mercoledì 10 ottobre 2018

Il Fatto 10.10.18
“Bibbia, altro che guida etica: è una raccolta di storie truci”
Ian McEwan - Al centro di “The Children Act”, film tratto da un suo romanzo, c’è il conflitto tra fede e diritto
di Camilla Tagliabue


“Come facciamo a sapere che una trasfusione o un tradimento sono sbagliati? Lo sappiamo e basta. Nel nostro cuore”: è uno dei dialoghi al cuore di The Children Act – Il verdetto, film di Richard Eyre tratto dall’omonimo romanzo di Ian McEwan (uscito in Italia con il titolo La ballata di Adam Henry; Einaudi, 2014), in sala dal 18 ottobre. A confrontarsi, o meglio a scontrarsi, su temi di etica e autodeterminazione sono Adam Henry, 17enne Testimone di Geova, che rifiuta una trasfusione di sangue a costo di condannarsi a morte certa e lenta e terribile, e l’esangue Fiona Maye, giudice dell’Alta Corte britannica che ha in carico le cause sui minori.
Il rifiuto della cura è un diritto insindacabile di ogni paziente adulto, ma per un minore chi decide? “La legge anglosassone ha una lunga tradizione laica – racconta McEwan, anche sceneggiatore –. I principi del diritto non si basano sull’esistenza di dio né si preoccupano di stabilire se dio esista o meno. Per lo Stato, e quindi per Fiona, è inaccettabile lasciar morire un minore”. Interpretata da una straordinaria Emma Thompson, la lady di ferro del tribunale deroga, per la prima volta, al protocollo, andando fino in ospedale a conoscere il giovane malato (Fionn Whitehead): filo rosso non è tanto (o non solo) la libertà individuale quanto l’amore, del ragazzo per la donna e della donna per il marito (Stanley Tucci), con cui sta attraversando una profonda crisi coniugale. Trasfusione e tradimento, appunto.
I rituali – matrimoniali, legali, religiosi – vengono infranti; similmente diritto e fede si sovrappongono, tanto che la Royal Courts sembra una cattedrale e il cerimoniale dei giudici – dalla vestizione al parrucco – un rito clericale. “A mio avviso, però, il diritto è l’opposto della fede: ogni volta Fiona tenta di prendere una decisione ragionevole su questioni che sembrano non avere razionalità. Io rifiuto la Bibbia come guida etica: è solo una collezione di storie, scritte benissimo, ma piene di violenza, stupri, omicidi. Spesso è lo stesso dio ad accettare e promuovere schiavitù e crimini. Allo stesso tempo, non accetto che la scienza mi dica come devo vivere”. La fede oggi suona come un paradosso: sempre meno persone credono in dio, ma quelle poche credono con più pervicacia, dai Testimoni di Geova fino agli estremisti e ai fanatici dell’Islam. “È così, ma la maggior parte dei fedeli professa in modo pacifico. Il problema sono le minoranze violente: il terrorismo è un fenomeno molto difficile da capire per una mente laica”.
The Children Act non è il primo romanzo di McEwan a essere trasposto al cinema: Il giardino di cemento (Orso d’argento 1993); L’amore fatale (2004); Espiazione (Oscar 2007 per la Colonna sonora); Bambini nel tempo (sceneggiato per la tv nel 2017); Chesil Beach (in uscita a fine anno); Miele (il cui adattamento è in corso): “Non penso mai al film quando scrivo un romanzo”, si schermisce lo scrittore. “Sono due tipi di scrittura differenti: la sceneggiatura nasce dalla collaborazione, dalla negoziazione con il regista, il produttore, gli attori. Come romanziere, quando lavoro al cinema smetto di fare dio, di essere l’unico creatore. Nel libro ha molto spazio l’interiorità di Fiona, ma la pellicola non se lo può permettere: perciò parte con un dialogo tra lei e il marito che ci svela il problema alla base della trama: la crisi coniugale”.
Ogni storia è una storia d’amore: “Il lato migliore della natura umana è l’armonia tra razionalità e compassione, logica ed empatia: tenerle insieme è difficile, così come capire la mente degli altri. Non sempre ci si riesce, ma è uno sforzo che ci rende umani”. E di cosa ci rende umani tratta il prossimo romanzo di McEwan, Machines Like Me, in uscita ad aprile: “È un triangolo all’antica, ambientato a Londra negli anni Ottanta. C’è un uomo solo, Charlie, che compra un altro essere umano sintetico, artificiale, ed entrambi si innamorano della stessa donna, Miranda”. Il nome del conteso umanoide, manco a dirlo, è Adam, come il ragazzino di The Children Act. Ma la Bibbia non c’entra.

Corriere 10.10.18
Il vescovo ai fedeli Lgbt: «Vi riconosco»


«Vi riconosco fratelli». Lo ha detto Marcello Semeraro, vescovo di Albano, e segretario del C9 (il comitato scelto dal Papa), ai fedeli gay, lesbiche e transessuali riuniti sabato nel quinto Forum nazionale dei cristiani Lgbt ad Albano Laziale. Semeraro ha insistito anche sullo spirito di «accoglienza» della Chiesa ricordato più volte dal Pontefice. Il suo discorso alla comunità Lgbt — pubblicato poi per la prima volta sul sito della diocesi — al quale ieri ha dedicato ampio spazio anche il quotidiano della Cei Avvenire, è un ulteriore segnale di apertura nei confronti dei omosessuali e transessuali da parte del Pontificato di Francesco.

Repubblica 10.10.18
Dopo 500 anni il convento chiude e il priore si sposa
di Giampaolo Visetti


Il suo convento, dopo quasi 500 anni, ha chiuso. L’ex priore ci ha pensato per cinque anni e giovedì scorso, festa di San Francesco, ha sposato Martina. Ieri l’annuncio su Facebook, subito preso d’assalto da amici e fedeli: centinaia i messaggi d’affetto e di nostalgia.
Fra Dino Pistore, 49 anni, ha lasciato il saio, ma prima di tutto il segno. Sui social ha pubblicato una foto: le mani sue e della sposa, intrecciate e con le fedi in vista, offrono una cosmea viola. «Grazie a tutti – si legge – proprio a tutti. In questi giorni abbiamo raccolto un bene immenso, una benedizione dolce da parte di tanti cuori».
A Schio, nel Vicentino, nessuno dimentica il giorno dell’addio. Era l’8 settembre del 2013. Dopo cinque secoli il convento dei cappuccini, che teneva aperta la chiesetta di San Nicolò dal 1536, è rimasto vuoto. Scelta, sofferta, della diocesi: anche nel Veneto "bianco" i giovani con la vocazione sono rarità, i seminari chiudono, le parrocchie vengono assegnate a volontari laici, sacerdoti e frati ormai sono vecchi.
Non è solo la crisi della Chiesa cattolica. È la fine di un mondo, il tramonto della civiltà silenziosa che ha costruito l’Europa. Fra Dino però, assieme al suo popolo delle Valli del Pasubio, aveva cercato di resistere, protestato, accusato. Inutile opporsi all’indifferenza di un’evoluzione. L’ultimo giorno, in duomo, aveva chiesto solo di dire due parole. Si è avvicinato al pulpito e, lentamente, si è tolto il saio. È rimasto lì in t-shirt e pantaloni corti grigi, i sandali ai piedi: come San Francesco ad Assisi nel 1200, però al contrario. Molta gente aveva pianto. Un conto è accettare che il convento secolare che ha giustificato la città, come tanti altri in tutto l’Occidente, venga chiuso perché le celle sono deserte.
Tutt’altro vedere il priore che lascia cadere a terra il saio, saluta commosso e scende per sempre dall’altare. Anche per chi non crede, è come un pugno e fa male. Fra Dino, il giorno dopo, era scomparso.
Spiegazione ufficiale: «Periodo di riflessione al di fuori della vita ecclesiastica per motivi di carattere personale». Lo ha trascorso a Terzolas, in Trentino, in un convento di montagna che pure nel frattempo ha chiuso, trasformato in albergo. La sua provvidenza però gli ha donato l’amore per Martina. Dopo il sì in municipio, la festa in trattoria, sempre con la gente di Valli. Adesso fa il giardiniere: fiori diversi, un’altra felicità, ma quel certo senso per la vita resta lo stesso.

Repubblica 10.10.18
L’intervento
Diamo un’anima alla bandiera Ue
di Bono


La nostra band, gli U2, ha dato avvio al tour europeo due mesi fa con un’idea che pensavamo potesse risultare un po’ provocatoria, un po’ trasgressiva. Appigliandoci alla presunzione bonaria delle rockstar impegnate in una causa, abbiamo annunciato che avremmo sventolato una grande, sgargiante bandiera blu dell’Ue. Non sapevamo che tipo di reazioni questo gesto avrebbe suscitato. Il che, in un certo senso, era esattamente il motivo per cui intendevamo farlo. Volevamo scoprirlo.
Da due mesi, e mentre adesso ci prepariamo a sventolare la bandiera a Milano, rimaniamo sorpresi nel vedere il pubblico ai concerti alzarsi in piedi e applaudire un simbolo oggetto di grandi polemiche, persino di disprezzo in alcuni ambienti. L’Europa, che a lungo ha suscitato sbadigli, oggi provoca aspre e accese discussioni. L’Europa è teatro di forze potenti, impulsive e contrastanti destinate a dare forma al nostro futuro. Dico il nostro futuro perché non si può negare che ci troviamo tutti sulla stessa barca, in mari agitati da condizioni meteorologiche estreme e politiche estremiste.
L’idea di Europa non è particolarmente in voga di questi tempi, e ciò malgrado negli ultimi 50 anni non vi sia stato posto migliore in cui nascere dell’Europa stessa. Sebbene si debba lavorare molto più duramente per estendere i vantaggi del benessere, gli europei sono più istruiti, più al riparo dagli abusi delle grandi multinazionali e, rispetto alle persone che vivono in ogni altra regione del mondo, conducono una vita migliore, più lunga, più sana e in generale più felice. Esatto, più felice. C’è chi le misura queste cose!
L’Irlanda è un posto con un legame emotivo speciale con l’Europa, e con l’idea di Europa. Forse perché l’Irlanda è un piccolo scoglio in mezzo al vasto mare, desiderosa di far parte di qualcosa di più grande di noi ( perché la maggior parte delle cose sono più grandi di noi). Forse perché ci sentivamo più vicini all’Europa che ad altre persone che vivevano sulla nostra stessa isola.
L’appartenenza all’Europa ci ha permesso di diventare una versione migliore e più sicura di noi stessi. Camminiamo un po’ più a testa alta tra i nostri amici. E più il Nord e il Sud dell’Irlanda si sono avvicinati all’Europa, più noi irlandesi ci siamo avvicinati gli uni agli altri. La vicinanza ha oltrepassato il confine e ha abbattuto le barriere. Per dolorose ragioni storiche, non prendiamo alla leggera il concetto di sovranità. Se per sovranità si intende il potere di un Paese di governare sé stesso, l’Irlanda ha constatato che collaborare con altre nazioni le ha dato un potere maggiore di quello che avrebbe potuto esercitare da sola, e una migliore capacità di agire sul proprio destino.
Da europeo mi sento orgoglioso pensando agli italiani e ai tedeschi che hanno accolto così tanti rifugiati siriani quando questi, terrorizzati, hanno cominciato a fuggire dalla guerra civile ( mi sentirei ancora più orgoglioso se fossero stati molti più Paesi a farsi avanti); orgoglioso della lotta dell’Europa per porre fine alla povertà estrema e al cambiamento climatico; e, sì, estremamente orgoglioso dell’accordo di pace del Venerdì Santo ( Good Friday Peace Agreement) e di come altri Paesi si siano stretti attorno all’Irlanda sulla questione dei confini, riaccesa dalla Brexit. Mi sento privilegiato ad aver assistito al più lungo periodo di pace e prosperità della storia del continente europeo.
Ma tutti questi successi sono ora minacciati, perché il rispetto per la diversità — premessa dell’intero sistema europeo — viene messo oggi in discussione. Come ha detto il mio connazionale John Hume: «Ogni conflitto ruota attorno alla differenza, che si tratti di una differenza di razza, religione o nazionalità. Gli architetti dell’Europa hanno deciso che la differenza non è una minaccia… La differenza è l’essenza dell’umanità » e dovrebbe essere rispettata, esaltata e, persino, coltivata.
Stiamo assistendo a una impressionante perdita di fiducia in questa idea. Fomentati dalle asimmetrie della globalizzazione e dal fallimento della gestione della crisi migratoria, i nazionalisti affermano che la diversità è un pericolo. Rifugiatevi — ci dicono — nell’omogeneità; scacciate il diverso. La loro visione per il futuro mi sembra molto simile al passato: politica identitaria, risentimento, violenza. Abbiamo sentito questo appello pieno di odio in Polonia, ad esempio, e in Ungheria, nonché il mese scorso alle elezioni in Svezia. Il nazionalismo è tornato e ha un impatto penalizzante sulle pari opportunità.
La generazione che ha subìto la guerra mondiale ha assistito ai risultati funesti di quel modo di pensare. Ha scorto un sentiero fuori dalle macerie, oltre i muri di cemento e il filo spinato, per far arretrare la cortina di ferro tratteggiata sul cavalletto di Stalin, e ha respinto l’idea che le nostre differenze siano tutto ciò che ci definisce. Ha compreso che il pensiero a somma zero era un patto suicida.
L’Italia è uno degli Stati fondatori dell’Unione europea. Il sogno che ci ha uniti era tanto italiano quanto francese o tedesco o ancora, anche se abbiamo aderito anni dopo, irlandese. L’Italia è sempre stata al centro di questo grande progetto comune. Adesso invece si trova al centro di una crisi che minaccia tutti noi e che, se lasciamo che le nostre divisioni ci definiscano, potrebbe consumarci.
Amo le nostre differenze: i nostri dialetti, le nostre tradizioni, le nostre peculiarità, «l’essenza dell’umanità», come diceva Hume. E credo che lascino ancora spazio a quello che Churchill chiamava «un patriottismo allargato » : una pluralità di appartenenze, identità stratificate, che consentano di essere al contempo irlandese ed europeo, italiano ed europeo, non l’uno o l’altro. La parola patriottismo ci è stata rubata da nazionalisti ed estremisti che esigono che vi sia uniformità. Ma i veri patrioti riconoscono l’unità al di sopra dell’omogeneità. Riaffermare questo primato è, per me, il vero progetto europeo.
Può sembrare che non ci sia romanticismo in un " progetto" o fascino in una burocrazia ma, come ha detto la grande Simone Veil, «l’Europa è il grande progetto del XXI secolo». Di sicuro alcuni elementi di quel progetto devono essere ripensati e aggiornati. Ma i nostri valori e le nostre aspirazioni no. Rendono l’Europa molto più di una semplice istituzione o di un luogo geografico. Rappresentano il vero nucleo di chi siamo come esseri umani, e di chi vogliamo essere. Su quell’idea di Europa vale la pena scrivere canzoni, e sventolare grandi e sgargianti bandiere blu. Per trionfare in quest’epoca travagliata, l’Europa è un’idea che deve diventare un sentimento.

Corriere 10.10.18
Raid nel centro per migranti Tre indagati

Una spedizione punitiva culminata con un attacco incendiario contro una palazzina che ospita alcuni richiedenti asilo della Costa d’Avorio. È successo a Bettola, un piccolo comune della provincia di Piacenza. Nel registro degli indagati, tre italiani di 28, 39 e 53 anni, tutti operai. Le accuse, a vario titolo: lesioni aggravate, tentato incendio, danneggiamento, violazione di domicilio. Il tutto con l’aggravante dalle motivazioni razziali.

Repubblica 10.10.18
"It will be chaos", la drammatica quotidianità dei migranti in fuga
di Antonio Dipollina


Impossibile valutare con il metro dell’attualità stretta un lavoro come It will be chaos- Sarà il caos, ovvero il doc passato su Sky Atlantic — e recuperabile sull’on-demand, assai raccomandato.
Migranti e tracciati per mare e terra, prendendo inizio dall’immane tragedia del 2013 fuori Lampedusa, seguendo storie singole di famiglie che dalla Siria cercano scampo ben lontano. Il lavoro, girato da Lorena Luciano e Filippo Piscopo, italiani di stanza a New York, ha ricevuto premi ed elogi in campo internazionale, è una costruzione quasi ipnotica di momenti e piccoli drammi quotidiani ma anche di routine dell’emigrazione degli ultimi anni — in particolare la famiglia che tenta il corridoio balcanico e riesce ad arrivare in Germania, uno strazio e un’umiliazione dopo l’altra ma come se ci fosse una stella cometa davanti a spingere verso la salvezza. La storia è già andata molto oltre — ci sono riprese e situazioni a Riace con il sindaco Mimmo Lucano — ma It will be chaos resta e segna un punto fermo nel modo di racconto, con un ritmo finto-lento e una colonna sonora azzeccata che rimane in testa restituendo invece la memoria di un racconto invece incalzante assai.

Corriere 10.10.18
L’appello degli esperti
«Che errore abolire la Storia alla Maturità»
«Storia eliminata per ignoranza» L’ira degli studiosi
Tema di maturità, l’appello online a Bussetti
Serianni: traccia scelta dall’1% dei candidati
di Valentina Santarpia


La Storia fa parte del presente. E invece «la trattano come merce d’antiquariato, fuori moda, da accantonare. Ed è pericoloso». Appello degli esperti per salvare la storia «sparita» dal tema all’esame di maturità.
«La trattano come merce d’antiquariato, fuori moda, da accantonare. Ed è pericoloso: la storia fa parte del presente, e senza la consapevolezza di ciò che è accaduto non daremmo un senso alla nostra scena politica e sociale». È furioso Fulvio Cammarano, presidente della Società per lo studio della storia contemporanea, una delle associazioni di storici che hanno firmato l’appello per salvare la storia all’esame di maturità. Sembrerebbe tema di nicchia, da intellettuali da salotto: e invece il breve comunicato con cui gli studiosi chiedono che sia rivista la scelta di eliminare la traccia di storia tra quelle previste per lo scritto dell’esame di Stato, invocando un incontro col ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, è stato letto e condiviso da migliaia di persone online nel giro di due giorni.
«Un errore politico da riparare», tuonano in molti, attribuendo al governo gialloverde la responsabilità. «Non è questione di governi — precisa Cammarano — anche perché Bussetti ha avallato una decisione della commissione che si era già insediata (quando la ministra era Valeria Fedeli ndr ), e che all’interno non aveva neanche uno storico. Parliamo di una tendenza degli ultimi dieci anni, in cui la storia soffre di schizofrenia: da una parte assistiamo al successo di programmi di intrattenimento e fiction basati sulla storia, dall’altra vediamo che la storia com’era un tempo, quella che aveva peso politico, sta scomparendo». Colpa anche del disinteresse degli studenti, che negli anni hanno scelto a malavoglia e con poche eccezioni il tema di storia? «Il tema di storia era svolto dall’1% degli studenti», conferma il presidente della commissione che ha rivisto l’esame, il linguista Luca Serianni, che difende la scelta: «La storia non sparirà del tutto: sarà una delle tracce di italiano possibili e sarà presente di anno in anno nella proposta che farà il ministero. È una materia centrale per la formazione dei ragazzi — ammette — ma bisognerebbe rafforzare le competenze e provvedere prima, perché i candidati la scelgano».
Marketing della didattica? «Non stiamo parlando di fenomeni commerciali — sbotta Andrea Giardina, presidente della Giunta centrale per gli studi storici —. Non è che se il prodotto non tira, allora lo tolgo dal mercato. La risposta corretta non è eliminare il tema di storia, ma chiedersi perché viene scelto poco, aumentare il numero di ore di insegnamento, incentivare i ragazzi a studiarla. Ad esempio puntando sulla public history, la divulgazione fuori dagli ambienti accademici. Tanto più che gli spazi vuoti lasciati dalla storia sono sempre più riempiti dalle storie, false, inventate da dilettanti: fenomeno inquietante». E sostenuto dalla delegittimazione delle autorità in materia: «Spesso sono filosofi e letterati a insegnare storia — ammette Stefano Gasparri, presidente degli storici medievalisti —. Dobbiamo riportare gli storici in cattedra. In una società smemorata come la nostra, priva di ancoraggio col passato, colpire la storia mi sembra un fatto grave».
C’è l’ombra del complotto contro la storia e la consapevolezza che ne deriva? «No, non penso proprio che ci possa essere la volontà di manipolare — dice Simona Colarizi, per 40 anni docente di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma —, è solo una questione di ignoranza, incuria. E sembra quasi normale, purtroppo, che in un Paese che non dedica grandi risorse all’educazione si arrivi a sostenere che la storia non ha importanza». La prova di maturità, dunque, è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso della protesta: «Non penso che sia un esame, tra l’altro piuttosto screditato, il momento qualificante dell’apprendimento — conferma la professoressa Chiara Frugoni, già all’università di Pisa, Parigi, Roma —. Gli studenti non sono computer, dove vedi se un programma gira bene: la storia va insegnata, bene e durante tutto l’anno, per sviluppare il senso critico».
Ma perché la storia è così importante? «Non c’è società del mondo che non abbia rapporto col passato — spiega Luigi Migliorini Mascilli, presidente della Società per lo studio della storia contemporanea — anche nelle vite singole ricapitoliamo quanto ci è accaduto perché siamo il frutto di quegli eventi. La storia è la base del diritto di cittadinanza, un cittadino capace di giudizio deve avere una conoscenza storica».

Repubblica 10.10.18
La polemica
Nessuno tocchi la nostra maestra Storia
di Ilaria Venturi

La traccia tradizionale abolita dal nuovo esame di maturità La riduzione dell’insegnamento a un’ora negli istituti professionali. La perdita delle cattedre all’università. Così la disciplina che studia il passato è sotto attacco
L’ideale di cooperazione internazionale sostenuto da De Gasperi e Moro dopo la seconda guerra mondiale. Un bel tema. Era la traccia di argomento storico uscita alla scorsa maturità. Per l’ultima volta. La riforma dello scritto di italiano ha cancellato il tradizionale tema storico tra le tipologie di prove offerte agli studenti, pur preservando la Storia tra gli ambiti delle tracce, accanto a quello artistico, letterario, filosofico, scientifico, economico, sociale. Una revisione che ha fatto infuriare gli storici. «È un’immotivata novità che riduce di fatto la rilevanza della Storia come disciplina di studio in grado di orientare i giovani nelle loro scelte culturali e di vita», scrivono in un documento comune tutte le società degli studiosi di Storia, l’associazione di Public History, il centro per la ricerca storico-educativa e la rete degli istituti per la storia della Resistenza. Al ministro all’Istruzione Marco Bussetti gli storici chiedono di rivedere la scelta operata dal gruppo di lavoro guidato dal linguista Luca Serianni, che in realtà non ha mai messo in discussione l’importanza della disciplina («mi aspetto che venga dato un tema di ambito storico, che rimane rilevante»). Ma la scomparsa della traccia specifica di Storia fa comunque discutere, ha acceso il dibattito perché interpretata come un segnale allarmante in tempi di memoria corta. «La preoccupazione è inevitabile perché lo spazio nelle scuole è stato molto eroso negli ultimi anni», osserva Andrea Giardina, ordinario di Storia romana, alla guida della Giunta centrale per gli studi storici. Il ritocco nell’esame di Stato non è che la punta dell’iceberg di una progressiva marginalizzazione della Storia tra i banchi. La recente riforma degli istituti professionali consente al collegio dei docenti di ridurre ad una sola ora l’insegnamento della Storia nel biennio. «All’università non va meglio, negli ultimi dieci anni abbiamo perso il 30% delle cattedre», spiega Fulvio Cammarano, presidente degli storici contemporanei. «È da tempo che assistiamo a un attacco alla Storia – continua il professore dell’Alma Mater – non a quella di intrattenimento, sempre più in auge, ma alla disciplina che ricerca una "verità". Il motivo? La Storia per sua natura complica la vita: è l’opposto della semplificazione, la nemica delle fake news. Per questo non piace, non fa parte nemmeno più della formazione della classe dirigente, quasi ce ne vergogniamo: avete notato che nei talk show gli storici sono presentati come politologi?». Massimo Salvadori taglia corto: «Non c’è cultura senza conoscenza storica, l’idea che parlare del passato sia un lusso, quasi una forma di curiosità è misera. Si vive nel presente senza capire che i passi che compiamo nelle nostre esistenze vengono dall’esperienza del passato». A ben guardare, osserva Emanuela Scarpellini, storica alla Statale di Milano, «c’è una richiesta di storia fortissima, ma quello che si è perso è la concezione della Storia come maestra di vita, come strumento scientifico per capire la realtà d’oggi. Non solo, i risultati raggiunti dalla storiografia contemporanea che ha dato voce alle minoranze, alle donne, a coloro che prima non l’avevano, consente di avere uno sguardo più tollerante sulle tensioni del presente, come quelle che viviamo sull’immigrazione».
Il rischio che vede Fulvio Conti, che insegna storia contemporanea all’ateneo di Firenze, «è che in questo modo il Novecento venga studiato ancora meno».
Rigettata è anche l’argomentazione che in fondo il tema storico era scelto da pochissimi alla maturità, appena l’1% a giugno scorso. «Non si misura così la qualità della formazione nella scuola superiore – aggiunge Giardina – è comunque va riaffermata la conoscenza storica in un clima di suo indebolimento, altrimenti si aprono praterie per dilettanti e politici che reinventano le loro storie». Il riferimento è alla mozione, poi ritirata, in consiglio regionale della Puglia di istituire la giornata della memoria per le vittime meridionali dell’Unità d’Italia. «Poi non è tutto negativo: la storiografia italiana è ai massimi livelli internazionali e cresce la richiesta di Storia più seria non solo in ambito accademico – conclude Giardina – Siamo tra queste due realtà: il grido rispetto allo svilimento della Storia e il fermento che porta a ben sperare e che la politica non coglie».

La Stampa 10.10.18
Un polo italiano delle navi militari con Fincantieri e Leonardo unite
I due gruppi potenziano e rifondano la joint-venture Orizzonte Sistemi
di Luigi Grassia


Fincantieri e Leonardo, due grandi gruppi italiani della meccanica, della tecnologia e della difesa, stringono un’alleanza strategica per creare un polo nazionale delle navi militari, con cui competere sui mercati a livello globale. Questo polo partirà da una joint-venture già esistente, che verrà potenziata e anzi rifondata su nuove basi.
La jont-venture si chiama Orizzonte Sistemi Navali e resterà partecipata da Fincantieri e Leonardo con quote rispettivamente del 51% e del 49% (Fincantieri come socio ha una lieve prevalenza perché le navi sono la sua vocazione specifica, mentre per Leonardo quello è un ramo di attività fra altri). La società Osn è impegnata attualmente nella produzione di fregate Fremm e Horizon per la Marina militare italiana (entrambi i programmi hanno una controparte francese) inoltre sta realizzando un’unità da sbarco e supporto logistico e un’unità cacciamine per l’Algeria. Fincantieri continuerà a svolgere nei programmi internazionali il ruolo di «prime contractor», cioè di interfaccia unico verso terzi, mentre Leonardo avrà la responsabilità del sistema di combattimento e di quelli di comando e controllo.
Così Giuseppe Bono, amministratore delegato di Fincantieri: «La collaborazione sempre più stretta fra le due aziende della difesa più importanti del Paese trascinerà anche lo sviluppo delle eccellenze tecnologiche delle piccole e medie imprese italiane del comparto». Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo:«Con questo accordo il Paese si presenterà in maniera ancora più coesa ed efficace in un mercato altamente sfidante, valorizzando tutte le competenze di alta tecnologia che le due aziende sanno sviluppare e che saranno messe a fattor comune».
Bono ha detto qualcosa anche su Vitrociset, l’azienda tecnologica italiana contesa tra Finmeccanica e Leonardo e che di recente Leonardo ha fatto sua esercitando il diritto di prelazione. Il numero uno di Fincantieri ha chiarito che l’accordo di ieri su Orizzonte Sistemi Navali non riapre i giochi: «Vitrociset è una questione separata», ha detto Bono. «A suo tempo siamo stati sollecitati a prendercene cura per evitare che finisse in mani straniere. Naturalmente sapevamo che Leonardo aveva il diritto di opzione: lo ha esercitato, così Vitrociset rimarrà in mani italiane e noi ne siamo molto felici».

Corriere 10.10.18
Il carbone di Lenin
di Federico Fubini


Nel 1920 l’Italia era in preda alle convulsioni che seguirono la prima guerra mondiale e una rivoluzione bolscevica pareva nell’aria. Angelica Balabanoff, una marxista ucraina che avrebbe passato buona parte della sua vita a Roma, ne parlò con Lenin in persona. «Compagna — rispose il leader sovietico — ti ha mai colpito il fatto che l’Italia non ha carbone?».
La stessa Balabanoff ha riferito l’episodio qualche anno dopo a Gaetano Salvemini, che lo cita nelle sue lezioni sul fascismo tenute nell’esilio di Harvard. Ed è chiaro il messaggio di Lenin: l’Italia la rivoluzione non la può fare, perché non ha carbone. Si sarebbe trovata tagliata fuori dagli scambi con le altre potenze dell’epoca e incapace di sostenersi da sola. Il pericolo di restare senza materie prime le impediva di sovvertire l’ordine economico esistente, per quanto detestabile esso fosse.
Inutile dire che il carbone di un secolo più tardi sono i flussi finanziari internazionali, senza i quali l’Italia corre una versione moderna dei rischi descritti da Lenin. Ed è un’ironia che il rivoluzionario più fanatico della storia dovesse ricordare agli italiani lo stesso principio di realtà che oggi è l’Unione Europea a rappresentare: quali che siano gli orientamenti della massa dei disoccupati e di coloro che si sentono defraudati del futuro, non c’è alternativa.
G li elettori possono votare chi vogliono e su Facebook può diventare virale qualunque troll. Non importa se condivisibile o no, se giusto o assurdo. Alla fine un Paese senza carbone dovrà comunque fare più o meno ciò che serve perché il resto del mondo se ne fidi abbastanza da non isolarlo, soffocandolo.
Ci è passata la Grecia, dove la rivolta politica di Alexis Tsipras è finita con il blocco dei conti bancari e la capitolazione alle richieste europee. Non è chiaro se ci passerà l’Italia, dove la rivoluzione equivale a un «reddito di cittadinanza» per l’otto per cento degli abitanti oggi in povertà assoluta e al progetto di vivere per trent’anni con una pensione piena. Né è chiaro il punto di arrivo di questa rivolta, ma lo è quello di partenza: se gli elettori hanno la sensazione che il loro voto sia inutile perché tanto si devono seguire sempre le stesse politiche, se il sistema è liberale e rappresentativo ma «non democratico» — nella definizione del politologo di Harvard Yasha Mounk — allora tanto vale incoronare i populisti. Saranno rozzi e velleitari, ma almeno non sono sconnessi dalla realtà sociale del loro Paese come l’establishment riformista e liberale. Sono capaci di capire ed esprimere la volontà popolare, saggia o meno che essa sia.
I populisti hanno però anche un’altra caratteristica, che viene fuori solo quando arrivano al potere. Essa in gran parte spiega perché in Ungheria, in Polonia o in Italia — dove governano — la voce dell’opposizione sia diventata impercettibile. Non è repressione da parte di chi comanda. È che i populisti una volta nelle stanze dei bottoni governano come se fossero ancora all’opposizione: all’opposizione del governo precedente (vedi il caso del ponte di Genova), delle istituzioni indipendenti e delle competenze tecniche dell’amministrazione (vedi le minacce del portavoce di Palazzo Chigi al ragioniere dello Stato o il sarcasmo di Luigi Di Maio verso la Banca d’Italia) e di tutti i sistemi di pesi e contrappesi al potere esecutivo (gli insulti di Salvini alla Commissione Ue).
È una strategia geniale. Opporsi a coloro che governano pretendendo di essere essi stessi opposizione fa apparire le minoranze — in Parlamento e nel Paese — nei panni di un establishment incartapecorito e sulla difensiva.
Questa strategia però ha anche un effetto collaterale, forse non involontario: delegittima e cerca di depotenziare le autorità indipendenti, le competenze tecniche delle amministrazioni, i media tradizionali «venduti e mentitori», i pesi e contrappesi e tutte le altre istituzioni che rendono un sistema, oltre che democratico, anche liberale. Queste sono le istituzioni disegnate per impedire gli abusi di potere e gli atti di cieca ignoranza, garantendo che le maggioranze governino in nome di tutti e non solo di se stesse; sono i sistemi che proteggono lo Stato di diritto, la separazione dei poteri e le libertà individuali: il diritto di espressione o associazione, e anche la possibilità di disporre dei propri risparmi come si vuole.
Le forze di governo attuali sono così democratiche da essere ossessionate dall’idea dell’avere il consenso. Ma compiono gesti mirati a subordinare le istituzioni liberali. Il Movimento 5 Stelle ha mosso una battaglia martellante contro il presidente della Consob Mario Nava (che non doveva dar loro partita vinta, aprendo un vuoto); ha proposto di togliere ai media la pubblicità istituzionale e quella delle società partecipate dallo Stato, una tattica già vista in Polonia; ha usato Palazzo Chigi e la piazza antistante per una gazzarra grottesca con le bandiere di partito. Ma quel palazzo e quella piazza non sono dei 5 Stelle, sono anche la sede dei presidenti del Consiglio passati e futuri. Sono anche del 49% degli italiani che non ha votato questo governo e del 68% che non ha votato M5S.
In un celebre test psicologico, a un uomo viene mostrato un gatto su uno schermo e gli si chiede cosa vede. Proprio mentre l’uomo risponde che vede un gatto, la forma inizia a cambiare impercettibilmente in quella di un cane eppure l’uomo — se non distoglie gli occhi un istante — continuerà a dire che vede un gatto. La natura umana riconosce le trasformazioni più subdole in ritardo, quando vi è in mezzo. Non vorremmo aprire gli occhi un giorno, e scoprire che quello era proprio un cane .

il manifesto 10.10.18
Fnsi: «Attacco inedito alla libertà di stampa e alla Costituzione»
Intervista . Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, spiega perché è arrivato il momento di reagire alle minacce del governo
di Eleonora Martini


«Quello a cui stiamo assistendo è un’aggressione senza precedenti alla libertà di informazione. Dire che è qualcosa che abbiamo già visto in passato è un errore di analisi politica gravissimo: è un fenomeno nuovo ed inedito internazionale, con riflessi nazionali, e che ha nell’aggressione alla libera informazione un punto strutturale». È molto duro, il giudizio di Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, non tanto rispetto agli attacchi specifici del vicepremier Di Maio alle testate del Gruppo Gedi, quanto piuttosto riguardo l’atteggiamento del governo giallo-verde nei confronti del giornalismo in generale, «che tradisce il vero obiettivo di questa campagna: indebolire l’articolo 21 e la prima parte della Costituzione».
Giuseppe Giulietti, presidente dell’Fnsi
Si è appena conclusa nella sede dell’Fnsi la vostra conferenza stampa con l’Ordine dei giornalisti, l’Usigrai, Articolo 21 e molti comitati di redazione. Perché proprio ora? È davvero in atto un attacco alla democrazia?
Se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che è un uomo moderato sente il bisogno più volte di richiamare l’attenzione sull’articolo 21 della Carta, e se un uomo come Steve Bannon, che è stato l’ideologo di Trump e dell’intesa con la peggiore destra americana ed è un esperto della fabbrica delle fake news create per inquinare gli ordinamenti democratici, sceglie l’Italia come sua piattaforma per realizzare una serie di alleanze internazionali, ci sarà una ragione. Non è un film solo italiano, non è una reazione nervosa e non è questione che riguarda solo una testata giornalistica. Trump, Orban, Le Pen, Bolsonaro vincono le elezioni con questo schema: che ogni forma di mediazione, siano essi corpi sociali, corpi intermedi, sindacati o giornalisti sono il male perché si interpongono nel rapporto diretto tra il nuovo potere e la folla – non il popolo che è un concetto nobile. Il principe che si affaccia dal balcone deve poter comunicare attraverso i suoi 140 caratteri e ha bisogno che non ci siano quelli che fanno le domande, che organizzano le persone, o difendono i diritti. Va eliminato non tanto il giornalista ma ogni funzione intermedia, in modo che il cittadino sia solo nel vendere eventualmente se stesso al potente.
Cosa proponete?
Siccome l’articolo 21 tutela da un lato il diritto di cronaca ma dall’altro, ancora più importante, il diritto della comunità ad essere informata, ci sono due proposte unitarie che mirano a coinvolgere l’intera società. La prima idea è verificare la disponibilità degli editori – che sono per ora un soggetto silente – e delle emittenti radiotelevisive, a sostenere una campagna di informazione simile a quella intrapresa negli Usa da 320 testate contro le minacce di Trump ed ogni forma di bavaglio. La seconda proposta è mettere insieme un ampio cartello di associazioni, non solo di giornalisti ma di tutti i soggetti che sono colpiti nei loro diritti costituzionali e sociali e che vedono negato il proprio diritto ad essere informati, per arrivare uniti ad una manifestazione nazionale in difesa della Costituzione.
Nell’ottobre 2009 una manifestazione simile contro le minacce di Berlusconi riempì Piazza del Popolo. Allora, secondo Reporters sans frontières, l’Italia era al 49° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa. Oggi siamo al 46° posto. Ma nel 2016, con il governo Renzi Roma era al 77° posto. C’è un problema strutturale? A cosa è servita quella manifestazione?
Quella volta servì a impedire l’approvazione della legge bavaglio. Oggi molti cittadini assistono sgomenti ma non hanno punti di riferimento. La specificità italiana che ci porta a quel punto della graduatoria è la mancata soluzione del conflitto di interessi e del controllo governativo sulla Rai, le leggi antitrust considerate debolissime e il numero di cronisti messi sotto scorta. Il governo del cambiamento aveva annunciato di intervenire su questi problemi ma non ha fatto nulla. E l’Italia rischia un peggioramento per la campagna di aggressione verso i cronisti segnalata anche da Rsf.
Infatti Rsf cita esplicitamente il M5S…
Vorrei però far notare che al contrario di quanto sostiene Di Maio, fino ad ora è passato tutto troppo sotto silenzio, mentre anche durante il governo Renzi noi organizzammo un grande presidio davanti a Palazzo Chigi per protestare contro le politiche del centrosinistra in materia di informazione.
La guerra al giornalismo, nemico giurato del rapporto diretto con gli utenti del web, è uno degli assiomi fondativi del M5S. Il potere, si sa, si nutre del conformismo delle masse, come scrive l’Espresso. Ma se questo governo mettesse in atto le minacce di Di Maio e Crimi – la soppressione dei finanziamenti pubblici indiretti ai giornali, l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, il divieto di inserzioni pubblicitarie da parte delle aziende partecipate dallo Stato su determinate testate o l’abrogazione delle convenzioni con le agenzie di stampa – a rischio non sarebbe Repubblica ma i giornali come il manifesto, cooperativa di giornalisti.
Infatti non si tratta di un attacco specifico. Quando parlano di taglio ai finanziamenti pubblici sanno bene che non ci sono più, che sono rimasti come forma di tutela del pluralismo solo per alcuni quotidiani come il manifesto, l’Avvenire e alcuni giornali no profit. Ma è il pregiudizio che va combattuto, quello che dipinge come il male chi fa le domande. Di fronte a questo è necessario far capire che non ce l’hanno solo con Repubblica o il manifesto a Monfalcone (dove la sindaca leghista ha deciso di estromettere il manifesto dai giornali della biblioteca comunale, ndr). È alla funzione del giornalista che hanno dichiarato guerra.
Camusso difende la sua scelta: «Landini è il meglio per la Cgil»
Il Congresso. Video agli iscritti della segretaria, ma l’area riformista continua a puntare su Colla

Repubblica 10.10.18
La risposta all’offensiva M5S contro l’informazione
In piazza per la libertà di stampa
Appello e mobilitazione dei giornalisti dopo gli attacchi di Di Maio a "Repubblica" e ai giornali del gruppo " Aggressione mai vista a chi critica il governo gialloverde. Democrazia a rischio. Il vicepremier si scusi subito"
di Maria Berlinguer


Roma «È in atto un’aggressione senza precedenti alla libertà di informazione, non fingiamo che si tratti di casi isolati. C’è un elemento di emergenza non eludibile, sotto attacco non ci sono solo Repubblica e il gruppo Gedi, ma la prima parte della Costituzione». Dopo gli attacchi di Luigi Di Maio i giornalisti italiani si mobilitano e Giuseppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, avverte: nel mirino del governo del cambiamento non c’è solo l’informazione ma è a rischio l’intero impianto democratico del Paese. C’è chi è al lavoro per trasformare l’Italia in un modello di «democrazia illiberale » dove chi non è allineato al governo deve togliere il disturbo, possibilmente chiudendo i battenti. Almeno così spera il nuovo potere gialloverde che non sopporta l’intermediazione della stampa, auspicando di poter comunicare direttamente con i «cittadini sudditi».
Federazione della stampa e Ordine dei giornalisti sono pronti alla mobilitazione e alla lotta con due proposte concrete, lanciate nel corso della conferenza stampa "Giù le mani dall’informazione. Difendiamo l’articolo 21 della Costituzione". La prima è un appello agli editori perché aderiscano a una giornata per la libertà di stampa, sul modello di quanto accaduto negli Stati Uniti contro Donald Trump, quando 320 testate hanno pubblicato nello stesso giorno un editoriale per denunciare gli attacchi del presidente. La seconda è una manifestazione che non coinvolga solo i giornalisti ma i cittadini. «Vogliono che reagiamo come corporazione ma non sarà così: le aggressioni di Di Maio non sono solo ai cronisti ma a tutta la comunità » , spiega Giulietti. «Prima che si arrivi a uno scontro tra chi vuole la trasparenza e chi l’oscurità, Di Maio, ministro del Lavoro, iscritto all’Ordine dei pubblicisti campani, chieda scusa» afferma Carlo Verna, presidente dell’Ordine, mentre il segretario dell’UsigRai Vittorio Di Trapani sottolinea che quanto è accaduto non è un attacco al gruppo Gedi ma «a tutto quello che è contro il governo e che va abbattuto». «È un passaggio drammatico per Repubblica. È ora di muoversi tutti insieme » dice Marco Patucchi del comitato di redazione.
A fare impressione non sono solo le parole di Di Maio ma il " metodo" della nuova casta politica. Conferenze stampa senza domande, videomessaggi confezionati senza interlocuzione, nessuna intervista concessa a chi non ha intenzione di rinunciare al diritto di esercitare critiche o semplicemente porre delle domande. Si mettono in giro bufale come il finanziamento pubblico alla carta stampata che non esiste da un pezzo e riguarda solo alcune cooperative ( Manifesto e Avvenire, per altro appena espulsi dalla biblioteca di Monfalcone da una sindaca della Lega) e il non profit. Si minaccia di togliere la pubblicità delle aziende pubbliche alla stampa non asservita. O vi allineate o vi togliamo di mezzo, è il sottinteso, anche se la pubblicità delle partecipate è solo l’1,5% del totale.

il manifesto 10.10.18
Camusso difende la sua scelta: «Landini è il meglio per la Cgil»
Video agli iscritti della segretaria, ma l’area riformista continua a puntare su Colla
di Massimo Franchi

Il giorno dopo la nottata che dovrebbe riportare un ex segretario generale della Fiom a capo della Cgil (non succede dai tempi di Trentin nel 1988), la confederazione sindacale più grande del paese si ritrova divisa. Si tratta di un paradosso, visto che mai durante gli ultimi congressi si era presentata così unita con un consenso bulgaro sulla mozione principale in votazione nelle assemblee che porteranno all’assise di Bari dal 22 gennaio.
È la scelta di Susanna Camusso di proporre il nome di Maurizio Landini a venire contestata. Meglio: la parte più riformista contesta il metodo usato dall’attuale segretario, più che il nome dell’ex leader della Fiom.
Una questione procedurale che diventa però politica. A venire contestata è dunque la scelta di Camusso di individuare una figura come suo successore senza esser prima riuscita a far convenire sulla scelta un’ampia maggioranza dell’organizzazione.
Diverso fu il caso dell’entrata di Landini in segreteria confederale l’anno scorso. La riluttanza di Susanna Camusso fu vinta dalla volontà in particolare dei pensionati dello Spi di riunificare tutte le anime della Cgil nella segreteria.
Molti poi contestano a Camusso il fatto di aver puntato tutto su Serena Sorrentino, la giovane segretaria mandata a farsi le ossa alla guida dei «pubblici» della Fp, che però non ha riscosso il consenso necessario perché considerata non abbastanza esperta per il ruolo. La reazione a questa bocciatura – in questa visione – è stata la scelta, politicamente lontana, di Landini.
Il precedente storico indicato dai riformisti è quello della successione a Trentin. Nel 1994 l’allora segretario generale voleva proporre Alfiero Grandi ma dopo aver capito che la maggior parte dell’organizzazione era con Sergio Cofferati decise di affidare l’ascolto dell’organizzazione a cinque saggi.
Per rispondere a tutte queste critiche Susanna Camusso ha scelto uno strumento per lei assai inusuale. Un video che a sera è stato postato sui profili social della Cgil. Dopo che in mattinata da Bologna aveva spiegato come «c’è una linea politica e penso che lo sforzo che tutti debbano fare non è quello di pensare alle persone, ma a chi meglio può interpretare la linea decisa tutta insieme», Camusso ha deciso di spiegare direttamente agli iscritti come si era svolta la segreteria e il perché della sua scelta.
Parlando dalla stessa stanza in cui si è tenuta la sera di lunedì si è tenuta la segreteria («con un ritratto di Luciano Lama») Camusso ha subito rivendicato «al gruppo dirigente la necessità di fare una discussione positiva, non sui giornali». Un percorso fissato nel direttivo del 24 maggio che aveva previsto «un ascolto del gruppo dirigente a partire dalle camere del lavoro» territoriali. Un «asscolto molto positivo», spiega Camusso, che ha «disegnato le necessità dell’organizzazione di continuare nelle grandi battaglie in continuità a partire dalla contrattazione inclusiva e il consolidamento dell’autonomia».
Per Camusso dunque «è giusto che il congresso resti in mano agli iscritti e non di altri. E così, come hanno fatto tutti i dirigenti della Cgil, le proposte siano portati al Direttivo». Si arriva poi al passaggio decisivo: «La cgil che discute di sè e della sua prospettiva, di partecipazione e radicamento nel rapporto con i lavoratori e quindi in un ragionamento di pluralità della segreteria, in una valorizzazione del gruppo dirigente di questi anni, l’individuazione del compagno Landini a segretario generale risponde a quei principi di autonomia e di tenuta dell’organizzazione, di capacità di costruire processi unitari e di squadra di cui crediamo si abbia un grande bisogno», conclude Camusso augurandosi che non ci siano «intrusioni, perché la nostra organizzazione è profondamente gelosa della sua autonomia».
Cosa succederà ora? I tempi della Cgil sono sempre dilatati. Landini rimarrà in silenzio a lungo e così farà l’ala riformista, sebbene sotto traccia incontri e riunioni andranno avanti continuamente.
La convocazione del Direttivo in cui si chiariranno i posizionamenti è prevista per fine mese o al massimo inizio di novembre: un tempo ampio per consentire una possibile ricomposizione delle contrapposizioni che ieri hanno raggiunto il livello massimo. Un livello di guardia che ha portato Camusso a decidere di intervenire per parlare direttamente con i militanti.
L’ipotesi di una spaccatura congressuale è dunque ancora remota. Anche perché ad eleggere il prossimo segretario della Cgil sarà l’Assemblea generale durante il congresso di Bari composta più da rappresentati dei posti di lavoro che da funzionari delle varie federazioni territoriali e di categoria: una novità che favorisce sicuramente Landini.

Il Fatto 10.10.18
Landini segretario, una felpa rossa per scuotere la Cgil
A sinistra - Leader sindacale e voce anti-Salvini
di Salvatore Cannavò


La novità di una Cgil guidata da Maurizio Landini è ormai un fatto politico pari allo stupore che genera. Fino a qualche settimana fa nessuno poteva pensare che in una segreteria come quella tenutasi fino all’1,30 di lunedì sera, Susanna Camusso avrebbe sfidato il “niet” dello Spi, il sindacato dei pensionati, per candidare a segretario generale quello che è stato un suo avversario. Eppure la segretaria uscente ha attraversato il suo personale Rubicone appoggiata da otto dei dieci componenti della segreteria. I due contrari, tra cui Vincenzo Colla, candidato alternativo, si sono ufficialmente schierati all’opposizione. Che, come vedremo fra poco, sarà molto dura.
A dare il senso dello scontro interno c’è la decisione, inedita per una dirigente sindacale come Camusso, di pubblicare un video su Facebook in cui spiega i motivi della candidatura di Landini: “continuità” con la politica sindacale, “autonomia della Cgil” di fronte a possibili “incursioni esterne”, necessità di preservare “la squadra uscente e l’unità interna”. La segreteria, dice Camusso, ha scelto di dare un’indicazione, che porterà nei prossimo giorni al direttivo nazionale, perché “il congresso resti nelle mani dei militanti della Cgil”.
La novità giunge in un’organizzazione che da tempo mostra stanchezza. Pur vantando dei risultati – il contrasto al Jobs Act, il recupero di unità con Cisl e Uil, l’accordo sulla rappresentanza sindacale – Camusso è consapevole della difficoltà sul piano sociale al tempo in cui la sinistra ha toccato storicamente il suo punto più basso. Gli iscritti votano massicciamente M5S e Lega, anche se la maggioranza resta a sinistra. Anche questo, oltre alle lotte e agli equilibri interni, può aver fatto pendere la bilancia a favore del sindacalista emiliano. La cui felpa rossa potrebbe oggi fare da contraltare, almeno mediatico, alla felpa di Matteo Salvini.
Alcuni ricordano come nel 2015 fu proprio il leader leghista a invitare Landini alla scuola di formazione della Lega insieme a Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze greco. Landini rifiutò, per evidente distanza politica. “Con la Lega però abbiamo la stessa base” dicono in Cgil e una segreteria come quella di Landini può lavorare alla tenuta del radicamento storico, certo non sul piano elettorale ma sociale.
Allo stesso tempo Landini è quello che vanta i migliori rapporti con quella “società civile” che è tornata a manifestarsi dopo lo shock del 4 marzo: la manifestazione di Riace, la Perugia-Assisi, i vari comitati locali, gli studenti, il probabile futuro segretario della Cgil ha già dialogato con mondi diversi e può rappresentare una novità anche politica che non tarderà a manifestarsi nel dibattito del Pd. Ne è riprova il corteggiamento dell’ex ministro Andrea Orlando che lo ha cercato per combinare un incontro con Nicola Zingaretti.
Landini però può utilizzare anche la sponda che Luigi Di Maio sembra voler offrire al sindacato. L’accordo sull’Ilva, poi quello sulla Bekaert, che la Fim Cisl ha salutato come “storico”, la partecipazione al tavolo della Whirlpool, la gestione della crisi BredaMenarinibus, la cassa integrazione per cessazione, mai come in questa fase il Ministero dello Sviluppo ha manifestato attenzione verso il mondo del lavoro.
La candidatura dovrà però fronteggiare un’opposizione interna che si annuncia molto agguerrita. Il segretario dello Spi-Cgil, Ivan Pedretti, principale sostenitore della candidatura Colla, ha già convocato per sabato mattina la sua categoria. I Pensionati rimproverano a Camusso di non aver “tenuto insieme le diversità”. Per questo hanno proposto un “comitato di saggi” che consultasse i dirigenti per poi arrivare a una proposta finale. Un modello già sperimentato al tempo delle dimissioni di Bruno Trentin. Lo scontro è però sostanziale e non formale: i Pensionati vogliono contare di più, manifestano una forte identità e vantano un rapporto con la sinistra tradizionale che non vogliono mettere in discussione, come invece è avvenuto al tempo del referendum costituzionale con la Cgil schierata per il No. E poi lo Spi rappresenta il 50% dell’organizzazione ma in base a un “patto di solidarietà” interno non va oltre il 25% degli incarichi. Ora quel patto potrebbe rompersi: “Dipende da come si arriva al voto finale” che comunque avverrà a gennaio quando sarà eletta la nuova Assemblea generale che per statuto elegge il segretario. In quella occasione Landini potrebbe anche essere bocciato. Ma può davvero il primo sindacato italiano fare fuori una candidatura come quella di Landini sulla spinta dei pensionati? Sarebbe questo il suo sguardo sul futuro?

Il Fatto 10.10.18
L’Ugl è roba sua: il sindacato si butta sulla Lega
Relazioni - C’erano una volta Polverini, Meloni ed ex An: adesso anche qui arrivano i verdi
di Gianluca Roselli


La foto è in ancora in home page sul sito dell’Ugl, l’Unione generale del lavoro, il sindacato storico della destra italiana che un tempo era Cisnal. Matteo Salvini, Marine Le Pen e Paolo Capone, ultimo segretario eletto, sorridenti in favore di obiettivo. L’incontro tra il ministro dell’Interno e la leader del Front National, due giorni fa a Roma, si è svolto nella sede dell’Ugl, in via delle Botteghe Oscure. Dove ormai Salvini è il padrone di casa. Con buona pace di Giorgia Meloni e del mondo degli ex An, che si sono lasciati scippare il sindacato da sotto il naso. La salvinizzazione dell’Ugl è in corso da circa un anno e mezzo, da quando in Lega si sono accorti di aver bisogno di una rete, anche sociale, su cui appoggiarsi nel centro Italia. Che è da sempre il serbatoio di adesioni del sindacato che fu di Renata Polverini. E ai vertici Ugl non è parso vero di potersi rapportare con il partito in ascesa del centrodestra. Così la tela a iniziato ad esser tessuta, anche grazie all’interlocuzione di parlamentari leghisti laziali, come Barbara Saltamartini e il vicecapogruppo alla Camera Francesco Zicchieri, che è anche coordinatore regionale del Carroccio. Tutti ex An.
Una rete che ha portato l’ex vice segretario dell’Ugl, Claudio Durigon, prima a essere eletto deputato (con la Lega) e poi a entrare nel governo come sottosegretario al Lavoro. E ora, in vista delle Europee, si parla di altre candidature in arrivo, come quella dello stesso Capone, anche se la partita a Strasburgo è più difficile.
La sintonia dell’Ugl con la Lega, del resto, è lampante, basta leggere i comunicati stampa e scorrere i profili Twitter per imbattersi in giudizi positivi nei confronti dell’esecutivo e del Def, e in critiche “sovraniste”, anche feroci, a Bruxelles. Ultima sortita pubblica di Capone, per esempio, è stata alla festa della Lega a Latina il primo ottobre scorso, dove si è potuto toccare con mano la svolta pro-Salvini degli ex An pontini e non solo. L’ex direttrice del Secolo, Flavia Perina, su La Stampa ne fa un discorso quasi antropologico, con gli ex An che avrebbero preferito Salvini a Meloni a causa di una “nostalgia inespressa per il maschio alfa”, che ora si incarna a suon di “me ne frego” e “molti nemici molto onore” in Salvini che, alla festa di Atreju, si è diviso il palmares degli applausi con Steve Bannon.
Naturalmente, poi, la questione non è solo politica, perché nella “salvinizzazione” dell’Ugl contano poi gli interessi di bottega, il consenso sul territorio, la costruzione e il successo dei candidati. Si racconta, per esempio, che le liste leghiste dell’Italia centrale alle Politiche siano state decise proprio nelle stanze del sindacato. Ma forse sono leggende metropolitane. “Si sono consegnati mani e piedi a Salvini”, attacca qualche ex An. “Non ci siamo iscritti alla Lega o al Front National. Però che il superamento della Fornero, che noi auspichiamo da anni, l’abbia fatto questo governo è un fatto…”, osserva il vice segretario Ugl Luca Malcotti. Ora però c’è l’Europa da conquistare. E il rapporto privilegiato tra Lega e Ugl è destinato a durare.

La Stampa 10.10.18
Risparmi sugli stipendi e zero investimenti
La manovra del governo trascura la scuola
di Flavia Amabile


Bisogna arrivare a pagina 95 della Nota di aggiornamento del Def per trovare il capitolo istruzione. Quattro pagine fitte di parole, nessuna cifra. È il documento su cui punta gli occhi il mondo della scuola che ha voltato le spalle al Pd dopo il malcontento creato dalla legge 107. Il Movimento Cinque Stelle sa di dover soddisfare le aspettative di decine di migliaia di persone e Luigi Di Maio ancora ieri provava a rassicurare tutti: «Nella legge di Bilancio non ci sarà un solo centesimo tagliato al mondo della scuola né a quello dell’università, neanche un centesimo sarà decurtato per gli stipendi dei docenti. Anzi, nel Def abbiamo scongiurato il calo di retribuzione previsto dal vecchio governo individuando i fondi necessari affinché questa riduzione non ci fosse».
La riduzione dello 0,4%
In realtà quello che si legge nella Nota è diverso. L’unica cifra che interessa la scuola si trova sessanta pagine prima, nel capitolo sui «Dati di consuntivo» e si riferisce a tutti i lavoratori pubblici. Prevede che i redditi da lavoro dipendente della pubblica amministrazione si ridurranno dello 0,4% in media nel biennio 2020-2021. Fino al 2021, quindi, gli stipendi del personale della pubblica amministrazione, tra cui il personale della scuola, subiranno una riduzione media dello 0,4% con un risparmio pari a oltre un miliardo di euro per tutto il settore pubblico e a almeno 300 milioni per quel che riguarda solo la scuola. Il risparmio, spiegano i tecnici dei sindacati, è dovuto soprattutto all’uscita di personale più anziano che verrà sostituito da persone più giovani e in molti casi meno onerose per le casse dello Stato. Ma potrebbe anche esserci un vero e proprio taglio degli stipendi come denuncia Stefano Capello del sindacato di base Cub-Sur: «I nostri stipendi verranno tagliati non solo più dal punto di vista del salario reale ma anche da quello nominale. Per la scuola il cambiamento si traduce nell’abbassamento degli stipendi».
Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha confermato ieri al Tg1 che l’obiettivo è di «avere docenti giovani nelle scuole». Il motivo? «Hanno la capacità di soddisfare bisogni primari» e cita come esempio l’uso di nuove tecnologie. Almeno altri cinquanta milioni dovrebbero essere risparmiati attraverso il dimezzamento delle ore di alternanza scuola-lavoro annunciato dal ministro ma nella Nota non ci sono cifre a questo proposito.
Una lista di intenzioni
Non ci sono nemmeno segnali che potrebbero far immaginare la voglia di puntare sul mondo della scuola immettendo risorse. Il documento è soprattutto una lunga lista di intenti: aggiornamento dei docenti, lotta contro l’abbandono scolastico, ammodernamento delle strutture, internalizzazione dei servizi di pulizia. Nessuna cifra, nessun dettaglio. «Una scatola vuota», commenta Maddalena Gissi, segretaria generale della Cisl scuola. «Può essere riempita di impegni concreti ma può anche rimanere vuota come la scatola per la raccolta delle elemosine», conclude. Poco convinto anche Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc-Cgil: «Per noi sono prioritari gli investimenti diretti nella conoscenza. Su questo fronte per il momento le iniziative del governo ci sembrano deboli».
Nel documento si precisa anche che ci sarà l’autonomia differenziata, con l’attribuzione di particolari poteri alle Regioni a statuto ordinario. Molti temono che sia un modo per introdurre un tema caro alla Lega, il reclutamento regionale. Ma i Cinque Stelle si sono affrettati a smentire. «La regionalizzazione non è prevista dal contratto di Governo», ricordano senatrici e senatori del Movimento in commissione Cultura.

il manifesto 10.10.18
In Brasile è tempo di «organizzare la speranza»
Intervista. Il dirigente del Movimento senza terra Ernesto Puhl: «Bivio drammatico tra civiltà e barbarie. Ma Haddad può ancora farcela»
Rio de Janeiro, sostenitori di Fernando Haddad con la «L» di Lula e lo smartphone con la scritta «Noi siamo la dimensione dei nostri sogni»
di Claudia Fanti


Haddad non è più solo Lula. Haddad è il Brasile democratico, e non solo. Haddad non è la sinistra – che è un’altra cosa -, ma è un argine all’offensiva del capitale, che non ha frontiere, contro la classe lavoratrice, che invece l’estrema destra vorrebbe rinchiudere entro confini sempre più angusti.
Haddad è, insomma, una risposta democratica a ogni spinta neofascista, anche in Italia, dove Salvini ha reagito al risultato del primo turno delle elezioni brasiliane come c’era da attendersi: «Il vento sta cambiando ovunque. Non capisco alcuni giornalisti italiani che danno del “razzista-nazista-xenofobo” a chiunque solo perché chiede più ordine e sicurezza per i cittadini».
Bolsonaro è l’espressione tragicomica dell’onda ultraconservatrice che pensa di risolvere tutto mettendo a ferro e fuoco il Paese
Sul pericolo rappresentato da Bolsonaro dopo il voto di domenica e sulle prospettive per il paese abbiamo interrogato Ernesto Puhl, dirigente di quel Movimento dei senza terra che, nei suoi oltre 30 anni di lotta, è riuscito a trasformare un esercito di esclusi in un soggetto politico forte, cosciente e combattivo.
Come valuti i risultati del primo turno?
Sono risultati che sorprendono e fanno paura. La società brasiliana si trova di fronte a uno storico bivio – civiltà o barbarie, rilancio della democrazia o ritorno della dittatura -, come non era mai successo dalla ridemocratizzazione del paese. Nel clima di estrema polarizzazione che si respira nella società, l’estrema destra di Jair Bolsonaro ha portato avanti la propria narrazione attraverso le reti sociali, scatenando da lì la sua campagna d’odio a base di fake news. E per questa via è riuscita ad assicurarsi una forte presenza all’interno del Congresso, ottenendo il sostegno delle lobby dei latifondisti, degli evangelici e dell’industria delle armi. La sinistra è stata molto più presente per le strade, tentando di dare visibilità al proprio progetto di paese, ma, pur avendo ottenuto il maggior gruppo parlamentare alla Camera dei deputati, non è riuscita a frenare l’onda fascista nel Sud e nel Centro-Ovest.
Come è possibile che Bolsonaro sia percepito dalla popolazione come un candidato anti-sistema?
Bolsonaro è l’espressione tragicomica dell’onda ultraconservatrice presente nella società brasiliana, quella che pensa di risolvere i problemi del paese mettendolo a ferro e fuoco. Si presenta come il paladino dei buoni costumi e della famiglia tradizionale, come il candidato estraneo alla cricca dei politici corrotti. In realtà è una figura senza contenuti (nei suoi 27 anni di vita parlamentare è riuscito a far approvare appena due progetti), uscita dalle caverne di un passato che sembrava superato. Una marionetta manovrata dalla destra imperialista per servire gli interessi del grande capitale.
Fernando Haddad con Dilma Roussef
La crescita dell’estrema destra è iniziata già durante l’amministrazione di Dilma Rousseff. Sono stati commessi errori che hanno favorito questo fenomeno?
È a partire dalle manifestazioni di protesta del 2015 contro Dilma Rousseff – un effetto della recessione dovuta alla crisi economica internazionale – che ha iniziato a imporsi, dietro la bandiera della lotta alla corruzione, un discorso fortemente conservatore, moralista, antidemocratico e anti-popolare, lanciato dall’élite brasiliana e accolto dalla classe media. Il fatto è che, occupando lo spazio istituzionale, il Pt si è dimenticato di alcune sue bandiere storiche, a cominciare dal compito di formare i militanti, di organizzare la classe lavoratrice, di operare cambiamenti strutturali: la riforma politica, la riforma agraria, la riforma urbana, quella dei mezzi di comunicazione, quella della giustizia. Ma non è per i suoi limiti che si è scatenata la campagna d’odio contro il Pt, bensì per i suoi successi: per il fatto di aver costruito il più grande programma di politiche sociali mai registrato nella storia del Brasile.
Perché, allora, anche tra i settori popolari ha fatto breccia il discorso di Bolsonaro?
I governi del Pt hanno puntato sulle politiche pubbliche, sulla crescita dei livelli di consumo e sullo sviluppo del mercato interno, sulla base di un modello di conciliazione di classe che ha portato grandi vantaggi anche al settore finanziario, a quello dell’agroindustria e a quello delle infrastrutture. Nel portare avanti questo progetto, però, il Pt ha rinunciato alla lotta di classe, trascurando la formazione politica, ideologica e culturale della popolazione brasiliana. Con conseguente de-ideologizzazione della società.
Fan della dittatura militare e delle fake news, al primo turno Jair Bolsonaro ha preso il 46%
Se Haddad riuscisse nell’impresa di capovolgere il risultato del primo turno, quanti margini avrebbe per governare?
La priorità è ora vincere il ballottaggio per scardinare l’offensiva del capitale contro la classe lavoratrice, bloccando il tentativo, in atto ovunque nel mondo, di scaricare sui lavoratori i costi della crisi internazionale. Haddad può ancora farcela, ma quale governo potrebbe nascere con un Congresso tanto reazionario? La sfida è quella di costruire la governabilità sulla base di una concezione di democrazia partecipativa, in maniera che il popolo si senta parte di un progetto che ha contribuito a elaborare. Bisogna combattere le espressioni conservatrici e fasciste all’interno della società ristabilendo lo Stato democratico di diritto, recuperando la sovranità sulle risorse naturali e sulle fonti energetiche. E questo è possibile farlo solo mobilitando il popolo in difesa del progetto democratico popolare.
Qual è in tutto ciò il ruolo dei movimenti sociali?
Nella resistenza contro quest’onda neofascista i movimenti popolari, i settori più progressisti delle chiese, i sindacati sono chiamati a dare una risposta all’altezza della sfida che il paese si trova ad affrontare, organizzando la società e facendo formazione. Se non dialoghiamo con il popolo nei quartieri, per le strade e nelle reti sociali, uscendo dalla bolla in cui raggiungiamo solo chi è già convinto, non riusciremo a sconfiggere il fascismo e a disputare l’egemonia nella società. Perché chi è che sta occupando lo spazio delle periferie? Sono gli evangelici. È la Rede Globo, che arriva tutti i giorni nelle case della popolazione. Noi di sinistra abbiamo bisogno di riprenderci questo spazio che abbiamo abbandonato. Secondo le parole del poeta Pedro Tierra, dobbiamo «organizzare la speranza, guidare la tempesta, rompere i muri della notte».

La Stampa 10.10.18
Messico, bambini rapiti e donne fatte a pezzi per vendere reni e polmoni
di Emiliano Guanella


La scusa che Patricia usava per far venire le donne a casa sua era che le erano arrivati dei vestiti e dei profumi nuovi, che stava vendendo a prezzi buonissimi.
Varcata la porta, per le vittime, quasi tutte ragazze madri tra i 20 e i 30 anni, era la fine. Juan Carlos, suo marito, le picchiava e violentava e poi si dedicava a tagliarne i corpi, dividendo i resti in sacchi di plastica, mentre reni e polmoni finivano in un frigorifero, tanto che gli inquirenti sospettano un traffico di organi. Una storia piena di particolari macabri. Secondo le testimonianze dei vicini, la coppia era solita camminare per il quartiere, portando a spasso un passeggino, che è stato trovato dalla polizia a casa loro, pieno zeppo di resti umani. Tutto è successo ad Ecapetec, città di 1,5 milioni di abitanti a 25 chilometri da Città del Messico. Una metropoli famosa per la violenza che regna nelle sue strade, la cattiva gestione dei suoi amministratori e la corruzione delle sue forze dell’ordine.
Dove la morte è di casa
Un inferno sulla terra, dove la morte è di casa. Gli inquirenti sono arrivati alla coppia di assassini nell’ambito dell’inchiesta sulla scomparsa di Nancy Huitron, ragazza di 28 anni sparita agli inizi di settembre assieme a sua figlia Valentina, di due mesi. Dopo aver lasciato i due figli maggiori a scuola, di Nancy e delle neonata si sono perse le tracce. I famigliari hanno sparso la voce nel quartiere, fino a quando, testimonianza dopo testimonianza, i sospetti non sono calati sulla strana coppia. L’uomo ha confessato di essere l’autore di altri tre omicidi, ma secondo il giudice a carico dell’inchiesta le vittime potrebbero essere molte di più. Il riconoscimento dei resti umani trovati nella loro casa potrà durare diverse settimane: la maggior parte dei pezzi di cadavere si trova in stato di putrefazione. Gli organismi in difesa dei diritti umani stanno raccogliendo il Dna dei parenti delle donne scomparse negli ultimi anni in città, per confrontarli con i referti.
«Non sono un delinquente»
La piccola Valentina era stata venduta, ma la polizia è riuscita a recuperarla, e da lì è partita una delle piste che hanno portato alla coppia di assassini. I due presentano disturbi psichici, ma secondo i medici legali che li hanno esaminati sono capace di intendere e di volere, e sapevano perfettamente cosa stavano facendo. Non danno segni di pentimento. Al momento dell’arresto, l’uomo ha chiesto di poter farsi una doccia e vestirsi con un abito, perché non voleva essere confuso con un «lurido delinquente». Ora si sta cercando di ricostruire lo schema attraverso il quale venivano commercializzati i resti e gli organi estratti alle vittime. Il caso ha sconvolto la città. Il Messico è, assieme al Brasile, il Paese con il più alto numero di femminicidi dell’America Latina, che è a sua volta il continente dove muoiono più donne. Ecapetec e lo stato del Messico sono l’epicentro del problema, con cifre che superano la scia di morti di Ciudad Juarez, la città sulla frontiera con gli Stati Uniti, dove dal 1995 al 2003 sono state uccise più di 400 donne.
L’impunità totale
Le vittime sono sequestrate, violentate e uccise in pieno giorno, mentre vanno al lavoro o lasciano i figli a scuola, in un clima di totale impunità. O muoiono a causa della violenza domestica, spesso nel silenzio di vicini e famigliari. Le cifre ufficiali parlano di 63 vittime nel 2017, ma si sospetta che siano molto di più. Nei primi quattro mesi dell’anno sono scomparse 207 donne. Secondo il giornalista Humberto Padget, autore del libro inchiesta «Las muertas del Estado» (Le morte dello Stato) le donne uccise nella regione possono essere di dieci volte superiori a quelle contabilizzate nel peggior periodo di Ciudad Juarez. In genere, meno del 20% dei casi di violenza sulle donne viene denunciato. Ecapetec è attraversata da un canale d’acqua sporca e nauseabonda. Nel 2014, l’acqua nera cominciò a esondare allagando le strade vicine; quando i tecnici del Comune andarono a pulire il canale, trovarono decine di cadaveri femminili intrappolati nei condotti. Donne scomparse da tempo, ma che la polizia non aveva mai cercato veramente.

Corriere 10.10.18
Il reportage: la rotta africana
Alle porte del Sahara
dalla nostra inviata a Agadez Alessandra Muglia


Viaggio in Niger, ad Agadez, dove la Ue investe
per favorire i ritorni dei migranti e aiutarli a casa loro
«Aspetto di ricevere fondi da 6 mesi: non arriva nulla»
La barriera di militari si rafforza ma la porta del deserto è tutt’altro che chiusa. Agadez, antica tappa carovaniera nel cuore del Niger, da crocevia dei migranti diretti a Nord sembrava diventata una meta forzata per chi ritorna a Sud, in fuga dalla Libia o espulso tra le dune dall’Algeria. Effetto della legge che criminalizza il trasporto di migranti. Una misura entrata in vigore due anni fa su pressione della Ue. Ma ai confini del Sahara, dove l’Europa ha spostato la sua frontiera meridionale, molti di quelli che tornano sono pronti a ritentare l’«avventura» verso il Mediterraneo, costi quel che costi.
«So bene che passare in Libia ora è molto più rischioso, ci ho già provato tre volte, sono stato anche in carcere per questo, ma la mia famiglia ha pagato, non posso tirarmi indietro». Aboubacar Diba, originario del Gambia, tiene botta agli operatori dell’Oim che cercano di dissuaderlo. Vive in un quartiere di «ghetti», baracche di terra rossa appoggiate sulla sabbia, rifugio dei migranti in partenza. «Ho un diploma in business management ma in Gambia non c’è niente da gestire, devo sfamare i miei figli» dice. Rachi, connazionale 36enne, ci fa accomodare, i bidoni dell’acqua come sedie. «Ma voi cosa potete fare per noi?» chiede. Anche lui non vuole saperne di tornare a casa. «Dite che ci supportate a iniziare una nuova vita nei nostri Paesi, ma amici già rientrati dopo sei mesi non hanno visto nulla e ora vogliono rimettersi in viaggio». Scuote la testa Livia Manente, dell’Oim, l’agenzia che con fondi europei supporta i migranti «pentiti»: «Dovete darci tempo, non distribuiamo soldi ma finanziamo progetti personalizzati, come un piccolo business o la ripresa degli studi» chiarisce.
Un’idea buona sulla carta, premiata da adesioni in crescita: i migranti nei 7 centri in Niger sono lievitati dai 7095 del 2017, agli oltre 12mila di quest’anno. Ma se avviare migliaia di progetti nei Paesi d’origine richiede uno sforzo enorme, un’attesa di mesi rischia di vanificarlo. Emblematico il caso di Arouna, 26 anni, scappato dal Camerun, ributtato indietro dal Marocco e poi dall’Algeria, infine soccorso ad agosto dall’Oim. Era stremato. Al centro di transito di Agadez ci aveva raccontato dell’idea di tornare e aprire un negozio. Finanziamento previsto: mille euro. Ma a pochi giorni dal rientro è già disperato. Si fa vivo via Whatsapp: «C’è gente che dopo 5 mesi non ha ricevuto niente».
È forte la tentazione di unirsi ai migranti in partenza da Agadez. Che risultano in forte calo: dai 330 mila registrati dall’Oim nel 2016 ai 20 mila del 2018. «Sembrano meno perché non passano più per le rotte principali. Ma ogni giorno i migranti arrivano qui e partono» assicura Bachir Amma, fondatore dell’associazione di ex passeur, addetti al trasporto dei migranti. Il cortile in terra battuta di casa sua era un «ghetto». «Avevo il permesso, pagavo tasse e pedaggio per l’uscita dei veicoli, con un convoglio scortato dai militari. Tutto regolare. Poi un lunedì di due anni fa hanno sequestrato centinaia di pick up e incarcerato gli autisti — racconta — In Niger abbiamo tante leggi, ma poche sono applicate come questa». Un diplomatico europeo a Niamey definisce «eccellente» la cooperazione del Paese.
Il Paese più povero al mondo dopo la Repubblica Centrafricana è pagato profumatamente per questi sforzi da un’Europa desiderosa di ridurre i flussi: oltre un miliardo i fondi destinati al Niger fino al 2020, con centinaia di milioni in progetti per contrastare il traffico di migranti e «aiutarli a casa loro». L’Europa canta vittoria sul calo degli sbarchi. Ma è una «vittoria» a metà. Per sfuggire ai controlli, vengono aperte nuove rotte, «più pericolose, di notte» conferma Amadou, ex guida di pick up. Muoiono di più e ne arrivano di meno. Frequenti i casi di migranti abbandonati nel Sahara da autisti che temono il carcere: l’Oim ne ha recuperati oltre 9 mila in due anni. «Per fermare i migranti bisogna dare una reale alternativa a quanti fanno business con loro — si scalda Amma —. Abbiamo smesso in 6.565, ma sa quanti hanno ricevuto gli aiuti promessi per nuove attività? Soltanto 371».
Nel «ghetto» di Rachi, c’è anche Jabab, ragazzino «venduto» in Benin, dove resiste la tradizione tra i poveri di affidare i figli a famiglie facoltose con l’illusione che li facciano studiare, salvo poi farne dei piccoli schiavi. «Sono scappato due anni fa, avevo 15 anni. Se raggiungo l’Europa, voglio fare il calciatore, sono bravo, sai?».

Corriere 10.10.18
Ricorso al Tar per le motovedette libiche
di Monica Ricci Sargentini


Governo Gentiloni sotto accusa per l’utilizzo di parte dei soldi del Fondo Africa per finanziare il funzionamento delle motovedette libiche. Oggi il Tar del Lazio esaminerà il ricorso presentato dall’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, cui si sono unite Amnesty International, l’European Council on Refugees and exiles (Ecre) e l’International Commission of Jurists-European Institutions (Icj). Era stato il governo Renzi con la legge di bilancio 232/2016 a stanziare 200 milioni di euro «per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i Paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie». Ma nel 2017 l’allora presidente del Consiglio Paolo Gentiloni insieme all’allora ministro dell’Interno Marco Minniti e a quello degli Esteri Angelino Alfano avevano deciso di destinare due milioni e mezzo di euro alle competenti Autorità libiche «per migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso». In particolare gli aiuti italiani sono serviti a rimettere in efficienza quattro motovedette e ad addestrare l’equipaggio destinato a guidarle. Un uso inappropriato di quei soldi secondo i ricorrenti, soprattutto tenendo presente il fatto, come ha sottolineato Amnesty, che «le autorità libiche nella gestione dei migranti compiono gravi violazioni dei diritti» e l’Italia non dovrebbe quindi finanziarle. Anche perché, come ha ammesso ieri il ministro degli Esteri Enzo Moavero, «la Libia non può considerata porto sicuro». Per l’avvocatura dello Stato, che difende il governo, il ricorso è inammissibile perché gli atti di governo non sono impugnabili davanti al Tar, per Asgi e Amnesty si tratta,invece, di atti amministrativi certamente discutibili davanti ad un giudice e non «atti di governo» per il solo fatto che hanno ad oggetto le politiche migratorie . Toccherà ai giudici del Tar sbrogliare la questione che ha assunto, inevitabilmente, un valore politico.

Corriere 10.10.18
«Questo è il tempo del coraggio»
Chimamanda Ngozi Adichie alla Buchmesse: al mondo serve una voce nuova
Francoforte Al via la 70ª edizione della fiera del libro tedesca. Presenti più di 7.100 espositori da oltre 100 Paesi
dalla nostra inviata Alessia Rastelli


FRANCOFORTE «Questo è il tempo del coraggio. Di dire che una bugia è una bugia, di sapere che cosa è vero e cosa no. Ed è anche il tempo di una nuova narrazione, che rappresenti la diversità delle voci. E non perché siamo politicamente corretti, ma perché vogliamo essere accurati, rappresentare la realtà nella sua complessità». La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie apre nel nuovo spazio del Frankfurt Pavilion, nel cuore della fiera, la settantesima Buchmesse.
L’autrice di Americanah (2013) e di Dovremmo essere tutti femministi (2014, editi entrambi in Italia da Einaudi), che ha fatto dell’affermazione dell’identità di genere e di quella razziale la sua battaglia, è la testimonial perfetta della rassegna che apre oggi e che cade anche nel settantesimo anniversario (il 10 dicembre) della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Oltre a essere la più importante fiera per i diritti, la Buchmesse mostra di voler rafforzare — ora che le trattative avvengono spesso online — il ruolo di attore culturale e civile. Specie in tempi di nuovi populismi e fake news, ripetono Juergen Boos, direttore della Buchmesse e Heinrich Riethmüller, alla guida dell’Associazione degli editori e librai tedeschi.
Chimamanda sale sul palco proprio con Boos e Riethmüller. E parte da aneddoti biografici: «Sono nata cattolica, poi però quando da adulta sono tornata in chiesa non volevano farmi entrare perché avevo le braccia scoperte». Già lì capii, dice, che «gli uomini hanno bisogno di controllare le donne». Poi, ancora dalla sua storia personale: «Quando sono andata a studiare negli Stati Uniti ho capito che esisteva un’altra categoria, essere neri». Su entrambi i fronti, dice, «non possiamo restare in silenzio», ed è a questo punto che sottolinea l’esigenza di un nuovo storytelling. Non si sente un’attivista, dice, distingue sé stessa in quanto cittadina e in quanto scrittrice. Ma «la letteratura può parlare di politica. Da sola non sempre basta, ma ne abbiamo comunque bisogno: un’esigenza emotiva, ancor prima che strettamente politica».
L’inaugurazione
Che sia il tempo del coraggio lo dice anche Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, invitata a inaugurare la Buchmesse. «Abbiamo ricevuto dai nostri antenati una grande eredità culturale, ma il futuro va costruito», osserva. E torna sul tema dell’identità, quella europea, fatta di «unità nella differenza». Secondo Mogherini un’idea per promuovere la comune eredità del Vecchio Continente «potrebbero essere istituti della cultura europea nel mondo». Nella cerimonia il direttore Boss sottolinea che «la Buchmesse è un posto di libertà, che garantisce il pluralismo». Un’implicita risposta forse alle polemiche, riemerse sulla stampa tedesca, per l’apertura a editori di estrema destra.
All’inaugurazione partecipa anche Mamuka Bakhtadze, primo ministro della Georgia, Paese ospite della fiera 2018, che accoglie più di 7.100 espositori da oltre 100 Paesi.
Oggi si inaugura, alla presenza del ministro Alberto Bonisoli, lo Spazio Italia, stand del nostro Paese, da cui arrivano 249 editori. Assegnato invece ieri il premio Deutscher Buchpreis per il miglior libro tedesco, andato per la prima volta a una donna: Inger-Maria Mahlke per il romanzo Archipel (Rowohlt).
Gli scambi
L’area della Buchmesse per lo scambio dei diritti apre oggi. Ma già ieri, all’hotel Frankfurter Hof, si stringevano accordi. Per ora non c’è un titolo che si staglia, ma diversi che suscitano attenzione. Emergono la saggistica e la narrativa che attinge dall’attualità o dalla storia. Ad esempio il thriller The Kingfisher Secret, in cui sono ritracciabili le relazioni tra Trump e Putin, acquistato da Longanesi e già titolo caldo della fiera. Autore: uno scrittore americano che mantiene l’anonimato. «Il fatto che non ci sia un unico titolo che spicca rende migliore la fiera», nota la scout Catherine Eccles, alla guida dell’agenzia Eccles Fisher Associates, con sede a Londra. I titoli che stanno suscitando più movimento sono, secondo la scout, alcuni romanzi di esordienti: Ça Raconte Sarah di Pauline Delabroy-Allard e La hija española di Karina Sainz Borgo, acquistato da Einaudi Stile libero.
Non solo: anche Poverty Safari del rapper Darren McGarvey. Va forte l’italiana Viola Ardone con I treni dei bambini, non ancora uscito e curato dall’agenzia Alferjprestia, che si candida a essere uno dei più contesi, già acquistato da Einaudi Stile libero. Il romanzo parte dalla storia del ’900: dai periodi che i bambini del Sud trascorrevano in una famiglia del Nord, via Pci, per strapparli alla povertà.
Gli italiani
La Buchmesse 2018 è la prima della casa editrice Solferino. «Il mercato internazionale dei diritti ci ha accolto con grande attenzione e curiosità», dice Giovanna Canton, editor della narrativa e saggistica straniere. «Sono state notate le acquisizioni di grandi autori giornalisti: Farrow, Altan, Kakutani, che si completano con la recente operazione Woodward. È un filone che vogliamo perseguire con forza. Ma siamo orgogliosi anche delle acquisizioni di questi giorni nella narrativa straniera, in particolare de La vraie vie di Adeline Diuedonné, prima in Francia, che ha venduto 100 mila copie in 4 settimane». Tra le acquisizioni recenti di Solferino anche Where the Craw- dads sing dell’americana Delia Owens, nella classifica del «New York Times».
Conferma l’interesse per Ardone e Sainz Borgo, la scout, scrittrice e giornalista, Cristina De Stefano (libro più recente: Scandalose. Vite di donne libere, Bur). E cita tra i titoli più gettonati Addio ai fantasmi di Nadia Terranova (Einaudi Stile libero), M di Antonio Scurati (Bompiani), L’incredibile viaggio delle piante di Stefano Mancuso (Laterza).
«Abbiamo venduto a Mondadori il nuovo thriller di Thomas Harris, autore della saga di Hannibal Lecter», fa sapere Marco Vigevani, agente pure di M e The Kingfisher Secret. Divorare il cielo di Paolo Giordano (Einaudi) è stato venduto in 11 Paesi e vanno forte The Game di Alessandro Baricco (Einaudi Stile libero) e Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya di Paolo Cognetti che uscirà per Einaudi il 6 novembre.

Repubblica 10.10.18
La strategia
Il colosso di Internet
Falle nel software e addio al Pentagono l’ora buia di Google
Il gruppo lancia il nuovo smartphone Pixel 3 ma pesano i problemi di sicurezza di Google+
di Alberto Flores d’Arcais


NEW YORK Qualcuno, quando le note dei Beatles hanno dato il via all’evento, non è riuscito a trattenere le risa. In effetti la scelta di Help, colonna sonora per annunciare in grande stile a New York il Pixel 3, è sembrata quasi ironica.
Perché il "D-Day" di Google, da giorni strombazzato come la definitiva risposta del gigante di Mountain View ai suoi potenti avversari (Apple e Amazon in primis), è stato funestato alla vigilia dall’ennesima falla informatica: che ha messo a rischio i dati di 500 mila utenti di Google+, il social network della real casa californiana.
Come non bastasse, nel giorno del grande evento Google ha dovuto anche annunciare il definitivo fallimento della sua partnership con il Pentagono.
Dopo aver già rinunciato qualche mese fa a un altro contratto con il ministero della Difesa, ieri ha fatto sapere che non parteciperà al bando per il progetto Jedi (Joint Enterprise Defense Infrastructure) per i servizi cloud delle forze armate degli Stati Uniti. Un affare del valore di 10 miliardi di dollari, che prevede la migrazione su cloud commerciali di tutti i dati del Pentagono. «Non partecipiamo al bando prima di tutto perché non abbiamo rassicurazioni sul fatto che Jedi rispetterebbe i nostri principi sull’Intelligenza Artificiale», la motivazione ufficiale di Google, una mossa che risponde alle crescenti pressioni dei lavoratori della Silicon Valley (e in genere delle aziende hi-tech) sull’utilizzo delle nuove tecnologie per scopi militari, che sta coinvolgendo ad esempio anche lo sviluppo dei cosiddetti "robot killer".
Una vittoria che la Tech Workers Coalition, sorta di nuovo sindacato nato per "dare più voce ai lavoratori dei gruppi digitali" ha subito rivendicato via Facebook: «Google aveva tutte le intenzioni di partecipare a questo appalto e se possibile di vincerlo. L’unica ragione per cui si sono ritirati è perché i lavoratori hanno preso posizione».
All’evento di New York l’azienda evita accuratamente le polemiche. Il nuovo smartphone (il Pixel 3) presentato insieme al nuovo tablet (2 in 1) e a un display da salotto (Google Home Hub) era l’occasione per rilanciarsi dopo qualche caduta di troppo e sul palco Rick Osterloh — che è a capo della divisione hardware — li ha illustrati con attenzione, ricordando come l’evento cada nel ventennale di vita di Google.
Il clima a Mountain View tuttavia non è dei più sereni. Ad aprile, mentre Mark Zuckerberg veniva interrogato dal Congresso per il caso Cambridge Analytica, e i regolatori europei accendevano i fari sulle violazioni dei dati degli utenti di Facebook, Sundar Pichai, l’amministratore delegato di Google, disse di non essere affatto «preoccupato per il nuovo regolamento sulla privacy» europeo. L’inchiesta del Wall Street Journal sulla falla nel software di Google + racconta una realtà un po’ diversa: i dirigenti di Google che si sono accorti del bug a marzo hanno preferito non rendere pubblico l’accaduto perché avrebbe «sollevato l’immediato interesse dei regolatori». L’azienda ora ha annunciato che Google+ verrà chiuso per i consumatori e resterà attivo solo per le aziende. Questa decisione e il lancio dei nuovi prodotti saranno sufficienti a rilanciare big G nella sua lotta per il predominio digitale? La risposta come sempre dipenderà dai clienti, un po’ scottati dalle ultime vicende. Non che per gli altri "competitor" siano tutte rose e fiori, ma il fatto che Google abbia taciuto (secondo la ricostruzione del Wall Street Journal) una cosa che sapeva almeno da marzo — la falla di sicurezza su Google+ è durata tre anni — nel timore di un nuovo caso Cambridge Analityca non depone a suo favore. Come del resto l’intenzione di ricorrere contro la multa da 4,34 miliardi di euro decisa nel luglio scorso dalla commissione Ue (lo ha rivelato il Financial Times). Che non piacerà certo all’Europa e agli europei.

La Stampa TuttoScienze 10.10.18
Il motore anti-Google
“Si chiama Qwant e rispetta la privacy di chi naviga”
di Bruno Ruffilli


Possiamo continuare a multarli, ma se non creiamo alternative avremo sempre bisogno di loro». Eric Léandri, fondatore e ad del motore di ricerca francese Qwant, riflette sulle sanzioni della Comunità europea a Google: 4,3 miliardi di euro due mesi fa, oltre ai 2,5 miliardi per abuso di posizione dominante del 2017. E l’alternativa potrebbe essere proprio Qwant, che ha toccato lo scorso anno 10 miliardi di richieste e 70 milioni di visite mensili, pari al 6% del mercato francese. «Siamo il secondo motore di ricerca in Francia, prima di Bing di Microsoft: cresciamo del 20% l’anno», spiega. Il servizio, nato nel 2013, è disponibile in 28 lingue in oltre 160 Paesi e punta a raggiungere tra il 5 e il 10% del traffico europeo entro il 2020. La sede centrale dell’azienda è a Parigi, con filiali in Germania e in Italia.
Come funziona Qwant?
«Abbiamo speso anni per imparare a monitorare i social network e perciò i risultati delle nostre ricerche sono più rilevanti. Ad esempio, se si trova a Barcellona durante il Mobile World Congress, sarà questo il primo risultato, ma, se si è lì in per una partita di calcio, avrà informazioni su quella, e lo stesso per la Formula 1. Il nostro è un motore di ricerca non basato sulle informazioni private di chi lo usa, ma su quello che succede in un certo luogo in un certo momento».
Non siete solo un motore di ricerca, però.
«No, abbiamo una webmail, le mappe, un sistema di pagamento, la musica, le immagini, un’app per permettere ai bambini di fare ricerche sicure sul web e presto arriveranno altri servizi».
Come guadagnate?
«Da pubblicità e affiliazioni, ma senza usare dispositivi di tracciamento o cookie per proporre pubblicità diverse a seconda dell’utente. Tutti i nostri servizi sono basati sul rispetto assoluto della privacy».
Che valore ha la privacy?
«Un valore sempre crescente, soprattutto in Europa. Anche qui un esempio concreto aiuta: non essere tracciati permette di pagare meno per un hotel, perché il prezzo che vediamo nei risultati di una ricerca è deciso da algoritmi che sanno già cosa cerchiamo e quanto possiamo spendere».
Non vendete viaggi?
«No, siamo semplici intermediari, portiamo traffico ai siti: è questo il nostro modello di business e perciò offriamo più risultati possibili, non solo quelli che interessano a noi. Prenda la musica: su Google Music trova 32 dischi dei Pink Floyd, su Quant Music 41, perché iTunes, Spotify e Deezer non permettono a Google di indicizzarli, dal momento che è un concorrente e guadagna con Play Music e YouTube. Qwant, invece, può avere accesso ai loro dati e fornire agli utenti risultati precisi e puntuali».
E le news?
«Le notizie trasformano le ricerche e rendono ogni volta diversi i risultati. Se si tolgono le notizie, Google non è niente. Il punto è che la musica si paga, le news...»
Anche le news si pagheranno: la Ue ha approvato l’introduzione di una piccola tassa per gli snippet, le anteprime degli articoli che appaiono nei risultati delle ricerche. Cosa cambierà per Qwant?
«In Qwant News non abbiamo snippet, ma solo le notizie e il titolo. In Germania per un certo periodo agli editori abbiamo versato una parte degli incassi pubblicitari per l’uso delle news, tramite VG Media, poi abbiamo visto che Google non faceva altrettanto e abbiamo smesso. Non vogliono pagare per poche righe di anteprima, così forse chiuderanno Google News come hanno fatto in Spagna. Il risultato? Ai siti di notizie è arrivato più traffico».
E cosa fate per combattere le fake news?
«Si parla di “filter bubble” a proposito di Facebook e, certo, sui social network il problema è gravissimo, ma anche su Google i risultati sono influenzati dalle abitudini. Pensi che è possibile capire il voto di una persona semplicemente dando un’occhiata ai risultati delle ricerche che fa: se in cima c’è “Le Figaro” sarà di destra, se “Libération” di sinistra. Noi non teniamo conto dei dati personali, quindi,mostriamo tutte le notizie, e ciascuno può farsi la sua idea. Questa è democrazia: la possibilità di scegliere».
Il che ci porta alla nuove norme del Gdpr, il regolamento sulla protezione dei dati personali.
«Tutti dicono di essere in regola, ma poi, a volte, conservano i dati su una struttura cloud negli Usa e quindi soggetta a leggi diverse. Il Gdpr è importante, perché tutela la libertà di non essere spiati in quello che facciamo sul web, anche se non abbiamo niente da nascondere. In questo l’Europa è più avanti rispetto al resto del mondo».

La Stampa TuttoScienze 10.10.18
L’app alternativa
Così il padre del Web Berners-Lee sfida i colossi digitali
di Vittorio Sabadin

Sir Timothy Berners-Lee è da molto tempo scontento di come cresce la sua creatura. Negli anni in cui ha inventato il World Wide Web (1989) e creato il primo sito Internet (1991) credeva che il mondo fosse più buono: la rete che immaginava avrebbe dovuto essere aperta, gratuita e neutrale, e mirare solo al progresso dell’umanità.
Trent’anni dopo, l’innovazione che ha avuto maggiore influenza nella storia umana non è più ciò che Berners-Lee sperava. Giganti come Google e Facebook ne hanno assunto il monopolio, controllano i dati di milioni di persone e lucrano in modo scandaloso sulle informazioni delle quali vengono in possesso. Gli utenti li lasciano fare, un po’ grazie alla sensazione di ottenerne comunque un vantaggio, un po’ a causa della mancanza di reali alternative.
Sistema fragile
Da mesi Berners-Lee va dicendo che è arrivato il momento di fare qualcosa, perché , «se da una parte la rete ha creato un mondo migliore e più connesso, dall’altra si è trasformata in un motore di iniquità, influenzato da potenti forze che lo usano per i loro programmi». I recenti casi di Cambridge Analytica e il furto di 50 milioni di account Facebook hanno ampiamente dimostrato che i dati possano essere usati come un’arma e che il sistema è fragile e permeabile.
Poiché, nonostante gli appelli, nessuno faceva nulla, il creatore ha deciso di cercare di rimettere in carreggiata la sua creatura offrendole un’altra possibilità. Ha chiesto un anno sabbatico al Mit e ha fondato Inrupt, una start-up il cui primo prodotto è Solid, un progetto open source che potrebbe cambiare la vita degli utenti del web, sottraendoli al controllo dei giganti. L’obiettivo di Solid è quello di consentire a ognuno di possedere i propri dati, di decidere dove conservarli e con chi condividerli.
Con Solid i dati che ora abbiamo sparsi in decine di applicazioni sono memorizzati in un cassetto digitale privato chiamato «Pod» («Personal Online Data»), che potrà essere custodito da un server in casa, in ufficio o presso un fornitore esterno. È una specie di sito web privato che consente ai tuoi dati di interagire con le tue app senza che altri ne vangano a conoscenza: solo tu potrai decidere chi può vedere cosa. Potranno esserci dati liberi, altri vietati a tutti, altri ancora accessibili solo dopo un ulteriore permesso. Di fatto, le diverse app saranno collegate in un unico contenitore. L’accesso al web non avverrà più attraverso Google o Facebook, ma per mezzo del Solid Pod, evitando così che Larry Page e Mark Zuckerberg siano costantemente informati dei fatti nostri.
Berners-Lee ha intitolato il post con il quale ha presentato l’iniziativa «One Small Step for the Web…”» echeggiando il grande passo per l’umanità evocato da Neil Armstrong sulla Luna. Nel suo manifesto scrive di avere agito «per ripristinare il potere e l’azione delle persone sul web». «Solid - ha spiegato - cambia il modello attuale in cui gli utenti devono consegnare dati personali a giganti digitali in cambio di valore percepito. Come tutti abbiamo scoperto questo non è avvenuto nel nostro miglior interesse. Solid è il modo in cui sviluppiamo il web per ripristinare l’equilibrio, dando ad ognuno di noi il controllo completo».
Fondi da un venture capital
Il grande passo per l’umanità potrebbe, secondo Berners-Lee, avvenire, con notevoli benefici per i singoli utenti, per le aziende e i governi, se le app attuali «parlassero tra loro, collaborando e concependo modi per arricchire e ottimizzare la vita personale e gli obiettivi di business: questo è il tipo di innovazione, intelligenza e creatività che le app solide genereranno». Già oggi è possibile registrarsi al sito solid.community.com, che illustra l’ambizioso progetto. Sfidare Google e Facebook sembra un’impresa disperata, ma Davide con Golia ci è riuscito e la storia potrebbe ripetersi. Tutto dipenderà da quanti utenti useranno Solid, che non sarà gratis: le risorse per il progetto vengono da un venture capital, Glasswings Ventures, che non è un istituto benefico. E poi ci sarà la reazione di chi gestisce i dati di miliardi di persone: come il petrolio e l’oro, sono un business al quale non si rinuncerà senza combattere.

Repubblica 10.10.18
Musei, domeniche dimezzate ma raddoppiano i giorni gratis
di Antonio Ferrara


Pronto il decreto del ministro Bonisoli che archivia l’iniziativa di Franceschini
Il decreto ministeriale che archivia le "domeniche al museo" dell’era Franceschini è pronto. Alberto Bonisoli, il ministro dei Beni culturali che a fine luglio aveva annunciato l’intenzione di mettere fine agli ingressi gratuiti ogni prima domenica del mese, ha fatto inviare al Consiglio di Stato il testo per l’esame di congruità.
Tempo due-tre settimane, assicurano dal Collegio romano, e il provvedimento farà ritorno al Mibac e Bonisoli potrà avviare la sua "rivoluzione".
Che si fonda su alcune scelte e che sarà operativa, di fatto dal marzo 2019.
Innanzitutto: via l’obbligo di aprire cancelli e portoni di musei e parchi archeologici ogni prima domenica. Questa opzione resta attiva solo per i mesi che vanno da ottobre a marzo incluso. L’obiettivo è di impedire i pericolosi affollamenti, soprattutto d’estate, in luoghi come Pompei o gli Uffizi.
L’altra novità è che Bonisoli affida ai direttori la scelta di quando e come aprire senza biglietto per otto giornate nel corso dell’anno: vuol dire che Brera o il Marta di Taranto potranno scegliere se riservare giornate particolari durante l’anno alle visite gratuite, o che potranno – in teoria – confermare anche la scelta di tutte le prime domeniche del mese. Anzi, al Mibac si ipotizzano possibili aperture senza biglietto d’ingresso solo di pomeriggio: in tal caso, invece di otto giornate, potrebbero esserci sedici pomeriggi o altre possibili rimodulazioni dello schema.
Proprio per capire qual è l’orientamento dei manager dei musei autonomi, è partita dagli uffici del ministero una richiesta in vista della elaborazione delle linee guida che Bonisoli intende divulgare: viene proposto di "privilegiare le feste significative per l’Italia (feste nazionali) o per il territorio (santo patrono, particolari ricorrenze locali)" e si chiede a tutti di far conoscere le proprie idee.
Sostanzialmente, le otto date affidate alle decisioni locali vanno ad aggiungersi alle dodici giornate che riguarderanno tutti i monumenti statali del Paese.
Oltre alle prime sei domeniche nei mesi di autunno e inverno, Bonisoli ha previsto che ogni anno ci sia una "Settimana dei musei gratis". Sei giorni di seguito da un lunedì alla domenica nel corso dei quali saranno previste iniziative di promozione e valorizzazione del patrimonio museale nazionale: per il debutto si pensa alla seconda o terza settimana di marzo 2019.
Complessivamente, quindi – dicono dal Collegio romano – i giorni nei quali sarà possibile visitare i siti culturali statali senza pagare passano dai dodici del piano Franceschini (varato nel luglio 2014) a venti.
Resta da capire l’impatto che in termini di comunicazione avrà la novità fortemente voluta dal ministro: nel 2017 sono stati 3.549.201 i cittadini e i turisti che hanno varcato le soglie di musei e scavi archeologici nelle domeniche gratuite, con i picchi maggiori tra aprile e maggio. Un brand, quello delle domeniche al museo, che dopo oltre tre anni è entrato nelle abitudini degli italiani. Proprio per evitare la frantumazione dell’offerta, Bonisoli sta lavorando alle linee guida che accompagneranno il decreto che rimodula le modalità di accesso. Se da un lato si vogliono evitare i 25mila e più visitatori tra le strade dell’antica Pompei o i rischi per le delicate stanze della Reggia di Caserta (entro pochi giorni potrebbe essere pubblicato il bando per il nuovo direttore, che riguarda anche le Gallerie dell’Accademia di Venezia), dall’altro bisogna evitare di lasciare vuote le sale dei tanti musei ingiustamente definiti "minori".
© RIPRODUZIONE RISERVATA Il vecchio regime resta solo da ottobre a marzo Altri 14 ingressi free decisi dai direttori