protocolli interni all’Arma che,
a posteriori, avrebbe potuto consentire di risalire non solo
all’esistenza di quella “nota”, ma anche di accertarne la sparizione.
Sette
falsi macrospici. Che rendono difficile credere siano stati cucinati in
solitudine da un maresciallo (Roberto Mandolini, comandante all’epoca
dei fatti della caserma Appia) e quattro appuntati. E che lasciano
immaginare complicità altre, e più alte in grado. Giuliana Tedesco,
sorella del carabiniere che oggi confessa, ha raccontato a verbale: «Nel
gennaio del 2016, incontrai nello studio dell’avvocato di mio fratello,
il maresciallo Mandolini insieme ai carabinieri Raffaele D’Alessandro e
Alessio Di Bernardo». D’Alessandro e Tedesco hanno una violenta lite,
perché il primo pretende che il secondo «continui a raccontare cazzate».
«A France’ — dice — ti ricordi che Cucchi durante la perquisizione
continuò a dare testate e calci contro l’armadio?».
Tedesco dà in escandescenze.
Ricorda
ora la sorella: «Intervenne il maresciallo Roberto Mandolini, che si
rivolse in modo paternalistico verso mio fratello dicendogli di stare
tranquillo, perché tutto si sarebbe risolto» .
Già, “tutto si sarebbe
risolto”. Che era poi l’aria che aveva respirato anche il maresciallo
Emilio Buccieri (all’epoca dei fatti vicecomandante della stazione
Appia) quando, nel novembre 2009, era stato convocato a una riunione
negli uffici del Comando provinciale di Roma. Racconta ai pm: «Il
comandante provinciale, all’epoca il colonnello Tommasone, ci
sensibilizzò sulla gestione del personale, perché in quel periodo c’era
stata non solo la vicenda Cucchi ma anche quella Marrazzo. L’Arma era
esposta mediaticamente e in nostra difesa intervenne l’allora ministro
La Russa». Già, la verità avrebbe avuto un prezzo molto alto in
quell’ottobre 2009. Dunque, chi decise che non potesse essere pagato?
Repubblica 12.10.18
Il boicottaggio dei medici all’aborto con la pillola
Ru486 mai usata in decine di ospedali. “I ginecologi scelgono la chirurgia perché più semplice”
di Michele Bocci
Dallo
zero al 40, 60, 80 per cento nell’arco di poche decine di chilometri.
Da una ginecologia in cui la pillola abortiva non viene nemmeno presa in
considerazione a un’altra dove l’interruzione di gravidanza
farmacologica supera di gran lunga quella chirurgica. La schizofrenia
sanitaria del nostro Paese raggiunge livelli altissimi quando si tratta
della Ru486, il farmaco più osteggiato d’Italia nel primo decennio del
2000. Oggi è entrato nella pratica clinica quotidiana di una parte degli
ospedali, mentre in un’altra resta del tutto inutilizzato, soprattutto
per volontà dei ginecologi.
A leggere i dati emerge chiaramente che
non possono essere motivi clinici a spingere così tanti reparti a non
prescrivere, o prescrivere, pochissimo la Ru486. La sua sicurezza ed
efficacia, infatti, sono attestate proprio da quello che succede nelle
molte unità operative che somministrano il medicinale senza problemi a
centinaia di donne da quasi dieci anni.
La storia dell’ingresso della
Ru486 nel sistema sanitario italiano è molto travagliata. Nel 2005
partì la Toscana con l’acquisto del medicinale all’estero, mentre il
Piemonte aveva già in piedi una sorta di sperimentazione. Dal 2009 è
arrivato finalmente il via libera da parte dell’Aifa, l’agenzia del
farmaco. A quei tempi i suoi detrattori, vari esponenti politici del
centrodestra e associazioni antiabortiste, sostenevano che la
possibilità di usare una pillola avrebbe “semplificato” l’aborto,
rendendolo più frequente. Previsione sbagliatissima. In questi anni il
numero delle interruzioni volontarie di gravidanza è sceso in modo
costante, mentre con altrettanta regolarità è cresciuto l’utilizzo della
pillola abortiva. Anche una Regione come la Lombardia, che ha sempre
visto questo metodo con un certo sospetto, ora pensa di estenderne
l’utilizzo, che al momento riguarda poco più dell’ 8% degli aborti.
L’assessore Giulio Gallera annuncia un tavolo che potrebbe portare a una
promozione della Ru486: «Non c’era casistica — spiega — Avevamo dubbi
sulla sicurezza, che sono stati sciolti. Si è anche visto che dopo il
farmaco ci sono meno problemi ad avere un figlio rispetto alla
chirurgia».
Resta il mistero del motivo per cui molti ospedali non
usano, o usano pochissimo, il farmaco. C’è chi adombra un boicottaggio
per motivi etici, da parte di primari obiettori che vogliono rendere le
cose più difficili alle donne che abortiscono nei loro reparti. Ma gli
interessati negano, argomentando che gli ostacoli sono soprattutto
organizzativi. Vito Trojano, vicepresidente dell’associazione di
ginecologi Sigo, dice che « sulla Ru486 c’è ancora grande
disinformazione, anche tra i professionisti, non abbastanza formati » ,
cosa un po’ curiosa a 9 anni dall’introduzione nel sistema sanitario.
Trojano è obiettore, quindi non fa aborti, ma teorizza che « spesso sono
le donne a chiedere il metodo chirurgico perché è più rapido, non
richiede di tornare in ospedale». Di parere opposto una ginecologa che
invece usa molto la Ru486: secondo lei «alcuni colleghi temono che la
pillola sottragga loro potere. Perché porta ad un un’autonomizzazione
eccessiva delle donne, sfumando il ruolo del medico».
Il dottor
Massimo Srebot è stato il primo a utilizzare questo farmaco, comprandolo
in Francia per il suo reparto a Pontedera ( Pisa). È stato minacciato
da antiabortisti vari. La sua idea su chi non usa la Ru486 è netta: «
Probabilmente ci sono ginecologi ai quali non piace la prospettiva di
guardare negli occhi una donna quando le consegnano la pillola. Per
certi versi l’intervento chirurgico in anestesia generale è più
semplice, perché impersonale. Così preferiscono quello».
Il Fatto 12.10.18
Firenze, 4 anni e 8 mesi al carabiniere stupratore
Condanna
per il militare che violentò due studentesse americane dopo averle
riaccompagnate a casa. Rinviato a giudizio il suo collega
di Davide Vecchi
Condannato
a 4 anni e 8 mesi di carcere Marco Camuffo, carabiniere 48enne che
insieme al commilitone Pietro Costa di 33 anni, accompagnò a casa con
l’auto di servizio e poi violentò due studentesse americane a Firenze la
notte tra il 6 e il 7 settembre 2017.
La sentenza è stata emessa
ieri dal giudice per le indagini preliminari, Fabio Frangini. Camuffo ha
scelto il rito abbreviato e ieri è stato condannato. A suo carico il
pubblico ministero, Ornella Galeotti, aveva chiesto una pena di 5 anni e
8 mesi. Costa sarà invece giudicato con rito ordinario: ieri è stato
rinviato a giudizio e il processo per lui si aprirà il 10 maggio 2019.
Secondo
quanto ricostruito dal pm Galeotti e accolto ieri dal gup, la notte del
6 settembre, all’uscita della discoteca Flò di piazzale Michelangelo,
le ragazze, 21enni, erano visibilmente ubriache: tanto che ancora il
mattino successivo il loro tasso alcolico, rilevato con il test dopo
aver denunciato lo stupro, è risultato di 1.59 e 1.68. I due carabinieri
– destituiti dall’Arma il 12 maggio scorso – le hanno fatte salire
“illegittimamente” sull’auto di servizio per accompagnarle a casa e, una
volta arrivati, le hanno seguite nel portone e violentate nell’androne
del palazzo, agendo, fra l’altro – aggiunge l’accusa – in modo
“repentino e inaspettato”.
I due hanno sin da subito ammesso di aver
avuto rapporti sessuali con le ragazze, sostenendo però che le
studentesse fossero consenzienti. Ieri Camuffo ha ribadito questa
versione rendendo dichiarazioni spontanee in aula e, tentando di
alleggerire la sua posizione, ha aggiunto che l’iniziativa di
accompagnarle a casa con l’auto di servizio è stata di Costa, non sua.
I
legali degli ex carabinieri hanno chiesto per Camuffo l’assoluzione e
per Costa il proscioglimento dalle accuse. Dopo una breve camera di
consiglio, il gup ha emesso la sentenza di condanna per il primo e il
rinvio a giudizio per il secondo.
Quando vennero sentiti, nel
settembre 2017, al pm Galeotti dissero a loro discolpa che si erano
“comportati da maschietti”. Che “fu un’occasione di fare sesso, lo
capimmo entrati nell’androne. Tutti sanno che queste americane spesso e
volentieri fanno delle avances”. Lo disse così, l’allora carabiniere
Camuffo durante l’interrogatorio. Messo a verbale. Per lui era normale
anche riaccompagnare a casa due ragazze con la pattuglia mentre era in
servizio. La riteneva “una galanteria”. Certo, concede, “avrei dovuto
avvisare il comandante” che salivano in auto, ma “si è sempre fatto
così, per motivi di sicurezza: perché magari le aggrediscono nel
portone”. Camuffo è stato condannato per averle violentate qualche passo
dopo, nell’androne.
il manifesto 12.10.18
Figli per la patria, gli antiabortisti e il governo amico
Aborto.
Madre-patria, o meglio, Matria: quanto può giocare ancora questa
esaltazione immaginativa nel coprire, agli occhi stessi delle donne, la
violenza del patriarcato?
di Lea Melandri
Il 12 maggio
2013 ci fu la la terza “marcia per la vita”, benedetta dal papa come
«un’occasione di difesa della vita e di lotta contro l’ingiustizia della
Legge 194». Ritornava l’ossessione della cultura maschile più
conservatrice, fatta propria purtroppo anche dalle donne. Non si osava
toccare la legge, ma si raccoglievano firme per provvedimenti a livello
europeo. Non si diceva che le donne sono delle assassine, ma lo si
lasciava intendere.
Ci voleva la svolta operata dal nuovo governo
perché tornassero in campo, arroganti, vigorose e soprattutto più
esplicite che in passato, le voci degli antiabortisti, dei difensori
della famiglia “naturale” e della funzione materna della donna. A
legittimarle, come se non bastassero i ruoli istituzionali di alcuni
protagonisti di questa ondata di fustigatori della libertà femminile e
delle nuove forme che ha preso la vita intima, è intervenuto ancora una
volta il Papa nel discorso ai fedeli il 10 ottobre in piazza San Pietro:
«Interrompere una gravidanza è come fare fuori uno (…) è come affittare
un sicario per risolvere un problema».
Le dichiarazioni del ministro
della Famiglia, Fontana, come quelle del senatore della Lega, Pillon,
promotore del Ddl sull’”affido condiviso”, attualmente in esame al
senato, sono note, così come la mozione approvata dal consiglio di
amministrazione di Verona «per la prevenzione dell’aborto», con cui si
decide di finanziare «le associazioni cattoliche che hanno l’obiettivo
di promuovere iniziative contro l’aborto».
Se la sequenza, pressoché
quotidiana, dei femminicidi ha potuto ancora una volta passare in
cronaca ed eclissare il rilievo culturale e politico che ha la violenza
maschile contro le donne, rispetto ad altri fenomeni visti come
“emergenze” – il respingimento dei migranti, l’odio per lo straniero, le
aggressioni di matrice fascista – la rapidità con cui si sta allargando
in Italia, come in altri Stati, la campagna contro l’aborto non può far
passare in secondo piano i legami che ci sono sempre stati tra il
sessismo, il razzismo, le ideologie di patria e nazione.
Dovevano
bastare i Fertily Day e i Family Day a far capire che in una società
dove è in crescita la presenza di lingue, culture diverse, insieme alla
caduta di pregiudizi, convinzioni e leggi del passato, crescono anche
paure, fantasie di spossessamento, perdita di tratti identitari, sia
pure mitizzati. Lo spettro che si aggira per l’Europa e che minaccia di
far arretrare i diritti più elementari di democrazia e rispetto umano, è
la crisi demografica – quella che guarda alla “integrità della
stirpe”-, e, dietro di essa, la libertà delle donne di decidere sulla
propria vita e le proprie scelte, a partire da quello che è stato per
secoli l’ “obbligo procreativo”.
Con la rozzezza che è ormai delle
più alte cariche dello Stato, così si esprime il senatore Pillon in una
intervista alla Stampa: «Via l’aborto, prima o poi in Italia faremo come
in Argentina (…) sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci
estinguiamo come italiani». Più minaccioso di lui è stato il ministro
Fontana che sabato 13 ottobre sarà a Milano per la manifestazione No194,
insieme a Forza Nuova: «Le Famiglie gay non esistono. Più figli, meno
aborti».
Se si aggiunge il Ddl Pillon sull’ “affido condiviso”, che
ha come obiettivo evidente la volontà di mettere un argine ai
cambiamenti interni alla famiglia – separazioni, divorzi, coppie dello
stesso sesso, unioni civili, maternità surrogate, ecc.- il quadro è
completo. Il dominio del sesso maschile, in quanto atto fondativo della
politica e di ogni civiltà finora conosciuta, è anche il fulcro intorno a
cui si muovono tutti i governi che si appellano all’ “ordine” e alla
“sicurezza” per imporre leggi e sistemi autoritari.
Non sono mancate
finora risposte forti da parte dei movimenti delle donne e altre
manifestazioni sono in preparazione fin da ora, come si è visto
dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno pochi giorni fa a Bologna.
Ma non possiamo fare finta che questo ritorno in forza e sfrontatezza
del peggiore machismo non goda del sostegno di tante donne. Le grandi
manifestazioni contro Trump e contro Bolsonaro, e in Argentina per
l’aborto, dicono che consapevolezze e libertà acquisite possono contare
oggi su una forza organizzativa estesa, tenace nel ricomparire dopo ogni
sconfitta.
Ma il consenso che incontra oggi la violenza degli
uomini, comunque lo si voglia chiamare – complicità, adattamento,
ignoranza- dice, per un altro verso, che è necessario porsi degli
interrogativi. Per quanto sia amaro riconoscerlo, l’emancipazione sembra
aver reso più evidente che le donne hanno incorporato la
rappresentazione maschile del mondo e che le pratiche di liberazione dai
modelli imposti ha ancora molta strada da fare.
Di fronte a una
campagna di odio che dilaga nel sentire comune, legittimata dall’alto,
il rischio di attestarsi su posizioni solo protestatarie e di lotta
induce alla semplificazione di fenomeni, come il nazionalismo, gli
arroccamenti identitari, senza riuscire a vederne l’ambiguità. La
nascita della nazione rimanda senza dubbio alla genealogia patriarcale,
ma è anche richiamo a una “coesione organica”, a una sorta di unità
mistica, che ha a che fare col corpo materno.
É madre-patria, o,
meglio ancora, matria: una creazione maschile che ha avuto bisogno di
incarnarsi, sia pure simbolicamente , in figure di femminili.
Quanto
può giocare ancora questa esaltazione immaginativa nel coprire, agli
occhi stessi delle donne, la violenza del patriarcato?
Corriere 12.10.18
L’attore ebreo e la reporter araba: il matrimonio che turba Israele
Sposi in segreto, minacce dagli estremisti
di Davide Frattini
GERUSALEMME Ha imparato l’arabo in famiglia — famglia
— padre di origine marocchina, madre yemenita — e ha dovuto
perfezionare la parlata palestinese quando è stato arruolato nel
Duvdevan, l’unità speciale che opera sotto copertura in Cisgiordania.
Gli stessi raid che ha interpretato davanti alle telecamere nella serie
tv Fauda .
L’attore Tzachi Halevy ha voluto mantenere clandestina
anche l’ultima missione: sposare la giornalista televisiva Lucy Aharish.
Lui ebreo, lei musulmana. La cerimonia di mercoledì sera è rimasta
segreta fino a dopo il sì, perché la coppia immaginava quel che è
successo all’annuncio pubblico: proteste della destra al governo in
Israele, rischio di minacce tra gli estremisti arabi. Tzachi e Lucy sono
stati fidanzati per quattro anni, lo sapevano solo pochi amici e i
parenti, adesso rappresentano le prime celebrità israeliane a formare
una famiglia, l’unione — non hanno alternativa — è civile. La notizia è
stata divulgata dal presentatore Guy Pines nel suo programma serale, uno
dei primi condotti da Lucy. Anche la rivelazione è stata gestita
attraverso persone fidate.
A Halevy i deputati o ministri
conservatori non sembrano perdonare di aver prima incarnato per gli
spettatori locali e in tutto il mondo (su Netflix) un massiccio a volte
brutale ufficiale del Duvdevan — che in ebraico significa ciliegia — e
poi di aver sputato il nocciolo nazionalista sposando
un’araba-israeliana. Che è stata accusata via Twitter dal deputato Oren
Hazan di «aver sedotto un ebreo»: «Sono sicuro che il suo obiettivo non
sia danneggiare la nostra nazione e prevenire la progenie ebrea dal
prolungare la dinastia. Quindi è benvenuta: la invito a convertirsi». A
Halevy dice di volersi «islamizzare» e avverte tutti e due: «Basta con
l’assimilazione».
Anche Aryeh Deri, ministro dell’Interno e leader
del partito religioso Shas, incita la giornalista alla conversione: «Non
dobbiamo incoraggiare queste unioni nonostante l’amore. I loro figli
avranno problemi in Israele. L’assimilazione ci mette in pericolo, sta
consumando il nostro popolo: nello Stato di New York ormai vivono meno
ebrei che subito dopo l’Olocausto». Hazan può essere solo un
parlamentare in cerca di notorietà o che prova a far dimenticare agli
elettori perché ricordano il suo nome: ha gestito casinò in Bulgaria ed è
sospettato — lui smentisce — di aver fatto girare prostitute e cocaina
assieme alla roulette. Ma le sue frasi sono condannate anche da colleghi
nella coalizione al potere («Disgustoso, in questo giorno la coppia si
ricordi solo delle benedizioni e degli auguri», dice Meirav Ben Ari di
Kulanu) e sono viste come il segno di un razzismo radicato: «Rivelano il
lato oscuro del Likud al governo», commenta Yoel Hasson, mentre Shelly
Yachimovich condanna i fanatici del «sangue puro».
Lucy Aharish è
stata la prima araba israeliana a condurre un telegiornale all’ora di
punta. I genitori sono originari di Nazareth, lei è cresciuta nel Negev,
dove il partito del premier Netanyahu ha sempre raccolto consensi. Si è
ritrovata a essere «una musulmana di destra — ha raccontato —, tifavo
perfino il Beitar Gerusalemme», i cui tifosi ultranazionalisti e
razzisti non vogliono permettere a calciatori arabi di giocare. Da
allora dice di essersi spostata a sinistra.
Come Lior Raz, l’ideatore
e protagonista di Fauda, Tzachi Halevy è stato arruolato nelle forze
speciali proprio perché parlava già l’arabo come lingua madre. E in
arabo canta con il suo gruppo musicale.
Corriere 12.10.18
«Negazionisti alla Camera» Lo Stato ebraico solleva il caso
La
comunità ebraica di Roma insorge e l’ambasciatore israeliano Ofer Sachs
consegna a una nota durissima il suo disappunto dopo l’audizione, in
Commissione Esteri della Camera, di membri di un Istituto di studi
iraniano accusato di ispirarsi alle tesi che negano la Shoah. «Un
episodio inaccettabile», lo ha definito Sachs, secondo il quale «il
Parlamento italiano simbolo della democrazia del Paese non può ospitare
chi promuove idee negazioniste, antisemite e antisioniste». Un «fatto di
una gravità inaudita» per la Comunità ebraica.
La presidente della
Commissione Esteri Marta Grande (M5S) difende la scelta, precisando che
le audizioni hanno «finalità esclusivamente conoscitive» e «in nessun
modo equivalgono a prese di posizione passive a favore delle tesi di chi
è audito». Non è affatto dello stesso parere la vicepresidente della
Camera, Mara Carfagna, che parla di «una grave sottovalutazione»: «Penso
che la commissione Esteri non avrebbe dovuto dare spazio alcuno agli
esponenti di una organizzazione iraniana che in passato ha già avuto
accenti negazionisti e antisemiti». Anche il vicepremier Matteo Salvini
invita ad una maggiore prudenza: «Da noi vige la separazione dei poteri
ed il Parlamento ha le sue prerogative che naturalmente rispetto. Detto
questo non si scherza sulla Shoah». Nei giorni scorsi alla Camera erano
state approvate cinque mozioni contro l’antisemitismo.
il manifesto 12.10.18
Tra credenze e magie, reti di somiglianze
Antropologia. «Lo sguardo al cielo. Credenze e magie tradizionali» di Giuseppe Colitti, pubblicato da Donzelli
di Claudio Corvino
Negli
anni ’70 del secolo scorso in Italia era forte e diffusa la percezione
che qualcosa, la nostra stessa «cultura nazionale», stesse cambiando:
l’avvento sempre più capillare della tv, l’emigrazione e l’abbandono
delle campagne – ultimi presidi che conservavano i ritmi lenti delle
«culture popolari», ancora orientate ai lavori agricoli e alle stagioni –
sembravano condurre gli italiani verso un mondo diverso, più «moderno»,
migliore. O almeno così sembrava. Così intellettuali, insegnanti,
accademici e tutti coloro che a vario titolo si trovavano a mediare tra
luoghi, culture e generazioni, reagirono a questi mutamenti tentando di
«salvare il salvabile», documentando e registrando quanto di vivo
rimaneva della cultura popolare.
TRA QUESTE FIGURE, tra le più
pregevoli, c’è Giuseppe Colitti che, scegliendo e sbobinando tra le sue
oltre 2000 ore di registrazioni svolte perlopiù nel Cilento, ci offre
oggi un volume davvero interessante, Lo sguardo al cielo. Credenze e
magie tradizionali (Donzelli, pp. 281, euro 30). Qui Colitti non
interroga, non interpreta mai le informazioni e la cultura delle sue
fonti ma dà loro la parola, così che esse diventano i reali protagonisti
dell’affascinante racconto della tradizione cilentana, che è poi quello
della tradizione popolare tout court. Le storie degli informatori non
appaiono mai congelate, ma hanno tutto l’interesse e la vitalità di una
narrazione, più ancora, di un discorso aperto e tuttora in
trasformazione. Leggiamo, ascoltiamo dalla voce dei protagonisti,
tradizioni che si scambiano, si scontrano, si fondono come onde di un
oceano, conservando una loro coerenza di insieme. Pietro Clemente
introducendo il volume, parla perspicacemente di «reti di somiglianze».
SONO
RACCONTI POPOLATI anche da diavoli, streghe, lupi mannari: forme della
paura di memoria preindustriale, oggi scomparse dalle grandi narrazioni
pubbliche o private, sostituite da più moderni personaggi come il
fanatico religioso, il dittatore folle o da altri, di volta in volta
costruiti o indicati dai media o dal populismo di turno. Questo perché
la paura è un’emozione instabile e cangiante, che assume forme diverse a
secondo del contesto e del periodo: il lupo perde il pelo, ma non il
simbolo.
Nelle cinque parti in cui è diviso il volume – Credenze
tradizionali, pratiche e formule magiche, religione tradizionale,
preghiere extracanoniche – il lettore osserva stupefatto quel mondo di
senso che trasuda dai racconti, da quelle confessioni fatte al
ricercatore.
OSSERVATORE, questi, che è ben lontano dai raccoglitori
ottocenteschi o degli inizi del 900 che puntavano il dito verso il mondo
dei «semplici». Giuseppe Colitti è uno di loro: ci racconta cosa faceva
il nonno, la sua famiglia, talvolta lui stesso. Sono tutte storie e
confessioni che, più che informare, sembrano interrogare il lettore
riguardo le sue personali credenze. Risuona e si risveglia così, nel
leggere il libro di Colitti, un mondo di saperi che da poco abbiamo
abbandonato ma che ha ancora nessi e legami profondi con il nostro modo
di pensare e di vivere.
Le cose sono cambiate: cosa possono
raccontarci il vento, un tuono, una tempesta, in un appartamento
termicamente e acusticamente isolato da infissi e solide finestre? E il
buio sarà lo stesso, ora che non è abitato da spiriti dei trapassati o
da streghe? Ecco allora che anche Lo sguardo al cielo non è più lo
stesso perché diverso è l’occhio che lo guarda.
il manifesto 12.10.18
Bauman, rabdomante della modernità liquida
Scaffale. La rivista «Sicurezza e Scienze Sociali» dedica un numero al sociologo e pensatore polacco
Zygmunt Bauman
di Francesco Antonelli
Zygmunt
Bauman è stata una delle figure più rappresentative della sociologia
mondiale in questo primo ventennio del Duemila. Quella metafora della
liquidità con la quale ha saputo leggere con acutezza e profondità le
molteplici conseguenze della globalizzazione sulle persone e sulle
società, lo ha reso famoso presso un pubblico vastissimo. Bauman ha così
mostrato che il compito di quei nuovi «intellettuali interpreti»
(soprattutto i sociologi) di cui aveva analizzato ascesa e persino
necessità già nel 1987, è innanzitutto fornire grandi e comprensibili
quadri di lettura di una realtà che, altrimenti, rischia nella
contemporaneità di essere oscura e completamente sfuggente.
NONOSTANTE
QUESTI indiscutibili meriti o forse a causa di essi, l’opera di Bauman –
in parte come accadde in vita a Georg Simmel, sua grande fonte
d’ispirazione – ha sempre diviso profondamente la comunità scientifica
che in buona sostanza gli ha rimproverato una certa debolezza
metodologica, la mancata produzione di una teoria organica e lo stile
eccessivamente divulgativo. Peccato mortale in un’accademia divisa tra
autoreferenzialità e iper-specializzazione, non in grado di cogliere nel
suo insieme la complessità sociale. A questi attacchi si uniscono oggi
quelli più volgari e poco documentati di alcuni neo-sovranisti che lo
accusano di essere stato, addirittura, un apologeta della
globalizzazione e della postmodernità. Quando, al contrario, Bauman ne è
stato uno dei più attenti critici senza rinunciare, innanzitutto, a
descrivere la realtà così come si presenta.
Che ne sarà quindi
dell’eredità di Bauman? A questa domanda prova a dare una risposta il
numero monografico della rivista Sicurezza e Scienze Sociali (edita da
Franco Angeli), curata da Riccardo Mazzeo, e significativamente
intitolato Zygmunt Bauman. I cancelli dell’acqua. Questa opera si
segnala innanzitutto perché va ad arricchire una paradossalmente scarsa
produzione critica, sia in Italia sia all’estero, sull’opera di Bauman.
Il
secondo merito di questo numero monografico è quello di riunire su una
molteplicità di aspetti dell’opera del sociologo polacco – dalla Shoah
al lavoro, dalla globalizzazione agli intellettuali – le riflessioni di
alcuni dei più autorevoli studiosi italiani di scienze sociali – da
Mauro Magatti a Vanni Codeluppi – molti dei quali, come Benedetto
Vecchi, hanno conosciuto e lavorato con lo stesso Bauman. Allo stesso
tempo, significativa è la presenza dei contributi di più giovani ma non
meno acuti studiosi come Sabina Curti o Vincenzo Romania. Tre sono i
punti fondamentali che, come un filo rosso, attraversano tutti i saggi
raccolti nella rivista. Il primo concerne il permanere o meno di una
condizione di modernità liquida nelle società contemporanee, soprattutto
alla luce di quello che è il tema generale della rivista: il rapporto
tra sicurezza e socialità.
GIÀ BAUMAN, soprattutto nella sua ultima
opera, pubblicata postuma e dedicata alle «retrotopie», sottolineava
l’ingresso delle società occidentali nella gramsciana fase
dell’interregno. Una sorta di caotico guado nel quale il vecchio (in
questo caso rappresentato dalla modernità liquida, cioè dalla fase più
dinamica e dirompente della globalizzazione neo-liberale) si
destruttura, e il nuovo ancora non è nato. I saggi contenuti nel numero
mostrano come questo stato di crisi cronica sia dovuto, soprattutto, a
un approfondimento delle condizioni della modernità liquida ribadendo
così, con il dovuto senso critico, il permanere della fecondità delle
analisi di Bauman.
LA SECONDA QUESTIONE attiene all’impianto
metodologico dell’opera del sociologo polacco: proprio quella che viene
spesso indicata come una debolezza è invece, come argomenta Magatti, una
forza dell’opera di Bauman; che ci sollecita continuamente a essere
curiosi, rabdomanti del mutamento, e orientati a fornire ad un pubblico
più vasto gli strumenti per comprendersi e comprendere il mondo
circostante. Una postura intellettuale di tipo critico del tutto
peculiare e che, come argomenta Luca Corchia nel suo bel saggio, divide
profondamente Bauman da Habermas; canonicamente considerato
l’intellettuale critico (e classico) per eccellenza.
INFINE, IL TERZO
FILO rosso è rintracciabile nella questione del rapporto tra Bauman, la
modernità e la società keynesiano-fordista: qui emerge quella
centralità dell’ambivalenza come categoria interpretativa baumaniana
che, da una parte rivela l’esito totalitario che la modernità ha portato
con sé; e, dall’altra, l’importanza di sicurezze e garanzie
istituzionalizzate, nonché delle politiche redistributive, nello
stabilizzare la vita sociale e individuale di fronte all’incontenibile
dinamismo dell’economia. Un tema di nuovo centrale per determinare, in
positivo o in negativo, l’approdo al quale ci condurrà la lunga fase di
interregno nel quale siamo immersi.
Il Fatto 12.10.18
I neonazi che aiutano i siriani (a casa loro)
“Qui da Assad tutto bene” - Un’Ong promuove il ritorno dei rifugiati dalla Germania
di Michela A. G. Iaccarino
Biondo
e pallido sotto il sole rovente di Siria, il ragazzo con la maglia
grigia, su cui c’è scritto Aha, rassicura parlando con voce piana,
guardando dritto nell’obiettivo: “Rifugiati, potete tornare a casa”.
Sullo sfondo c’è un panorama di rocce e quiete, in primo piano
l’acronimo di tre lettere, Aha: associazione aiuto alternativo, Ong
vicina al German Identitare Bewegung, ala sorella del “movimento
identitario tedesco”. Quello che si batte per l’Europa bianca e
cristiana, per una Germania solo “patria, libertà e tradizione”. La
destra tedesca è tornata in Medio Oriente.
A quasi 60 chilometri da
Damasco, nel villaggio cristiano di Maaloula, in una zona controllata
dalle truppe del presidente Assad, i ragazzi sono arrivati a
testimoniare “la stabilità della regione”. Si rivolgono direttamente ai
profughi in Germania, Europa: possono ricostruire vite, destini e case,
tornare in quella patria che, – dimenticano però di ricordare –, è
diventata tomba per almeno 400 mila persone da quando il conflitto è
cominciato. Queste sono le ultime cifre approssimative Onu, risalgono al
2016 e nessuno ha mai più avuto un numero preciso dopo allora.
Il
primo ragazzo del video di propaganda è Mario Muller, cede la parola al
secondo: stessa maglietta, stesso colore di capelli, stesse spalle
larghe. Stesso messaggio: l’aria di Siria è tranquilla, “il paese ha
bisogno di essere ricostruito dai suoi abitanti”, l’ong dell’ultradestra
tedesca, fondata nell’estate del 2017, è pronta a dare una mano. “Il
nostro obiettivo è portare un contributo dove necessario”. Lo chiamano
“aiuto patriottico”: invitano i loro sostenitori a donare 50 dollari al
mese per “adottare” una famiglia siriana. Nel 2017 hanno raccolto quasi
60mila euro per la barca Defend Europe, che prese il largo solo per
monitorare le Ong che salvavano rifugiati.
“L’obiettivo è aiutare le
persone localmente”. Gli Aha forniranno sussidio finanziario, “ogni euro
speso in Germania per integrazione, aiuti farebbe molto di meglio in
Siria”. Non è la prima volta che i biondi della destra di Berlino si
sporcano gli anfibi con le sabbie dei deserti orientali. Al conflitto
siriano si erano già avvicinati dal Libano, quando lo scorso giugno, in
un campo profughi nei pressi della valle della Bekaa, si erano
posizionati davanti alle telecamere per dire “disastri, povertà,
violenza sono le ragioni per cui si abbandona la patria”. Avevano già
smesso di usare i loro vecchi slogan: “Via i migranti”, per sostituirli
con quelli nuovi: vi aiutiamo a casa vostra.
Il Fatto 12.10.18
“Quanto era bella e intatta Genova” nei versi di Montale
di Giovanni Pacchiano
“La
forme d’un ville/change plus vite, hélas! que le coeur d’un mortel”. La
forma di una città cambia, ahimé, più in fretta del cuore di un uomo.
Lo sosteneva Baudelaire nella magnifica poesia che è Le Cygne.
Profeta:
lo vediamo oggi nelle nostre città: la mia piccola Milano, già elegante
nei suoi palazzi settecenteschi, fiorita a fine Ottocento di un
variegato liberty, poi modesta ma decorosa, oggi è travolta dall’opaco
gigantismo dei megagrattacieli, segni dell’espropriazione di ciascun io
individuale.
È solo nostalgia quella di noi anziani? O è senso
dell’imbarbarimento della civiltà, che tende a cancellare o
cementificare, anche metaforicamente, ogni ieri? Ma quanto Baudelaire
applica alla città si può trasferire alla trasformazione di tutta
l’Italia. Ho sulla scrivania un prezioso libretto appena uscito: Eugenio
Montale, L’oscura primavera di Sottoripa (Il Canneto, pp. 112, 15
euro), una raccolta di testi montaliani rivolti a figure, cronache e
luoghi famigliari della vecchia Liguria del poeta; arricchita da una
bella, affettuosa introduzione evocativa di Bianca Montale, la nipote, e
per cura intelligente e note ai testi di Stefano Verdino.
Sono
raccolti qui scritti per la maggior parte, ma non proprio tutti,
reperibili negli immensi Meridiani Mondadori dedicati a Montale, ma
concentrati attorno al tema del “come eravamo”.
Con una
caratteristica che va segnalata, costituendo la cifra del libro: non
qui, come nel Montale delle poesie, almeno fino alle liriche della
Bufera, la cifra costante, con variabili di illusoria salvezza, o
presenze angeliche e insieme dolenti sfiorate e perdute, sta, come ha
detto magistralmente Gianfranco Contini, “in un minimo di tollerabilità
del vivere”; e nell’angoscia esistenziale veicolata attraverso il
ritorno quasi perenne di rime interne, assonanze, versi finali o coppie
di versi sigillo. Così per parlare di esperienze vitali e mortali, si
veda anche, a epigrafe dell’Oscura primavera di Sottoripa, il mottetto
(dalle Occasioni) “Lo sai: debbo riperderti e non posso”: dove la secca
chiusa non lascia dubbi: “E l’inferno è certo”.
Ci crediamo:
rinchiusi in una condizione che oggi più che ieri è anche la nostra
(Montale, assieme a Sbarbaro, a Sereni, e a Caproni è tra quelli che con
più anima hanno saputo raccontare il senso e l’inutilità del tempo, i
lampi della memoria, la tragedia del divenire). Come non sorprenderci
invece di fronte alle prose raccolte nel volumetto, che indicano
tutt’altra tonalità?
Se non pensando che poeta e prosatore percorrono
spesso nello stesso uomo cammini diversi, non divergenti, magari, ma
non strettamente sovrapponibili nei modi. Perché, mentre nelle liriche
il piccolo mondo antico di una volta torna con urgenza e massimo affanno
nel quasi immediato o comunque non remoto ricordo, sia negli Ossi sia
nelle Occasioni, qui, nei testi in prosa, il rimpianto si scioglie nella
pacatezza, reale o autoimposta che sia, e la memoria sfiora con dolce
nostalgia il passato contro il presente, ma subito si allontana dagli
scempi perpetrati, a non sciupare i ricordi. Quelli della Genova di un
tempo: “Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle città
italiane”. Quelli delle allora (il pezzo è del 1946), intatte Cinque
Terre, popolate da “zappatori d’orto e marinai di piccolo cabotaggio”. E
la villa avita delle vacanze, a Monterosso, amata e perduta: dal treno
“appariva e spariva la villa, una pagoda giallognola e un po’ stinta,
vista di sbieco, con due palme davanti”. Forse è l’attenzione al
dettaglio, gelosamente ricostruito, che attenua distraendola la
commozione. Mentre minutamente affettuosi, e dotati di un criterio di
comprensione infallibile (per i giovani che non lo sanno, Montale fu
anche grande critico), i ritratti di amici e poeti e scrittori, i sodali
liguri della sua giovinezza: il vates, il poeta maudit, Ceccardo
Roccatagliata Ceccardi, “l’elegiaco e il paesista”, che “ricorda un
Corot, ma portato in gamma calda”.
E Mario Novaro, “dalla poesia
volutamente sfatta grezza affannosa, espressione di un animo turbato”.
Giovanni Boine: “molto del lento giro delle sabbiose dune delle sue
spiagge è passato nella sua lirica; molto del tranquillo declinare dei
viottoli tra i suoi orti”. E il più grande, Camillo Sbarbaro, a cui qui è
dedicato un intero Ricordo: “L’arte di Sbarbaro era fatta di brevi
fulgurazioni e la droga che lo portava a questi attimi felici era la
vita”. Sì, la vita, il cuore che muta più lento: oggi Montale è ancora e
per sempre il nostro poeta.
Repubblica 12.10.18
Salviamo la storia dell’arte
di Cesare de Seta
Da
alcuni giorni gli storici italiani sono scesi in campo contro la scelta
della Commissione presieduta da Luca Serianni di eliminare la traccia
di storia dal tema di maturità. La Giunta centrale per gli studi storici
e delle Società degli storici ha sottolineato la marginalizzazione
della Storia nel curriculum scolastico, già intaccato dalla riduzione
delle ore di insegnamento negli studi professionali. Questa sorprendente
novità — nel Paese di Machiavelli e di Guicciardini — ignora il fatto
che mortificare il sapere storico equivale a privare i giovani cittadini
della classe dirigente delle basi essenziali per orientarli nella loro
scelte di vita e culturali. La Commissione si è mossa in questa scelta
senza consultare mai la Giunta né le università che sono preposte a
questo insegnamento. Ho seguito, nel giorno in cui venivano rese note le
modifiche relative alla prima prova scritta dell’esame di Stato, a un
vivace dibattito a Fahrenheit, su Radio 3, tra Serianni e Simona
Colarizi, condividendo le preoccupate osservazioni della storica.
Terminata la trasmissione mi sono chiesto: ma non è forse la storia
dell’arte una parte essenziale della nostra civiltà?
Almeno dal tempo
in cui Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, iniziava a scrivere
i Commentarii (1462), primo testo della letteratura moderna che dedichi
al paesaggio ampie descrizioni. Enea Silvio è certo parte della storia
ma sarebbe grave dimenticare che è parte anche della letteratura e della
storia dell’arte.
Intendo dire che, se il ministro Bussetti avesse
il buon senso di modificare il testo della Commissione Serianni, non
potrebbe lasciare fuori dalla porta la storia dell’arte.
Essa è la
forma vivente non solo per le opere d’arte, ma pure per il paesaggio e
il contesto dei centri storici che sono scena essenziale della nostra
civiltà. La recente raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea
sull’apprendimento permanente presta una particolare attenzione al tema
della consapevolezza culturale: si sottolinea la necessità di forti
radici identitarie per ispirare una progettualità virtuosa,
interculturale e sostenibile. Questo richiede un impegno politico
efficace, una rinnovata metodologia scientifica e didattica nella
convinzione che il giusto terreno per coltivare tali competenze sia
quello del patrimonio artistico. La relazione stretta che lega un
manufatto al proprio contesto storico, socio-economico e culturale, ma
anche al territorio che lo custodisce, alle vicende della sua
conservazione e fruizione, comporta un esercizio di lettura e di
interpretazione che collima esattamente con quanto scriveva Piccolomini a
metà Quattrocento.
La storia dell’arte necessita di particolari
competenze di lettura e decodificazione dei manufatti e qui si apre un
doloroso argomento: il destino della storia dell’arte nella politica,
nella cultura, nella scuola di ogni ordine e grado del Paese. A parole
se ne celebra “l’eccellenza”, ma di fatto essa è la Cenerentola della
scuola.
Dopo lo scempio della riforma Gelmini, la storia dell’arte
sarebbe dovuta entrare nel biennio di tutti gli indirizzi. Irene
Baldriga, presidente dell’Associazione nazionale storici dell’arte, nel
bel volume Diritto alla bellezza (Le Monnier, 2018), sottolinea la
rilevanza dell’interdisciplinarità che esige competenze trasversali.
Raccomandazioni che valgono anche per gli storici tout court, che sono insorti contro la commissione Serianni.
Repubblica 12.10.18
C’erano una volta le banconote
di Moisés Naím
Che
cosa succederà al denaro? Fino a poco tempo fa l’idea di fare a meno di
banconote e monete sembrava fantascienza. Ma oggi è una realtà. In
molti Paesi, il denaro, così come lo conosciamo, sta diventando
obsoleto: i portafogli vengono sostituiti dai nostri onnipresenti
smartphone, mentre le banconote e le monete metalliche vengono
rimpiazzate da sequenze digitali di uno e di zero.
In Svezia, per
esempio, il 93 per cento delle transazioni avviene attraverso
trasferimenti diretti effettuati con un’applicazione per dispositivi
mobili chiamata Swish, che permette di trasferire all’istante da un
individuo all’altro, a costi molto bassi, somme di denaro anche piccole.
Ma i prosperi e tecnologici svedesi non sono gli unici che fanno sempre
più spesso a meno del denaro vecchio stile. Anche la Cina, il Kenya, la
Tanzania, il Bangladesh e l’India hanno compiuto enormi progressi
nell’uso dei pagamenti elettronici attraverso dispositivi mobili. L’uso
del contante sta diventando sempre più un anacronismo: affidarsi a pezzi
di carta colorata come mezzo di pagamento non fa molto XXI secolo.
Per
le istituzioni pubbliche, i vantaggi dell’uso diffuso di tecnologie
come Swish sono evidenti: ogni transazione è registrata e può essere
monitorata, anche dalle autorità. Per tutti quelli che riciclano denaro,
evadono le tasse, trafficano in droghe o finanziano terroristi, la scia
digitale lasciata dalle transazioni monetarie digitali è un problema.
Al contrario, per gli hacker che sanno come entrare in un account e
trasferire fondi a un altro proprietario, queste nuove tecnologie aprono
enormi opportunità.
L’ascesa delle criptovalute, per esempio,
solleva problemi senza precedenti. Queste valute virtuali ( o beni
digitali) sono algoritmi crittografati complessi che possono essere
utilizzati come metodo di pagamento verificabile e garantito. La più
comune è l’onnipresente Bitcoin, ma ce ne sono altre (2.000, per la
precisione, e il loro numero è in aumento).
La caratteristica più
rivoluzionaria di queste valute è che, salvo alcune eccezioni
fraudolente, le istituzioni pubbliche e le Banche centrali non hanno
nulla a che fare con loro. Un’altra caratteristica importante è che le
transazioni in criptovaluta possono essere eseguite in modo anonimo. Le
tecnologie digitali e Internet, infatti, rendono più facile operare in
modo anonimo in molti settori (affari, storie sentimentali, criminalità,
terrorismo e via dicendo). Così, nello stesso momento in cui alcune
nuove tecnologie impediscono l’anonimato, altre sono deliberatamente
progettate per garantirlo.
Un esempio è il ZCash, una criptovaluta
che promette di fare tutto ciò che fa il denaro contante, solo in
maniera virtuale...e anonima. Utilizzando meccanismi di crittografia
estremamente complessi, il ZCash offre una privacy assoluta nel corso di
tutta la catena di transazioni in cui sono coinvolte le sue “ monete”.
Quando riceviamo una banconota da 100 dollari non abbiamo modo di sapere
chi l’ha posseduta prima della persona che ce l’ha consegnata, o chi la
possederà dopo la persona a cui la consegneremo. Il ZCash promette di
fare la stessa cosa: assicurare l’anonimato lungo tutta la catena di
utenti.
Naturalmente, i governi non amano il ZCash e il sentimento è
reciproco. Come molte criptovalute, il ZCash è stato sviluppato da una
comunità di programmatori ultralibertari, ostili al controllo
governativo. I governi hanno ragione a essere allarmati, per il semplice
fatto che il potenziale destabilizzante di piattaforme come il ZCash è
illimitato. Per un trafficante di droga, far passare 10 milioni di
dollari in banconote attraverso la dogana di un aeroporto è rischioso
sia dal punto di vista logistico che da quello legale. Con il ZCash,
però, chiunque può trasferire immediatamente qualsiasi somma, in
qualsiasi momento e verso qualsiasi destinazione, senza quelle pesanti
ventiquattrore piene di moneta cartacea. E senza rischiare di svelare
l’identità dei partecipanti.
I governi stanno imparando in fretta a
fronteggiare le sfide inedite che arrivano da nuove tecnologie come il
ZCash. Il grande vantaggio che hanno ancora le autorità è che
controllano lo “svincolo di uscita” dalla “ cripto- autostrada”. Dal
momento che il numero di aziende che accettano pagamenti in criptovalute
è ancora relativamente esiguo, spesso è necessario scambiare queste
ultime con una delle valute tradizionali, che continuano a essere emesse
dalle istituzioni pubbliche. In questo modo, le autorità hanno la
possibilità di controllare lo “svincolo di uscita” e questo, ovviamente,
rappresenta una leva fondamentale.
Ma non c’è motivo di ritenere che
questo vantaggio sarà eterno. Oggi ci sono già oltre centomila aziende
virtuali che accettano criptovalute come forma di pagamento e il loro
numero continuerà a crescere rapidamente. È perfettamente concepibile
immaginare che fra qualche anno si potrà acquistare una macchina, un
viaggio o una casa con il ZCash.
Non possiamo ancora dire se il
futuro appartiene a tecnologie trasparenti come la Swish o a tecnologie
opache come il ZCash. Molto probabilmente coesisteranno, a seconda del
Paese e del settore economico. Quello che è indubbio, comunque sia, è
che, man mano che ci addentriamo nel XXI secolo, diventerà più facile
trovare le banconote e le monete nei musei che nelle nostre tasche.
(Traduzione di Fabio Galimberti)