venerdì 5 ottobre 2018

Corriere 5.10.18
Psiche In «Diagnosi e destino» (Einaudi) Vittorio Lingiardi indaga sulle conseguenze della presa di coscienza del paziente
Noi, di fronte al male
Tormenti e difesa: così la mente reagisce alla scoperta della malattia
Gli effetti di una prognosi possono rivelarsi più dolorosi della patologia in sè
Parlando al malato ci sono parole che i medici non dovrebbero mai dire
di Eugenio Borgna


Questo bellissimo libro — Diagnosi e destino ( Einaudi) — di Vittorio Lingiardi, che, psichiatra e psicoanalista, è professore ordinario di Psicologia dinamica presso l’Università La Sapienza di Roma, ha come parola tematica la diagnosi. La malattia nasce in noi improvvisamente, o lentamente, desta timori e angoscia, ma, fino a quando non se ne sia precisata la diagnosi, non lascia morire in noi la speranza che la malattia sia curabile. La diagnosi, sola, ci confronta con la realtà della malattia; e della diagnosi, delle risonanze emozionali che ne conseguano nel medico e nel paziente, si occupa questo libro. Un libro che si legge con febbrile passione sia perché ciascuno di noi non può non riconoscersi in un tema, come questo, così vicino alla nostra vita sia perché l’autore ne parla sulla scia della sua grande cultura clinica e psicopatologica, psicoanalitica e letteraria, mai astratta e animata sempre da una scrittura palpitante di vita vissuta.
Sono tre i capitoli che compongono il libro: il primo (diagnosi e tormento) è tematizzato dagli aspetti umani e psicologici, nostalgici e dolorosi, che si accompagnano in un medico e in un paziente alla formulazione della diagnosi. Richiamandosi a una folgorante definizione di Karl Jaspers, che è stato grande psichiatra prima di diventare grande filosofo, Vittorio Lingiardi parla del tormento che si accompagna alla diagnosi. Sono diversi i modi di vivere e di rivivere il cammino emozionale che porta alla diagnosi, ma non si può essere medici senza essere animati dalla preoccupazione e talora dalla angoscia nel comunicare la diagnosi al malato, e ai suoi familiari. Come non dire, e non ribadire, l’enorme importanza che hanno le parole, queste creature viventi, nel non accrescere la sofferenza dei pazienti, e le pagine che, in questo primo capitolo in particolare, si dedicano a questo aspetto fondamentale della relazione fra medico e paziente, lo mettono in drastica evidenza. Ci sono parole che i medici non dovrebbero mai dire, e Lingiardi ricorda quello che diceva Umberto Veronesi: invitava a non dire mai la parola cancro se non si vuole accrescere il dolore di una persona che, fragile e indifesa, si consegna alla cura di un medico.
Queste cose, descritte nel corso del libro con una grande chiarezza, sono immerse in splendide citazioni letterarie (da John Donne e da Marcel Proust, da Virginia Woolf e da Susan Sontag, in particolare) che le rendono affascinanti, senza che nulla perdano del loro valore emozionale e didattico. Un capitolo, questo, che ci consente di conoscere meglio nelle loro interne articolazioni le malattie dell’anima e quelle del corpo, e di giungere a una migliore comprensione dei meccanismi psicologici che sono in gioco negli svolgimenti della malattia, e a una più consapevole accoglienza del dolore che ne nasce in noi, e negli altri da noi.
Il secondo capitolo, diagnosi e difese, si incentra sulla diagnosi considerata non nel momento cruciale della sua formulazione, ma nella sua evoluzione, e nelle sue risonanze psicologiche e psicodinamiche nel paziente. Sono pagine non meno interessanti, e non meno appassionanti, nelle quali si manifestano nella loro ampiezza e nella loro profondità le conoscenze psicodinamiche ed ermeneutiche di Vittorio Lingiardi che splendidamente descrive e analizza la gamma delle forme di difesa, alle quali è possibile ricorrere quando ci ammaliamo, educandoci a non stancarci mai dal seguire il cammino misterioso che, come diceva Novalis, porta al nostro interno: alla nostra interiorità. Conoscere quello che avviene, o può avvenire, in ciascuno di noi è la premessa alla cura, e alla decifrazione del destino, inteso in psicoanalisi, e Lingiardi si richiama in questo a Françoise Dolto, non come qualcosa di determinato, ma di indeterminato e di ignoto, che riguarda il transfert, l’immaginario e la storia del soggetto: la diagnosi può produrre non il destino, ma un destino, con cui dovremmo sapere dialogare.
Noi viviamo immersi in un fiume eracliteo di immagini e di emozioni che non ci consentono di guardare dentro di noi, e nemmeno di guardare dentro gli altri. Solo quando il fiume della vita si inaridisce, come avviene nella malattia, ci è possibile riconoscere elementi, risorse, ragioni di vita, che altrimenti ignoreremmo. Un libro, come questo, fra le altre cose, ci fa pensare, e ne ha un valore maieutico, alla diagnosi di malattie che hanno accompagnato la nostra vita, e alle quali potremmo attribuire orizzonti di senso diversi da quelli che abbiamo attribuito loro in passato. Ma, in ogni caso, è necessario conoscere le difese capaci di arginare le conseguenze di una diagnosi che sono, o almeno possono essere, ancora più dolorose e strazianti di malattie.
L’ultimo capitolo, diagnosi e psiche, ha a che fare con la diagnosi in psichiatria che è più fragile e conflittuale che non la diagnosi in medicina. Ci sono psichiatri che non fanno diagnosi, ed è cosa che Lingiardi giustamente contesta: la diagnosi è un momento di conoscenza e di incontro, ed è impossibile avere un colloquio con un paziente senza farsi una idea della sua personalità. La diagnosi è al servizio del paziente, e ci aiuta a scegliere con cognizione di causa quale terapia sia la più indicata; ma bisogna guardarsi da quella che egli chiama diagnostica selvaggia: una vera diagnosi è figlia di un tormento clinico: scegliere una soluzione che sappia ricondurre il paziente a una categoria più generale e contestualmente alla sua unicità. La ideologia, e in ogni caso le diverse concezioni teoriche, dilagano nella articolazione tematica e nella classificazione delle malattie psichiche, e delle diagnosi che portano al loro riconoscimento; e anche in questo campo, lacerato da conflitti teorici, la parola radicale ed equanime, attenta e profonda, di Vittorio Lingiardi consente al lettore, e a ciascuno di noi, di orientarsi in un groviglio di tesi e di controtesi. Di queste, e di altre cose, che riguardano la diagnosi in psichiatria, questo libro ci parla con la serenità necessaria, senza mai sconfinare in aree ideologiche, e consentendoci di conoscere gli elementi essenziali della cura che, in psichiatria in particolare, ha bisogno di cultura e di esperienza, di studio e di passione, ma anche di sensibilità e di intuizione, e non solo di conoscenze teoriche.
Non potrei ora non citare le parole conclusive del libro che ne colgono il senso radicale. «Il più delle volte la diagnosi, soprattutto quella medica, è una conoscenza obbligata, una sorpresa sgradita, un accidente e un fardello. Ci fa sentire bollati e menomati proprio nel momento in cui siamo più fragili ed esposti. Ma la fragilità a cui ci espone la diagnosi è ormai parte di noi, per poco tempo o per sempre. Con sé può portare la possibilità di ripensare la nostra storia e il nostro futuro, il nostro posto nel mondo»; e infine: «Quando ne ha la possibilità, la diagnosi apre la porta alla conoscenza, alle risorse, alla cura di sé».
Sì, un libro che ci aiuta a conoscere quello che noi siamo, e quello che diveniamo quando la diagnosi di una malattia scende in noi. Un libro che consente di guardare alla psichiatria come a una disciplina che non si occupa solo di malattie psichiche ma anche degli aspetti psicologici ed esistenziali delle malattie somatiche.