Tutti a dire che il miracolo di S. Gennaro è un’illusione, però Di Maio ha baciato la teca e un anno dopo si ritrova ministro del Lavoro
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Il Fatto 20.9.18
Volterra, che disse no alla “Razza”
Nel 1931 fu uno dei 12 professori che rifiutò di giurare fedeltà al fascismo, perse la cattedra. L’epitaffio che scrisse per sé fu: “Muoiono gli imperi, ma i teoremi di Euclide conservano eterna giovinezza”
di Piergiorgio Odifreddi
Le vie diritte e le strade tortuose sono l’analogo urbanistico delle rette e delle curve matematiche, così come le piazze e i parchi lo sono dei piani e delle superfici. Sarebbe dunque naturale dedicare almeno alcuni di questi luoghi geometrici delle città ai grandi matematici del Paese, mentre invece
sono in genere gli statisti e i politici, o al massimo gli scrittori e gli artisti, a venire in mente ai sindaci e ai consiglieri comunali che si sbizzarriscono nella scelta dei toponimi urbani. Poiché le eccezioni si contano sulla punta delle dita, è benemerita una recente iniziativa di Vittorio Sgarbi, che nella sua azione di ristrutturazione globale dell’odonomastica locale del Comune di Sutri, del quale è sindaco, non si è dimenticato degli esponenti della cultura scientifica del nostro Paese e del nostro passato. Anzi, ha addirittura scelto il nome di un grande matematico italiano del 900 per inaugurare una serie di battesimi di vie e piazze cittadine, intitolandogli un largo. Si tratta di Vito Volterra, figura emblematica dello scorso secolo non soltanto per la sua ricerca matematica, ma anche per la sua attività culturale e il suo impegno politico. Per accennare brevemente alla prima, Volterra dimostrò fin da bambino di avere una marcia in più, calcolando a 13 anni la traiettoria di una navicella spaziale soggetta ai campi gravitazionali della Terra e della Luna, dopo aver letto il romanzo Dalla Terra alla Luna di Giulio Verne. Non stupisce che, dopo simili avvisaglie, nel 1883 il giovane prodigio sia andato in cattedra a 23 anni, e nel 1905 sia stato nominato senatore a vita per meriti scientifici a 45. O meglio, stupisce parecchio, se si osserva come nel giovane Regno d’Italia i laureati di talento venissero immediatamente promossi in università, e gli uomini di cultura cooptati al Senato, mentre nella vecchia Repubblica di oggi gli ordinari con meno di 40 anni sono 20 su 13.000, e i senatori non laureati 99 su 315, di cui 8 con la sola licenza media: uno è addirittura il presidente della Commissione Cultura!
Tornando alla cultura vera, uno dei risultati che hanno fatto passare Volterra alla storia è stato il suo studio sul rapporto fra prede e predatori. Lo stimolo gli era stato fornito dal genero Umberto D’Ancona, un biologo marino che aveva notato come, nel periodo a cavallo della Prima guerra mondiale, la diminuzione della pesca causata dal conflitto aveva fatto crescere la percentuale dei pesci predatori. Volterra trovò nel 1926 una famosa equazione, oggi associata al suo nome, che spiegava come le prede e i predatori aumentassero e diminuissero periodicamente, in maniera altalenante. L’abbondanza delle prede favorisce infatti l’aumento dei predatori, ma l’abbondanza dei predatori favorisce la diminuzione delle prede. Viceversa, la scarsità dei predatori favorisce l’aumento delle prede, ma la scarsità delle prede favorisce la diminuzione dei predatori. I dati ricavati dall’equazione di Volterra risultarono felicemente in accordo con quelli osservati sul campo: cioè, in mare. Già in precedenza, durante la guerra, Volterra aveva messo il proprio talento matematico a disposizione delle applicazioni pratiche: ad esempio, calcolando le tavole di tiro per i cannoni che vennero installati sui dirigibili, o suggerendo di sfruttare i dati meteorologici per programmare le incursioni aeree. Dopo la guerra i vari istituti di ricerca bellica furono ristrutturati e accorpati, confluendo infine nel 1923 nel Centro Nazionale delle Ricerche: Volterra ne divenne il primo presidente, e fu eletto quello stesso anno anche alla presidenza dell’Accademia dei Lincei. Le due cariche congiunte fecero di lui il capofila del fronte scientifico, nella feroce battaglia culturale che l’umanesimo sferrò contro la scienza in quegli anni. Le ostilità erano state aperte dal dotto, ma ottuso, filosofo idealista Benedetto Croce, che nel 1920 divenne ministro della Pubblica Istruzione. Croce non sapeva e non capiva nulla della scienza, ma proprio per questo le negava qualunque valore culturale. Cercò di ostacolare la partecipazione dell’Italia ai progetti di cooperazione internazionale, e di favorire lo smantellamento dell’apparato nato dall’industria bellica, ma non poté fare troppi danni perché l’ultimo governo Giolitti di cui faceva parte ebbe vita breve. Dopo il futile biennio dei governi Bonomi e Facta, nel 1922 arrivarono al potere Mussolini, e al ministero della Pubblica Istruzione il filosofo attualista Giovanni Gentile, sodale di Croce. Il nuovo ministro propose immediatamente una disastrosa riforma dell’istruzione inferiore e superiore, favorito anche dai pieni poteri che il governo aveva ricevuto dal re. Si crearono scuole separate, tecniche per addestrare i lavoratori e classiche per formare i dirigenti, fu imposto lo studio del latino nelle medie e nei licei, si rese obbligatorio l’insegnamento della religione e venne ridimensionato quello delle scienze. Inoltre, si restrinse l’accesso a tutte le facoltà ai soli liceali classici. I risultati di queste belle pensate sono visibili ancor oggi, nell’endemia di antiscientismo che porta i cittadini a credere alle guarigioni e alle apparizioni miracolose, sacre o profane che siano, ma a dubitare dei vaccini e degli sbarchi sulla Luna. Chissà quanti dei rumorosi e disperati difensori del liceo classico si rendono conto di essere dei “giapponesi nella giungla”, rimasti soli a combattere la scienza sotto le insegne fascio-idealiste di Croce e ideal-fasciste di Gentile?
Volterra fece il possibile per contrastare la deriva culturale e politica, ma con poco successo. Nel 1924 il fascismo divenne ufficialmente una dittatura con l’assassinio di Giovanni Matteotti, e il successivo voto di fiducia al governo Mussolini: al Senato solo 20 senatori si opposero, e Volterra fu uno di essi, diventando ufficialmente un oppositore al regime. Nel 1925 Gentile stilò il Manifesto degli intellettuali fascisti, al quale finalmente Croce oppose un antimanifesto firmato da 400 intellettuali, tra i quali Volterra, che fu però solo un tipico esempio del “troppo poco, troppo tardi”.
Nel 1926 nacque la nuova Accademia d’Italia, che si oppose all’antica Accademia dei Lincei presieduta da Volterra. Nell’Accademia fascista non furono mai ammessi gli ebrei, ma entrarono volentieri gli scienziati fascisti o non antifascisti: da Guglielmo Marconi, suo presidente e successore di Volterra al Consiglio Nazionale delle Ricerche, a Enrico Fermi, che vinse nel 1938 il premio Nobel per la Fisica per la “scoperta” degli inesistenti “esperio” e “ausonio”, così chiamati in onore di due antiche civiltà italiche.
Nel 1931 il regime impose ai professori universitari un giuramento di fedeltà: Volterra fu uno dei 12 su 1250 (un centinaio dei quali ebrei) che rifiutarono di farlo, e perse la cattedra. La storia si ripeté nel 1934 per le accademie: Volterra fu uno dei 10 che non giurarono, e decadde da tutte le accademie di cui era membro, compresi i Lincei. Rimase invece senatore fino alla morte, nel 1940, perché quella che fu paradossalmente chiamata “discriminazione regia” esentò i senatori ebrei dalle misure delle leggi razziali del 1938. L’epitaffio che scrisse per sé fu: “Muoiono gli imperi, ma i teoremi di Euclide conservano eterna giovinezza”, con buona pace dei fascisti e degli idealisti, antichi e moderni.
La Stampa 20.9.18
I militari italiani addestrano le forze del Niger
Al via la missione per controllare le frontiere
di Francesco Grignetti
Missione militare in Niger, finalmente si parte. Era stata annunciata con una certa enfasi un anno fa dal governo precedente, ma si era impantanata in un confuso gioco di scaricabarile tra ministri nigerini. E su tutto, l’ombra oscura del governo di Parigi che non aveva gradito. Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, però, ci ha creduto e si è spesa molto nei contatti diretti. Così il via libera è arrivato. I primi 3 team di addestratori sono già a Niamey da qualche giorno. Uomini e donne dell’esercito, dell’aeronautica, dei carabinieri. Hanno il compito di addestrare le forze di sicurezza locali al controllo del territorio e dei confini. Obiettivo, fermare i traffici illeciti che sono la piaga dell’area, a cominciare da quelli dei trafficanti di esseri umani.
Il Niger è vicino
Il Niger, Paese sub-sahariano che confina con la Libia, è molto più vicino a noi di quanto si pensi. Spiega il ministro Trenta, che ha dovuto superare anche qualche sopracciglio alzato nel suo movimento: «Andiamo lì a supporto del governo nigerino, che ci chiede aiuto. La stabilità di quel Paese è interesse comune, nostro e loro. Noi vogliamo dare tutto il supporto che ci verrà richiesto. Stabilizzare l’area significa soprattutto aumentare il controllo sui flussi di migranti che attraversano il deserto, investono la Libia e alla fine s’imbarcano nel Mediterraneo per arrivare da noi».
L’Italia arriva in Niger, dunque. Lo facciamo per una missione rigorosamente di addestramento, che si terrà soprattutto all’interno della grande base militare che gli americani hanno creato accanto all’aeroporto internazionale di Niamey e, se il governo nigerino lo riterrà utile, anche in qualche caserma locale. Ogni team di addestratori (finalizzati a preparare soldati, gendarmi e avieri) è composto da una decina di specialisti ed è in grado di addestrare 150/200 uomini per ciclo di addestramento.
Le caratteristiche della missione, insomma, non cambiano rispetto a quanto previsto un anno fa. L’obiettivo che era stato identificato dallo stato maggiore è replicare quei programmi di addestramento che adesso si fanno in Afghanistan o Iraq, con ottimi risultati in termini di forze locali. Si sconta però un’impasse di 10 mesi. È accaduto infatti che il gruppo avanzato della logistica, composto da 40 uomini, al comando del generale Antonio Maggi, si trova bloccato in un limbo giuridico e fisico dal dicembre scorso. Avevano avuto il permesso di fare un’ispezione nella base che avrebbe dovuto ospitare la missione; ma poi sono iniziate le polemiche tra ministri nigerini e tutto si è fermato. Mettiamoci la lunga campagna elettorale in Italia e poi lo stallo politico conseguente alle elezioni. Le trattative tra governi si sono arenate. E così ai nostri non è mai arrivata l’autorizzazione finale ad uscire armati e in divisa dalla base. A quel punto, per ovvi motivi di sicurezza, nessuno tra i soldati italiani in tutti questi mesi ha mai varcato il portone in uniforme.
Un filo di contatti, comunque, è rimasto in vita. Tra aprile e luglio sono state spedite 50 tonnellate di materiali tra vestiario e medicinali a supporto della popolazione.
Che questa missione fosse «strategica», il ministro Trenta l’aveva detto da subito. «Perché ci consente di fermare i flussi migratori verso la Libia». Per avere il via libera finale, però, è stato necessario resettare tutto quanto detto finora e cancellare l’indicazione di 400 soldati che agli occhi di molti in Niger era apparsa una mezza invasione. «Questo numero ha spaventato i nigerini», disse in Parlamento. Si potranno comunque fare le stesse cose con team molto piccoli; la missione costerà meno e sarà meno visibile.
La Stampa 20.9.18
La Corte Costituzionale: rispetto dei diritti di profughi e detenuti
di Ugo Magri
La Corte costituzionale non si piegherà al vento autoritario che spazza l’Europa e difenderà, controcorrente, i valori della civiltà giuridica. Questo è andato a dire ieri a Sergio Mattarella il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi. L’occasione era rappresentata dal «viaggio» che i giudici della Corte inizieranno il 4 ottobre nelle carceri, prima tappa Rebibbia. La finalità è diffondere perfino in quel contesto la conoscenza dei principi che ispirano la Carta repubblicana. Ma dal resoconto del colloquio sul Colle si capisce che in gioco c’è ben altro. La Consulta vuole rammentare, a chi esercita il potere, come sia lì apposta per far rispettare le regole. Tutte, comprese quelle che parte della politica cancellerebbe. Sugli immigrati, ad esempio.
L’eco della «Diciotti»
La Costituzione e la Corte, avverte il suo presidente, «costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari». La sottolineatura fa venire in mente quanto è accaduto a Catania, con gli stranieri irregolari della nave Diciotti trattenuti a bordo. Se mai se ne occupasse la Consulta, già si può intuire il metro con cui verrebbe giudicata. Il criterio è quello dei diritti fondamentali che valgono sempre e per chiunque. «La Costituzione impone», segnala Lattanzi, «che la detenzione non sia senza regole e che le regole, a loro volta, non siano in contrasto con la Costituzione»: un principio di cui Matteo Salvini (ovviamente mai citato, ci mancherebbe) farà bene a tener conto pure sui decreti sicurezza e immigrazione: se le espulsioni venissero estese a discapito delle garanzie minime, non supererebbero l’esame di costituzionalità.
Contro i «vecchi fantasmi»
La Corte non fa politica, ma nemmeno intende subirla. Lattanzi, galantuomo garantista, fa filtrare un concetto del suo colloquio col presidente della Repubblica: «La Costituzione è una legge suprema, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare». In altre parole, nessun personaggio politico può sentirsi al di sopra della legge, e il consenso elettorale non è motivo sufficiente per calpestarla. Se qualcuno ci provasse, troverebbe pane per i suoi denti, avverte Lattanzi: «Sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e i diritti fondamentali che le accompagnano». Mattarella, a quanto si apprende, ha pienamente sottoscritto, dalla prima all’ultima parola.
Corriere 20.9.18
Il viaggio nelle carceri e i diritti da rispettare
di Giovanni Bianconi
Il «viaggio nelle carceri» che i giudici costituzionali cominceranno il 4 ottobre prossimo, per stabilire un contatto diretto con le persone recluse e gli operatori che lavorano in quelle strutture, servirà a ribadire che «la Costituzione impone che la detenzione non sia senza regole — rimessa esclusivamente alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria — e che le regole, a loro volta, non siano in contrasto con la Costituzione». Un rispetto dei diritti, oltre che dei doveri, garantito anche a chi è finito dietro le sbarre, perché «la Costituzione e la Corte costituzionale non conoscono muri e non si fermano davanti alle porte del carcere». Di questo hanno parlato ieri il presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, e il capo dello Stato Sergio Mattarella (giudice costituzionale prima di salire al Quirinale), che ha «pienamente condiviso i contenuti, lo spirito e le finalità di questa “significativa iniziativa”» illustratagli da Lattanzi, come informa un comunicato della Corte. Nel quale sono specificati proprio i contenuti e lo spirito che hanno mosso la Consulta a proseguire l’esperienza di apertura verso l’esterno dopo il «viaggio nelle scuole» dello scorso anno, che stavolta partirà dal penitenziario romano di Rebibbia. Ecco allora la sottolineatura, che suona di particolare attualità, che «pur con le limitazioni connaturate alla detenzione», i principi costituzionali e la Corte stessa «costituiscono una garanzia di legalità per tutti i detenuti, che siano cittadini o stranieri, immigrati regolari o irregolari». E ancora: «La Costituzione è una “legge suprema”, uno scudo nei confronti dei poteri dello Stato, che neppure il legislatore con le sue mutevoli maggioranze può violare». Parole pronunciate in occasione del «viaggio nelle carceri», certo, ma il cui significato si estende a tutte le materie e le questioni su cui la Consulta è chiamata a pronunciarsi. Attraverso un ruolo che il presidente ha voluto rimarcare nell’incontro con Mattarella, esprimendo «la convinzione che sono le Carte e le Corti costituzionali, insieme con i giudici comuni, che ci difendono dai vecchi fantasmi che hanno ripreso ad agitarsi in Europa e a mettere in discussione le regole della democrazia, della libertà e dell’eguaglianza, e i diritti fondamentali che le accompagnano». Nelle carceri e fuori.
Il Fatto 20.9.18
Buona politica: ecco che serve per l’identità
di Gianfranco Pasquino
Da qualche anno vado dicendo in giro che “sono un europeo nato a Torino”. È un’affermazione solo parzialmente corretta che mira a comunicare quali sono le mie preferenze: l’accentuazione della mia torinesità, che, probabilmente, è l’elemento centrale, portante della mia identità, e il proposito di costruire un’Europa politica con il consenso dei cittadini di una pluralità di Stati-membri. Certamente, l’identità è fenomeno troppo complesso per essere definito interamente e, meno che mai apprezzato esclusivamente, nella sua componente, che esiste, nazionale.
Questa è la componente sottolineata in maniera estrema, fra letteratura e cibo, non solo nei suoi articoli sul Corriere della Sera, da Galli della Loggia che la usa, non per la prima volta, contro una antica visione della sinistra “internazionalista”. Quell’internazionalismo d’antan, certamente criticabile, fu, però, dei comunisti, non dei socialisti e neppure, ovviamente, degli azionisti. La maggior parte degli studiosi contemporanei metterebbero in grande evidenza che l’identità è molto più che “suolo e sangue”: è una costruzione sociale, politica, culturale (non saprei dire in quale ordine che, pure, fa molta differenza) che cambia, anche in maniera significativa, nel corso del tempo e che si compone di una pluralità di elementi. Sappiamo da molte ricerche che l’elemento politico, sia esso lo Stato oppure la Costituzione, non è affatto centrale nell’auto-definizione della loro identità da parte degli italiani. Incidentalmente, laddove non è forte l’identità politica che si esprime anche nell’orgoglio delle regole e delle leggi e del loro rispetto, è tanto improbabile quanto difficile che gli immigrati sentano a loro volta l’obbligo politico e morale di rispettare regole che vedono quotidianamente evase e violate dai cittadini. Altrove, come negli Usa, è proprio il riferimento anche emotivo alla Costituzione a costituire l’elemento fondante dell’identità, della cittadinanza. Più in generale, si potrebbe aggiungere che la buona politica e i suoi simboli, ad esempio, la monarchia e Westminster per gli inglesi, stanno alla base dell’identità, della britishness e la rafforzano. Nel caso italiano, già alquanto deboli in partenza, gli elementi più specificamente politici dell’identità dei cittadini devono fare i conti con aspetti culturali e sociali. I due sfidanti più agguerriti sono: l’orgoglio per la grande cultura del passato, in particolare, da Dante in poi, Rinascimento soprattutto (quando l’Italia politica era ancora molto di là da venire), e il Bel Paese, il territorio, le sue bellezze artistiche, i suoi monumenti. Stando così le cose, ci sono due conseguenze importanti. La prima è che non è affatto facile produrre una transizione di successo da un’identità basata su elementi culturali, per di più con lontane radici nel passato, a un’identità politica, per di più in un paese nel quale il vento dell’antipolitica, periodicamente risollevato e aiutato da molti commentatori, soffia impetuoso. La seconda conseguenza è che qualsiasi “patriottismo costituzionale” orientato al cosmopolitismo deve essere costruito partendo da poco più di zero. Non basta suggerirlo ed esortarlo, come ha fatto Tomaso Montanari nella sua replica pubblicata sul Fatto, a una sinistra confusamente poco europeista e che pratica il cosmopolitismo con pregiudizi e in maniera alquanto approssimativa. Soprattutto, però, la costruzione dell’identità non può mai essere “di parte”, vale a dire che a nessuna parte politica può essere concesso di appropriarsene e meno che mai di brandirla contro altre parti politiche. L’identità deve essere inclusiva. Allora sì, diventa anche possibile spingere una raggiunta identità nazionale verso un’identità europea, aggiuntiva e non sostitutiva dell’identità italiana. Anzi, un’identità solida e condivisa consente di svolgere senza riserve e senza remore un ruolo attivo e incisivo sulla scena europea: non “prima gli italiani”, ma “europei perché italiani”.
La Stampa 20.9.18
Draghi sferza i populisti
“Le risposte facili non risolvono i problemi”
di Alessandro Barbera
Negli ultimi tempi i toni di Mario Draghi si sono fatti più forti del solito. Era accaduto la settimana scorsa a Francoforte, accade di nuovo a Berlino. «Invece di criticare i punti di vista dei nostri avversari od offrire soluzioni semplici a problemi complessi che si mostrano invariabilmente sbagliate, proviamo a imparare le lezioni della Storia». Non è normale sentire Draghi parlare di “noi” e di “avversari”, ma lo spirito del tempo è questo e il banchiere centrale dal pensiero forte si adegua. Benché non nasconda lo sconcerto per la piega che ha preso il dibattito italiano, ciò che preoccupa ancor di più Draghi è quel che accade in Germania, dove la stella di Angela Merkel si sta spegnendo a vantaggio delle ragioni populiste di destra, fossero quelle della Csu di Horst Seehofer o di Alternative für Deutschland.
La frase è significativa, perché allo stesso tempo è un messaggio contro le pulsioni populiste, quelle che impongono «risposte facili invariabilmente sbagliate» e una sorta di chiamata alle armi per chi invece pensa che l’Europa non è il problema, semmai la soluzione giusta ai problemi complessi.
Alla conferenza organizzata dall’istituto Jacques Delors, cinque minuti a piedi dalla porta di Brandeburgo, in platea c’è il ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz. Le lezioni che Draghi ricorda alla platea quasi esclusivamente tedesca sono quelle di Kohl, Mitterrand, Andreotti, i padri dell’Europa di oggi. «L’Europa ha successo quando si concentra sulle sfide comuni, riconosce la sua interdipendenza, risponde con appropriate istituzioni». Il presidente Bce chiede alla politica di completare l’unione bancaria introducendo un’assicurazione comune sui depositi bancari e un fondo europeo per la liquidazione delle banche.
Non solo: le regole di bilancio devono diventare «più anticicliche e vincolanti». Le sole politiche nazionali non bastano. «I mercati possono reagire in maniera eccessiva, a danno della crescita peggiorando la sostenibilità di bilancio» dei singoli partner. Per questo in Europa ci sarebbe bisogno di un “fondo di stabilizzazione”, con dotazione “consistente”. Qui Draghi apre alle ragioni degli euroscettici antitedeschi: parla della creazione di una sorta di Fondo monetario europeo, un’istituzione in grado di aiutare Paesi in difficoltà a gestire situazioni di crisi e verso la quale la politica tedesca si è mostrata sempre tiepida.
La delicatezza dell’argomento è in un dettaglio: nel testo ufficiale diffuso dalla Bce, Draghi scrive «consistente», quando legge si limita a parlare di una dotazione «adeguata». Prima di chiudersi in una stanza per una buona mezz’ora all’ultimo piano dell’Università con Draghi, Scholz risponde a modo suo alla chiamata alle armi. Si dice disponibile a discutere di un fondo di assicurazione contro la disoccupazione, tutto sommato un primo passo verso lo strumento indicato dal presidente Bce. Sia Draghi che Scholz sanno che di qui a qualche mese l’Europa si gioca il futuro. A ottobre ci sono due importantissimi test elettorali: il 14 ottobre si vota in Baviera, la regione della Csu di Seehofer, l’alleato di destra della Merkel e in cui i Cristiano-democratici non presentano proprie liste. Due settimane dopo si vota in Assia, la ricchissima regione di Francoforte in cui la Cdu è data in calo di quasi dieci punti, tanto quanto quel che guadagnerebbe l’Afd rispetto alle ultime elezioni del 2013.
A fine maggio poi si vota per le europee. Le prime due decisioni dopo quel voto saranno la scelta del nuovo presidente della Commissione di Bruxelles e del successore di Draghi all’Eurotower. La domanda che circola con sempre più insistenza nelle Cancellerie è chi sarebbe il prescelto se – come dicono i sondaggi - i populisti faranno il pieno nell’europarlamento.
il manifesto 20.9.18
Rebibbia, sospesi i vertici. Morto il secondo bambino
Carcere. Il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede rimuove la direttrice, la vice e il capo delle agenti di polizia penitenziaria. «Ho liberato i miei figli. Ora sono in paradiso», ha affermato la donna piantonata in psichiatria
di Eleonora Martini
Il giorno dopo della tragedia di Rebibbia, mentre i medici ospedalieri dichiaravano la morte cerebrale anche del secondo bambino della detenuta tedesca che martedì mattina ha gettato giù dalla rampa delle scale del “nido” del carcere i suoi due figli, con una misura che a memoria non ha precedenti, ieri il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso Ida Del Grosso, la direttrice della casa circondariale femminile romana, la sua vice, Gabriella Pedote, e la vice comandante della Polizia penitenziaria, Antonella Proietti.
Una misura, questa, «affrettata e controproducente», l’hanno bollata in molti, dentro e fuori il mondo della giustizia e delle carceri, dai Radicali di +Europa a Leu e al Pd, dai sindacati di polizia penitenziaria ai garanti dei detenuti.
Un provvedimento ad effetto, che si vorrebbe ispirato dall’assoluta intransigenza e si presta bene a spostare l’attenzione sull’ultima ruota di un carro – il carcere – che non funziona perché mal congeniato e continuamente boicottato. E assolve un ministro e un governo che, solo per fare un esempio, non hanno esitato un istante ad affossare, ad un passo dall’approvazione definitiva, la riforma penitenziaria che, tra gli altri nodi, si occupava del problema irrisolto dei troppi bambini costretti alla detenzione in carcere con le loro madri (come fa notare l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, non certo esente da responsabilità in merito).
«Se ho preso questi provvedimenti – ha spiegato Bonafede, intervenendo a “L’Aria che tira” su La7 – vuol dire che ho ritenuto che sono stati fatti errori. Il messaggio deve essere chiaro: nel mondo della detenzione non si può sbagliare». E commentando chi sottolinea l’incompatibilità con il carcere di una detenuta straniera tossicodipendente, con due bambini piccoli e problemi psichici, il ministro ha risposto: «Se c’è una cosa che mi fa schifo – parole testuali – è che quando c’è una tragedia tutti si improvvisano tuttologi, commentano la legge e parlano. C’è solo da stare zitti e da attendere gli accertamenti. Io come ministro ho già preso i miei provvedimenti a tempo di record».
In effetti auspicava il silenzio anche il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che ieri ha però voluto precisare in una nota che la responsabilità di quanto accaduto a Rebibbia, oltre che personale della detenuta, «è responsabilità collettiva: della carenza di strutture di casa famiglia protette, che esistono in numero limitatissimo e che dovrebbero costituire la soluzione prioritaria; delle comunità locali che spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio; della pretesa volontà di anteporre le necessarie esigenze di giustizia a quelle due tutele a cui si faceva riferimento prima; di un’opinione pubblica che volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno. Certamente – conclude Palma – la responsabilità non è del punto terminale di chi si trova a dirimere tale intrico di conflitti e di problema aperti e che, nel caso della direzione dell’Istituto femminile di Roma, lo ha sempre fatto con la massima attenzione a tutte le diverse esigenze».
Intanto ieri la procura ha diramato un appello per cercare il padre dei due bambini uccisi a Rebibbia, Ehis E., di nazionalità nigeriana, al fine di ottenere l’autorizzazione per l’espianto degli organi del bimbo più grande del quale ieri è stata dichiarata la morte cerebrale (nato a Monaco di Baviera il 2 febbraio 2017, mentre la sorellina morta sul colpo era nata nella stessa città tedesca il 7 marzo scorso).
«I miei bambini adesso sono liberi», avrebbe detto la detenuta 33enne al suo avvocato, Andrea Palmiero. Tedesca di nascita, georgiana di origine, arrestata in flagranza di reato il 26 agosto per concorso in possesso di 10 kg di marijuana, A.S. è tossicodipendente e in passato avrebbe tentato il suicidio, secondo quanto appreso dagli inquirenti nelle ultime ore. «Sapevo che ieri (martedì stesso, ndr) era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli li ho liberati, adesso sono in Paradiso», ha spiegato al suo legale la donna che si trova piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Sandro Pertini. Una donna che forse avrebbe avuto bisogno di un aiuto psichiatrico assai prima di commettere il reato, di essere aiutata a crescere quei due figli che aveva chiamato – significativamente – Faith (Fede) e Divine.
Repubblica 20.9.18
La tragedia in carcere
Bonafede sospende i vertici di Rebibbia "Sui bimbi uccisi hanno sbagliato"
Roma, la detenuta che ha gettato i piccoli dalle scale "Ho ridato loro la libertà, adesso sono in paradiso" Morte cerebrale per il primogenito della donna
di Federica Angeli
Roma «Adesso i miei figli sono liberi in cielo, gli ho ridato la libertà». Alice Sebesta, la trentatreenne tedesca che due mattine fa ha lanciato da una rampa, all’interno della sezione nido di Rebibbia, i suoi due figli, era lucida ieri quando ha parlato col suo avvocato. « Sapevo che era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione — ha affermato la donna — I miei bambini li ho liberati, adesso sono in Paradiso». Il difensore, Andrea Palmiero, quasi certamente tenterà la strada dell’infermità mentale per attenuare l’eventuale condanna, accusata di duplice omicidio aggravato. La bimba di 7 mesi è infatti morta sul colpo subito dopo lo schianto da un’altezza di tre metri e ieri alle 12, esattamente 24 ore dopo la tragedia, i medici del Bambino Gesù hanno dichiarato la morte cerebrale del primogenito, due anni compiuti a febbraio. Ieri, per tutto il pomeriggio, è stata una corsa contro il tempo per trovare il papà del piccolo Divine: era necessario avere il consenso per l’espianto e la donazione degli organi. La procura di Roma stessa ha diramato un comunicato in cui si chiedeva a chiunque ne avesse notizie di rintracciare Ehis E. di nazionalità nigeriana. Un buco nell’acqua: le lungaggini burocratiche e l’impossibilità di raggiungerlo in Germania — luogo in cui sembra attualmente vivere l’uomo — hanno bloccato tutto.
Nel frattempo però, oltre all’inchiesta della magistratura, se n’è aperta una amministrativa. Se è vero — come ammette lo stesso legale di Alice Sebesta che nel corso dei colloqui « non ha mai colto un proposito di questa natura né particolari squilibri » — che la donna non soffriva di evidenti patologie psichiatriche, allora l’unica responsabilità della struttura carceraria dovrebbe essere stata quella di non aver vigilato nel momento che ha preceduto gli istanti della tragedia.
Tuttavia il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha deciso per la linea dura e ha sospeso il direttore della casa circondariale femminile, Ida Del Grosso, la sua vice, Gabriella Pedote, e il vice comandante del reparto di Polizia penitenziaria, Antonella Proietti. Il ministro ha dichiarato di avere preso questa decisione perché «sono stati commessi degli errori » . « Il messaggio — ha sottolineato Bonafede — deve essere chiaro: nel mondo della detenzione non si può sbagliare. Se vedo qualcosa che non deve accadere io prendo subito provvedimenti » . Sulla vicenda è stato avviata un indagine ispettiva anche dal Dap.
Repubblica 20.9.18
Le mamme in cella: “I figli pagano per i nostri errori”
La tragedia di Rebibbia ha riportato l'attenzione sui bambini che vivono i loro primi anni nei penitenziari
Gonnella, presidente di Antigone: “Si deve investire in strutture di accoglienza che somiglino meno alle galere”
di Andrea Gualtieri
Cenerentola che balla col suo principe è una parentesi che dura pochi istanti. Lo scorcio di una favola dipinto sul muro di un luogo da incubo. Poco più in là, lungo il corridoio, ci sono le porte delle stanze. E sopra alle cullette in legno sistemate di fianco ad ogni letto singolo, gli occhi impattano sulle sbarre delle finestre, così si è costretti a ricordare che quello è sempre un carcere. Il 31 agosto c'erano 16 bambini rinchiusi con le loro mamme nella sezione nido di Rebibbia, un'ala della struttura femminile intitolata al ricordo di Leda Colombini, fondatrice dell'associazione "A Roma insieme" che si prende cura dei figli delle detenute. Divine e Faith erano arrivati proprio in quei giorni. Ieri sera nel carcere si è celebrata una lunga preghiera per loro. Hanno partecipato 350 donne. Erano sconvolte, alcune infuriate perché toccare i bambini, nella comunità del carcere, è un gesto che non viene digerito. Ma sullo sfondo c'è anche l'amarezza latente per il dramma dei piccoli innocenti che vivono i loro primi anni in un penitenziario. In tutta Italia sono 62: poco meno della metà sono figli di straniere. Si trovano in cella perché non esistono alternative familiari.
I racconti delle mamme, raccolti negli istituti, sembrano ricalcare un modello comune. "Noi abbiamo sbagliato, ma non è giusto che i nostri piccoli siano costretti a pagare", diceva tempo fa una donna originaria dell'Europa dell'est che ha vissuto a Rebibbia con la sua bimba neonata e poi è diventata la cuoca del nido. "Avere una puericultrice che li segue e i volontari che li portano fuori è già un sollievo, ma un bambino che cresce ha bisogno di libertà". In alcune carceri la situazione è ancora più critica. Nella struttura fiorentina di Sollicciano, ad esempio, il numero di mamme è molto basso e anche i servizi sono ridotti al minimo: l'asilo si limita a una stanzetta e spesso c'è un solo bambino che non ha occasione di socializzare, isolato insieme alla sua mamma. "D'altra parte qui dentro c'è gente che ha commesso crimini orrendi, non voglio che mio figlio stia a contatto con loro", afferma una donna condannata per furto.
La tragedia di Rebibbia ha fatto emergere questa porzione di vite dimenticate. "Ora però non si può strumentalizzare", ammonisce Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l'associazione che si occupa della condizione carceraria in Italia. "Il pericolo - spiega - è che si facciano passi indietro, che si pensi di strappare i figli alle madri. Invece si deve andare avanti, investire per realizzare strutture di accoglienza che somiglino meno alle galere, nelle quali la presenza degli operatori socio-sanitari sia prevalente rispetto a quella degli agenti penitenziari. E magari ambienti che riproducano quelli della vita comune, per evitare di traumatizzare i bambini".
Il modello esiste e tecnicamente si chiama Icam, istituto a custodia attenuata per detenute madri. In Italia ce ne sono cinque: a Torino, Milano, Venezia, Cagliari e Lauro, in provincia di Avellino. Quello piemontese, che è uno dei più grandi, ospita ad oggi 7 mamme con 9 bimbi. In teoria potrebbe accogliere i piccoli fino a tre anni, ma la prassi arriva a sei e in alcuni casi a dieci, se non c'è nessuno che possa farsi carico di loro. I volontari li portano negli asili all'esterno, una volta a settimana fanno escursioni. E dentro hanno un giardino con i giochi, gli agenti non indossano la divisa. E almeno non ci sono le sbarre a spezzare la favola di Cenerentola.
Il Fatto 20.9.18
“Mamme e bambini mai più in carcere”
Il premio Campiello Il precedente romanzo ispirato da Rebibbia
di Maddalena Oliva
Con Le assaggiatrici, Rosella Postorino ha vinto l’ultimo Premio Campiello. Il suo precedente romanzo, Il corpo docile (Einaudi, 2013), nasceva dall’esperienza diretta nel carcere femminile di Rebibbia, con le mamme detenute e con chi, figlio, “vive dietro le sbarre come se pagasse una colpa sua”.
Che tipo di esperienza è stata?
Con l’associazione ‘A Roma, Insieme-Leda Colombini’, per due anni, da volontaria, ho trascorso giornate intere sui pulmini messi a disposizione dal comune per far conoscere a quei bambini, rinchiusi assieme alle loro madri, il mondo, la normalità – a loro ignota – di un parco giochi, della lingua ruvida di un cane che ti lecca, delle onde del mare. Di un Natale, di una Pasqua o di una festa di compleanno. I primi 1000 giorni di vita di un essere umano sono i più importanti per determinare quello che sarà il suo sviluppo psicofisico, e lo psicologo Gianni Biondi, che ha fatto una ricerca sui bambini dietro le sbarre, ha parlato di una vera e propria ‘sindrome da prigionia’: la dentizione è rallentata, così come lo sviluppo del linguaggio e della capacità di camminare, la socialità e il senso di autonomia. I bambini che ho incontrato uscivano dal carcere spesso vestiti troppo leggeri, perché le madri non avevano idea del clima esterno; quelli ‘nuovi’ si lamentavano chiedendo ripetutamente della mamma, con cui erano abituati a vivere in simbiosi, salvo poi, una volta tornati in carcere da lei, la sera, piangere disperati perché le lunghe ore d’aria erano terminate. Chiamavano ogni stanza ‘cella’, perché conoscevano solo il gergo carcerario. È stata un’esperienza toccante. E cinque anni dopo, di fronte alla tragedia appena accaduta a Rebibbia, mi atterrisce vedere che lo scandalo dei bambini reclusi non sia finito.
Le donne detenute nelle carceri italiane sono 2.402 , delle quali 52 mamme con 62 figli. Che fare?
Bisogna far sì che i bambini restino assieme alle madri, ma fuori dal carcere: garantire la sicurezza mettendo al primo posto il bambino, che è innocente e non può pagare perché sua madre ha sbagliato. La legge prevede misure di detenzione alternative come le case famiglia protette o gli Icam (istituti di custodia attenuata per madri detenute), ma in Italia c’è un solo Icam a Milano, le case famiglia sono poche e per accedervi è necessario non incorrere nella recidiva. Come sempre, da una parte mancano i soldi per costruire le strutture, e in più la legge si rivela lacunosa e dunque inapplicabile per un’autentica tutela del bambino.
E la politica che non riesce a trovare una soluzione alternativa alla carcerazione…
Bisogna affrontare il problema alla radice. Il carcere è il setaccio finale di una società che non sa dare risposte ai suoi elementi più deboli: più il sistema carcerario è affollato, tanto più la società è ingiusta. Tenere in galera un bambino è una forma di violenza. Quanto può essere profondo il senso di inadeguatezza di una madre che fa crescere i suoi figli reclusi? ‘Adesso sono liberi’, ha dichiarato Alice, la donna tedesca dopo il gesto atroce che ha compiuto. E io ho pensato a Michel Foucault che definiva la pena carceraria una ‘morte indiretta’.
il manifesto 20.9.18
Il mondo diviso del razzismo
Scaffale. «Soggettività antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale» di Sandro Luce, pubblicato per Meltemi
di Gennaro Avallone
L’analisi della realtà sociale e politica svolta da Frantz Fanon è uno strumento per la liberazione, i cui protagonisti sono le donne e gli uomini oppressi dai rapporti coloniali, razziali, sessisti e di classe.
Fanon ha realizzato l’osservazione di un’oppressione profonda, che arriva fino all’intimità dei corpi, fino alla psiche, attraverso la violenza coloniale, e che, pertanto, annuncia la necessità di un processo altrettanto profondo di liberazione culturale e politica, attraverso nuovi rapporti di forza su scala mondiale.
È QUESTA una delle attualità della proposta di Fanon, attuale quanto lo sono i rapporti (neo)coloniali e quelli gerarchici pieni di dominio razziale e di genere, come è palese nelle relazioni tra Occidente e Africa e come è chiaro nelle politiche europee contro la mobilità spaziale delle persone migranti, resa giorno dopo giorno sempre più difficile e, quindi, pericolosa. L’attualità di Fanon si ritrova, d’altronde, nel suo stesso modo di fare analisi sociale, psichica e politica, forzando le categorie interpretative, secondo un metodo che non intende rinunciare a utilizzare i linguaggi della liberazione costruiti nell’esperienza europea, in particolare quelli elaborati all’interno della storia del marxismo e dei movimenti operai, impiegandoli, però, da uno specifico punto di vista, quello dei colonizzati.
Questa «forza dislocante» è al centro del libro Soggettività antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale (pp. 308, euro 20), pagine intense che si leggono senza sosta, ricche di riferimenti filosofici e storici, pubblicato per Meltemi da Sandro Luce, dottore di ricerca in Etica e filosofia politico-giuridica presso l’Università di Salerno.
LA CAPACITÀ di usare le categorie interpretandole in maniera differente, come mostrato nella prima parte del testo («Fanon alla prova della modernità»), apre inedite e impreviste possibilità di lettura del presente.
In questa prima parte, fatta di quattro capitoli, una delle tematiche centrali è quella del razzismo, del divenire negro, della critica agli essenzialismi. Fanon evidenzia come il razzismo produca un mondo diviso in due tra esseri umani della zona dell’essere ed essere umani della zona del non essere, in modo analogo alla situazione coloniale, in cui a contrapporsi erano il colono e il colonizzato, il dominatore e il dominato, il soggetto civilizzato e l’oggetto da civilizzare.
È una realtà non conclusa, quella razziale, come è evidente nella cronaca quotidiana, così come non lo è quella coloniale. Nella seconda parte del testo («Posizionamenti postcoloniali»),
Sandro Luce presenta Fanon proprio sotto questa luce, come macchina teorica e politica produttrice di uno studio anticipatore del mondo post-coloniale. I sette capitoli della seconda parte muovono, del resto, dal contenuto problematico di quest’ultimo termine. Esso viene chiarito rinviando al suo significato metaforico, che parla di una realtà coloniale nel suo «post», cioè in un nuovo contesto determinato dalle lotte anticoloniali così come dai processi del capitalismo globale.
SONO LE ANALISI consolidate di Stuart Hall e le più recenti interpretazioni di Miguel Mellino, Sandro Mezzadra e altri e altre ad aiutare a chiarire la persistenza delle «conseguenze del colonialismo», dunque «di relazioni di dipendenza di matrice coloniale», insieme all’indebolimento dei paradigmi teorici e politici del periodo coloniale, non più adeguati agli spostamenti (déplacement) che nel tempo si sono realizzati. L’attualità della situazione coloniale, in un contesto sul piano formale non più coloniale, attraversato da potenti processi decoloniali oltre che neoimperiali, rende ancora più attuale l’analisi dei contributi di Fanon. La liberazione dalla colonia è ancora necessaria ma, contemporaneamente, è già storia.
La rottura della linearità temporale, degli approcci storicisti, messa a punto da Michel Foucault, importante presenza in questo libro, è necessaria per comprendere come si realizza la liberazione in un mondo in cui ad essere protagonisti sono figure dissonanti «come quelle del migrante, del rifugiato e di tutti quei ‘nuovi oppressi’ che costituiscono la testimonianza di come il colonialismo, sebbene sia cessato come fenomeno politico, persiste nell’odierno scenario globalizzato, perpetuandosi in tutti quei luoghi nei quali si riproducono relazioni di dominio e sfruttamento».
Il Fatto 20.9.18
“Le cattedrali spagnole sono musei a pagamento nel deserto di fedeli”
Il poeta: “Stato e Chiesa si contendono la proprietà, ma il problema è il biglietto”
di Alessia Grossi
“Una volta un prete mi intimò di uscire da una cattedrale perché lui la messa vuole officiarla da solo. A Teruel mi sono visto circondato dalla polizia chiamata dal custode che mi aveva scambiato per un terrorista: la visita media di un turista dura in media i 10 e i 30 minuti, io ero lì da ore. In una cattedrale in provincia di Jaén quasi resto chiuso nella torre perché si dimenticarono della mia presenza e io di essere lì”. Julio Llamazares, poeta e scrittore spagnolo, ateo e viaggiatore, in 17 anni ha visitato tutte le cattedrali di Spagna. “Ho trascorso un giorno in ognuna”. E da questo suo peregrinare tra religione, cultura, storia e sociologia dei luoghi ha tratto un romanzo in due tomi: Las rosas de piedra, (Debolsillo 2008) e
Las rosas del sur in questi giorni in libreria.
A leggere i giornali spagnoli degli ultimi giorni – con il governo che chiede indietro alla Chiesa migliaia tra chiese, eremi e piazze di proprietà dello Stato ma accatastate come beni ecclesiastici grazie a una legge del 1998 passata in sordina del governo di José Maria Aznar – ritornano subito alla mente i suoi libri.
Llamazares fa la parte di Cassandra, che tutto aveva visto e previsto. “Non è una questione giuridica”, spiega l’autore che in Italia ha pubblicato ultimo Il funerale di Genarin(Amos edizioni) : “Il punto è che quasi tutte le cattedrali che ho visitato sono diventate luoghi per turisti. Non ci sono più funzioni, né sono in grado di raccogliere la comunità locale come una volta”, racconta. Nel 2001 lo scrittore iniziò il suo “pellegrinaggio letterario” pensando a un viaggio per la Spagna attraverso i suoi luoghi di culto, dai più famosi come Santiago di Compostela alle piccole cattedrali romaniche del Nord, intorno ai Pirenei, passando per la Castiglia e l’Estremadura, fino alle cattedrali vecchie di Salamanca, o del Sud come Guadix (nella provincia di Granada). L’obiettivo era narrare il valore artistico e architettonico di questi posti, ma anche il tessuto sociale che li popola. “Ma niente. Negli ultimi anni in Spagna la maggior parte di questi beni sono diventati musei. E così hanno ucciso la loro anima. I vescovi ormai hanno sequestrato le chiese. In alcuni casi, eclatanti come quello di Cordova o di Siviglia, gli abitanti non entrano neanche più nelle basiliche. Ci vedi solo giapponesi”. Ne è convinto Llamazares, “nel momento in cui si chiudono le porte e si chiedono soldi per entrare, gli abitanti della città non ci metteranno mai più piede. E così si uccide la relazione tra la ‘città di Dio’ e quella terrena”. Lo scrittore di Léon si confessa ateo, ma riconosce a questi luoghi un’importanza storica anche per i fedeli, oltreché sociale per chi come lui non crede, ma li ha sempre vissuti come l’anima della città”. Che la proprietà di questi edifici di Dio sia dei vescovi o dello Stato, “il punto – secondo Llamazares – è che non si può stabilire un prezzo per entrarvi. I dibattiti – chiarisce lo scrittore – sono due: quello sulla proprietà dei beni, e quello su come mantenerli, dato che per farlo serve molto denaro”. Da qui i biglietti di ingresso che però – stando a quanto ha visto lo scrittore nel suo lungo viaggio – “spesso non servono o non bastano neanche per la manutenzione”. Llamazares dà i numeri: “Solo l’anno scorso la Moschea di Cordova ha incassato 18 milioni di euro con 10 euro a visita. Ma quando si restaura qualcosa, la Chiesa chiede altro denaro alle amministrazione o ai fedeli”.
La soluzione? “I fondi bisogna trovarli nel bilancio statale, anche se ne servono molti. O bisogna inventarsi un’altra forma di finanziamento. Questa del biglietto va sia contro ‘le porte aperte’ predicate dalla religione, che contro l’aspetto sociale”. Più che di pietra, cattedrali nel deserto.
La Stampa 20.9.18
Il pd e le radici di una crisi esistenziale
di Massimiliano Panarari
Indovina chi viene a cena? Un interrogativo presto risolto nel caso del Pd, dove di questo passo gli organizzatori rischiano di rimanere sempre più senza commensali-elettori. L’infelice e improvvido dibattito gastronomico-twittarolo su chi si sarebbe seduto a tavola a casa di Carlo Calenda (il quale, peraltro, non troppo tempo fa si era inventato la formula originale di un «populismo comunicativo d’establishment») restituisce assai plasticamente lo stato delle cose dentro il Partito democratico. Una sorta di caminetto e di «desco degli ottimati» proprio nell’era della sfiducia messa a frutto trionfalmente, per la prima volta in un Paese dell’Occidente, dal populsovranismo. I partiti-movimenti populisti proclamano la disintermediazione e, per tutta risposta, l’organizzazione politica erede di due votatissimi partiti popolari della Prima Repubblica si incarta nella discussione intorno a ciò che, nella percezione di una bella fetta di opinione pubblica, appare come l’idealtipo del salotto elitario.
E, dunque, per rilanciare una formazione politica in totale stato confusionale e sulla soglia del cupio dissolvi non saranno di sicuro sufficienti un rebranding e il cambio del nome che, in termini strettamente di marketing politico-elettorale, presenterebbero anche delle argomentazioni sensate, ma nel momento in cui vengono proposti dagli stessi vertici assumono un’immediata parvenza di gattopardismo. Le ragioni della batosta del Pd sono state indagate in queste settimane in lungo e in largo ma, a ben guardare, quello a cui stiamo assistendo - un esito molto pericoloso per la tenuta della democrazia liberalrappresentativa che necessita di un’opposizione politico-parlamentare autorevole - è un approdo per certi versi già scritto nelle cose. Ovvero, nella stessa genealogia e nel processo di formazione. I nodi che stanno ora arrivando al pettine erano contenuti già nelle origini del Pd, che non è mai stato un’organizzazione politica innovativa, ma è nato dall’associazione di culture politiche del passato. Certamente nobili eppure, al medesimo tempo, inadeguate ad affrontare l’agenda e le sfide poste dalla postmodernità (di cui, al contrario, i neopopulismi sono direttamente un prodotto). Così come otto-novecentesco, e alquanto sofferente, si è rivelato il paradigma organizzativo, costruito di fatto «in piccolo» sul glorioso partito di integrazione sociale di massa (quando l’età delle masse, però, era già ampiamente terminata). E, come se non bastasse, le subculture politiche confluite nel Pd venivano da una lunga storia conflittuale, e la loro aggregazione non ha mai dato vita a una vera fusione, col risultato che su alcune questioni di grande importanza - e decisive sotto il profilo del consenso elettorale - si sono generate una forma di paralisi e l’impossibilità di prendere posizione in modo chiaro e netto: problemi non imputabili quindi in via esclusiva ai personalismi dei leader e dei capicorrente, ma derivanti dal dna stesso di quel partito.
Di qui anche la debolezza dell’elaborazione politico-culturale in proprio, e il ricorso a prestiti, in primis la Terza via proveniente dal mondo anglosassone (riveduta e corretta un po’ approssimativamente, e per giunta senza leader carismatici come Clinton e Blair). Un innesto di light ideology (ideologia leggera), che ha ulteriormente rafforzato la vocazione autentica e la finalità primaria per cui il Pd è nato: l’essere un partito di sistema e di governo. E, difatti, ora che si ritrova estromesso dall’esecutivo e schiacciato sull’identificazione con l’establishment dalla nuova frattura simbolicamente totalizzante tra élite e popolo, si è avviluppato in una crisi esistenziale e identitaria che potrebbe anche essere senza ritorno. A meno di saper andare oltre se stesso, contribuendo a ricostruire i fondamentali del dibattito pubblico (con la promozione «di massa» della conoscenza e della competenza), e gettando le basi per un riformismo diffuso e per quello che l’«Economist» ha chiamato un liberalismo (progressista) popolare. Indubbiamente, un (troppo?) vasto programma.
Corriere 20.9.18
Lotta e governo l’altalena politica dei 5 Stelle
di Massimo Franco
È lontano anni luce, il Luigi Di Maio che sfoggiava moderazione e dava rassicurazioni sui propri cromosomi europeisti. Peccato. In cento giorni al governo, il vicepremier e ministro del Movimento Cinque Stelle ha assunto con frequenza crescente i toni capricciosi di chi pretende di modellare la realtà sulle proprie promesse elettorali: anche se si tratta di impegni che fanno a pugni con la realtà dei conti economici. L’attacco frontale a Giovanni Tria lascia affiorare una miscela di impazienza e di arroganza, che vela un’insicurezza di fondo. Il timore di Di Maio non riguarda le possibili reazioni dell’Unione europea e dei mercati finanziari di fronte a una legge di bilancio gonfiata da spese in deficit.
L’unica preoccupazione sembra quella di difendersi dal suo Movimento: da quei settori che disapprovano il contratto con Matteo Salvini; che chiedono di battere cassa, costi quello che costi; e che mal digeriscono il «governismo» del prescelto di Beppe Grillo e Davide Casaleggio. La metamorfosi ha dunque una spiegazione soprattutto interna alle dinamiche dei Cinque Stelle. Dopo avere contribuito in modo decisivo al successo del 4 marzo, è come se il vicepremier e l’intero vertice non avessero ancora chiarito a se stessi se quel risultato è stato frutto di un profilo ambiguamente moderato, o del solito estremismo. Eppure, Di Maio è stato «programmato» e indicato come leader per governare: non importa se con Lega o Pd.
Q uesto spiega la reazione scomposta che ebbe nelle ore decisive della formazione di un governo. Quando sembrò che il tentativo dovesse naufragare, non esitò a chiedere un lunare impeachment del Capo dello Stato, Sergio Mattarella: salvo poi rimangiarselo, sostenendo che Salvini «non è un cuor di leone» e dunque non c’erano i numeri per chiederlo. Ecco, l’attacco a Tria, la pretesa che il ministro dell’Economia «trovi i soldi» per dare credibilità alle promesse del M5S, somiglia a un secondo scivolone. La ragione, a ben vedere, rimane la stessa: la tensione tra Di Maio e una parte del suo Movimento; e dunque il tentativo affannoso di scaricare sul governo i problemi di un grillismo a due facce.
D’altronde, oggi per lui la situazione è peggiore che dopo il 4 marzo. Sebbene abbia quasi il doppio dei voti raccolti allora dalla Lega, nei sondaggi il M5S è considerato virtualmente superato. E soprattutto, l’agenda delle priorità finora è stata imposta da Salvini: almeno sul piano di una popolarità facile, costruita contro l’immigrazione. E più affiora il timore di un sorpasso a favore del Carroccio, più riemergono ombre di leadership alternativa a Di Maio, proiettate sulle Europee di maggio. Gli strappi nascono da questa sensazione di assedio che il vicepremier avverte, accentuando il suo nervosismo e togliendosi simbolicamente la grisaglia ministeriale, per tornare a parole e atteggiamenti che stonano con l’immagine costruita in precedenza.
Ma non si può attribuire la responsabilità solo a lui. Da quando è stato formato il primo governo dichiaratamente populista dell’Occidente europeo, M5S e Lega non hanno fatto che inseguirsi come se il loro «contratto» avesse come vero nucleo il prolungamento tacito della campagna elettorale. Entrambi giurano che la compagine mediata dal premier Giuseppe Conte durerà per l’intera legislatura. Eppure, sembrano i primi a non crederci. La fretta di mostrare risultati tangibili ai loro elettori, o di farli apparire tali, tradisce l’atteggiamento mentale di chi ritiene di avere poco e non molto tempo a disposizione.
Altrimenti, sceglierebbero una strategia quinquennale basata sul gradualismo, e su parole di verità al Paese. I consensi alti dicono che l’opinione pubblica non ha cambiato idea su di loro. M5S e Lega non hanno avversari in grado di insidiarli. Per questo, usare il ministro Tria come capro espiatorio delle proprie difficoltà è doppiamente suicida. Primo, il ministro dell’Economia è l’uomo-simbolo della credibilità italiana sui mercati finanziari. E lo sta diventando di più per l’aggressione politica che sta subendo. Colpirlo significherebbe indebolire, se non affondare il governo M5S-Lega.
Secondo, difficilmente un nuovo ministro potrebbe seguire una politica economica diversa, più «popolare» e lassista sui conti. Per rassicurare gli investitori, per paradosso si dovrebbe scegliere qualcuno ancora più determinato a scontentare le richieste di chi, nel Movimento, preme su Di Maio. Ormai dovrebbe essere chiaro che il cuore strategico e delicato del governo non è né a Palazzo Chigi, né nei ministeri dei vicepremier. Semmai, sorprende che Tria sia apparso un po’ solo, nonostante la stima che Conte dice di nutrire per lui. La protezione internazionale dell’Italia è affidata in prima linea alla sua politica economica. Non capirlo significa mettere a rischio gli equilibri creati faticosamente il 1° giugno scorso; e mostrarli più precari di quanto siano .
Repubblica 20.9.18
La separazione consensuale
di Roberto Esposito
Di fronte all’implosione annunciata, e di fatto avviata, del Pd, l’editoriale scritto domenica da Eugenio Scalfari contiene un’ipotesi da prendere in seria considerazione. Verificata l’impossibilità di unire le due anime del partito, procedere a una separazione consensuale tra due organismi politici distinti, ma potenzialmente alleati. Da un lato un polo socialdemocratico, spostato più a sinistra dell’attuale Pd, in grado di interloquire con i segmenti della sinistra radicale; e dall’altro un polo liberal- repubblicano, capace di attrarre un voto moderato, ma refrattario alle politiche xenofobe e illiberali della Lega. Forse Scalfari è troppo ottimista sulle percentuali che assegna ad entrambi, ma il suo ragionamento non fa una piega.
Al netto degli errori, degli egoismi e delle gaffe dei dirigenti del Pd, il nodo di fondo, ormai insolubile, resta la divaricazione tra due concezioni della sinistra, simbolicamente riconducibili a due leader inglesi. Quella inaugurata negli anni Ottanta da Tony Blair e seguita da altri, pur con esiti non esaltanti. E quella riproposta oggi da Geremy Corbyn, con un certo successo, ma non tale da portarlo al governo. Nel Pd, al di là dei rancori personali, è questa l’alternativa che taglia il partito in due.
E allora? Che il prossimo congresso metta fine allo scontro, portando gli sconfitti a collaborare con i vincitori appare francamente irrealistico. Qualunque parte prevalga. Se sconfitti, i renziani finirebbero per lasciare il Pd. Ma neanche la sinistra interna deporrebbe mai le armi, se prevalessero gli altri. La via da seguire è quella di prendere atto delle cose, abbandonando il progetto, impraticabile, di incorporare la futura minoranza. E di accettare una divisione dei ruoli nel centro- sinistra che tenga in vita entrambi i progetti. Dividersi non significa necessariamente spezzare ogni filo. Perché tra " socialisti" e " repubblicani", anche divisi, resta qualcosa che in politica è fondamentale: l’avversario comune, costituito dalla destra al governo. Immaginare di dividerla, per poi allearsi con un suo pezzo oggi è fuori dalla realtà. Non solo perché Lega e Movimento 5 Stelle dichiarano che non si separeranno, e c’è da crederci, visto l’interesse che li unisce. Ma perché condividono lo stesso lessico politico.
Non resta che distinguersi a sinistra, senza escludere la successiva alleanza. L’alleanza, in politica, è necessaria quanto il conflitto. Oggi quello che è merce sempre più rara a sinistra è una strategia intelligente.
Naturalmente la strategia va riempita di contenuti e obiettivi, diversi ma non contrastanti. Il polo socialista deve spingere assai più a fondo sul pedale della politica sociale. Lavorando sul territorio, dovunque ci sia sofferenza. Non solo nelle periferie, ma anche al centro del mercato del lavoro, dove sono sempre più i disoccupati, gli sfruttati, i ricattati dalla nuova gig economy.
Bisogna rovesciare radicalmente la logica orizzontale della flat tax in una tassazione progressiva che arrivi a intaccare i profitti finanziari e le rendite accumulate.
Dall’altra parte il polo repubblicano deve impegnarsi sia nella difesa intransigente dei diritti civili sia in una politica europea forte e realistica. Il futuro nostro e delle nuove generazioni dipende dal radicamento dell’Italia in un’Europa unita. E dal ruolo che saprà giocare in essa a fianco delle democrazie occidentali.
Il contrario di quanto pensa Salvini. Ma sapendo che Europa politica non può significare omologazione in un unico soggetto indifferenziato. Gli Stati Uniti d’Europa restano all’orizzonte come punto limite.
Ma l’unica Europa possibile è oggi un’Europa ad altro tasso di federalismo, capace di bilanciare nuovi poteri centrali con la salvaguardia delle differenze nazionali che da secoli la caratterizzano.
il manifesto 20.9.18
L’amarezza di Grasso: «Leu, ora il rischio di consunzione»
Sinistre, da oggi a domenica a Roma la festa di Mdp. Presente il presidente Fico e il ministro Moavero. Dal Pd arriva Martina ma non Zingaretti
di Daniela Preziosi
Roberto Fico, ala sinistra del M55 ci sarà: alla festa di Art.1 che parte oggi pomeriggio alla Città dell’altra economia a Testaccio (Roma) arriverà venerdì. Si darà il cambio sul palco con Maurizio Martina, segretario Pd, che discuterà con Roberto Speranza su come «Costruire l’alternativa». L’idea portante della festa è, spiega Arturo Scotto, «dialogare con la parte di M5S che non si è consegnata alla Lega e con la parte del Pd che vuole cambiare il partito». Ma l’idea è di difficile realizzazione.
Dalla parte grillina il presidente della camera ha accolto l’invito. Ma nessun ministro a 5 stelle ha accettato di salire sul palco di Testaccio, tranne quello degli esteri Enzo Moavero Milanesi – che però è un indipendente – che si confronterà con Scotto su «un Mediterraneo senza muri», l’opposto della propaganda del governo pentaleghista.
Dalla parte dem non è andata molto meglio. Il segretario Pd ci sarà. Ma ha dato buca Nicola Zingaretti, il candidato cui buona parte del gruppo dirigente Mdp guarda con fiducia per tornare all’ovile, o almeno in una coalizione di centrosinistra. Motivo dell’assenza? «Problemi organizzativi, le agende non coincidevano», spiegano dall’una e dall’altra parte. Ma il candidato Pd teme l’abbraccio mortale degli ex, puniti dall’elettorato e legati alla stagione seppellita dalla valanga di voti gialloverdi.
Anche se c’è ex ed ex: se nel suo partito non disdegna una mano dall’ex premier Gentiloni o dall’ex ministro Franceschini, fuori dal Pd tiene a distanza gli ex della Vecchia Guardia dalemian-bersaniana, che già si sbracciano in cordialità.
L’eterno nodo del rapporto con il Pd ormai arriva al pettine di Liberi e uguali. Il congresso che doveva trasformare la lista (3,4% alle politiche e 18 eletti) in partito si è impantanato.
Sfilato da subito Possibile, il percorso, che prevedeva il varo di un manifesto e l’elezione dei gruppi dirigenti, si è inceppato prima di partire. Sotto accusa proprio il vertice di Mdp, che secondo i malpensanti sta aspettando gennaio, e cioè gli esiti del congresso Pd. E al presidente Grasso, che preme per andare avanti, risponde in maniera evasiva. Non a caso alla festa di Roma all’ex procuratore è stato riservato un prestigiosissimo confronto sulla mafia con lo storico Isaia Sales, ma non un dibattito sulla prospettiva politica.
Grasso ha incassato lo sgarbo con stile. Ma ormai viene descritto come molto sfiduciato. I primi di settembre ha inviato una lettera ai due segretari, quello di Sinistra italiana Fratoianni e quello di Mdp Speranza, con le sue considerazioni «per dissequestrare la discussione sul profilo politico e dare finalmente avvio alla campagna di adesione e al confronto tra i nostri militanti ed elettori». Insomma, far partire il congresso. Ma se Si è sicura di vincere su una linea di rottura con il Pd, Mdp invece mette una pregiudiziale alla nascita del partito: l’impegno a presentarne il marchio alle europee. Impegno che oggi nessuno può prendere, neanche la stessa Mdp già in cerca di alleati.
Suona come un pretesto per fermare le macchine. C’è anche la richiesta di non esaurire la consultazione sulla piattaforma online, a cui Grasso si oppone: «Non abbiamo gli strumenti per poter garantire alle votazioni il più alto grado di trasparenza».
Ma il tempo è scaduto, o sta per scadere in queste ore. Martedì sera, in un dibattito pubblico dove era intervistato dalla direttrice del manifesto Norma Rangeri, l’ex procuratore ha pronunciato frasi molto amare: «Purtroppo ho constatato una fase di stallo», ma «se restiamo nell’ambiguità rischiamo la consunzione». Se non è alzare bandiera bianca, ci manca un soffio.
il manifesto 20.9.18
Rebibbia: il silenzio necessario, Bonafede e la politica del capro espiatorio
di Patrizio Gonnella
Di fronte a due bimbi morti e alla tragedia immane avvenuta nel carcere femminile di Rebibbia avremmo tutti dovuto chiuderci in un rispettoso silenzio. Di fronte a un fatto di cronaca così terribile il silenzio ha una forza etica imparagonabilmente superiore a chi spreca parole per spiegare, strumentalizzare, sentenziare. Una rottura del silenzio, anche da parte mia, è però necessaria per svelare il gioco del capro espiatorio e per restituire dignità a persone che la meritano.
Mario Gozzini, cattolico, eletto negli anni ’80 in Parlamento nelle liste del Pci, è stato il padre della riforma penitenziaria del 1986. Negli anni successivi all’approvazione della legge Gozzini era diventato il capro espiatorio di tutti i crimini commessi o impuniti nel nostro Paese. Lui stesso scriveva come spesso gli fosse detto in modo superficiale che lui era tanto sensibile al tema soltanto perché era cattolico. A costoro Gozzini rispondeva che la professione di fede non c’entrava nulla e che per lui la questione penitenziaria era una questione sociale, civile, naturale, politica, economica. Infine, con il sorriso, spiegava che era ben lieto che il suo impegno si incrociava con un’esortazione di Cristo che aveva identificato se stesso con in carcerati (Matteo 25, 36). Gozzini funzionava bene come capro espiatorio ogniqualvolta un detenuto in misura alternativa commetteva un delitto.
E ieri bene ha funzionato nella comunicazione pubblica un altro capro espiatorio. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso dalle loro funzioni la direttrice, la vice-direttrice e la vice-comandante del carcere femminile romano. Il capro espiatorio è servito con una tempestività che non lascia spazio a dubbi, difese, ragionamenti, biografie. Di fronte a un crimine che dovrebbe lasciare sbigottiti, un crimine che rimanda alla mitologia greca, si puniscono con la sospensione dal servizio, con severità raramente vista nelle istituzioni penitenziarie (di certo non vista in quelle galere dove si tollerano violenze), tre persone per bene.
Conosco personalmente la direttrice e la vice-direttrice di quel carcere e so che sono tra le dirigenti più brave, aperte, attente ai bisogni delle donne recluse presenti nel nostro sistema penitenziario. Le ho viste al lavoro mostrando grande rispetto e cura nei confronti delle detenute. Non so di quale errore siano responsabili. So però che non meritavano, alla luce della loro preziosa carriera, tale sospensione dall’incarico. Di certo, da oggi le detenute del carcere romano non staranno meglio di prima.
Una volta che il capro espiatorio è servito dovremo affrontare un altro tema, ossia cosa vogliamo che accada quando una madre di un bimbo piccolo finisce in carcere. Sono molti i Paesi dove i bambini sono destinati all’istituzionalizzazione. Se dalla tragedia della follia avvenuta a Roma dovessimo uscirne con un ritorno a un passato di separazione forzata, violenta e dannosa dei figli dalle mamme allora vorrà dire che il capolavoro è drammaticamente compiuto.
il manifesto 20.9.18
Genocidio rohingya, primo passo dell’Aja verso l’inchiesta
Myanmar. La Corte penale internazionale ha avviato l’esame preliminare delle accuse contro il Myanmar per omicidi, stupri, persecuzione. Nessun problema di giurisdizione: quello birmano non è uno Stato membro del Tpi, ma lo è il Bangladesh che ospita oltre un milione di rifugiati della minoranza
di Emanuele Giordana
«Dalla fine del 2017, il mio ufficio ha ricevuto una serie di comunicazioni e rapporti riguardanti crimini presumibilmente commessi contro la popolazione Rohingya in Myanmar e la loro deportazione in Bangladesh». Comincia così il comunicato con cui Fatou Bensouda, procuratrice generale della Corte penale internazionale dell’Aja (Tpi), ha reso noto l’avvio dell’esame preliminare su presunti atti coercitivi che hanno provocato lo spostamento forzato del popolo Rohingya in Bangladesh: privazione dei diritti fondamentali, uccisioni, violenze sessuali, sparizioni forzate, distruzione e saccheggi, persecuzione.
Il cammino è stato lungo e tortuoso perché il Myanmar, che non è uno Stato membro del Tpi, ha rifiutato alla corte visite nel Paese per verificare le accuse. Bensouda chiarisce che, sulla questione legale preliminare riguardante la giurisdizione del Tpi, la procuratrice ha avuto conferma dallo staff legale del tribunale che si può effettivamente esercitarla: se il Myanmar non è Stato membro, lo è il Bangladesh, dunque i giudici possono lavorare perché questo Stato è parte in causa.
«Un esame preliminare – chiarisce la procuratrice – non è un’inchiesta, ma un processo di esame delle informazioni disponibili» per ottenere una decisione pienamente confortata dai fatti sull’eventuale esistenza di «una base ragionevole per procedere a un’indagine secondo i criteri stabiliti dallo Statuto di Roma. È il minimo che dobbiamo alle vittime».
Teoricamente, ai sensi dello Statuto di Roma, le giurisdizioni nazionali hanno la responsabilità primaria di indagare e perseguire i responsabili dei crimini internazionali e, conformemente al principio di complementarità, l’ufficio del procuratore «si impegnerà con le autorità nazionali interessate per discutere e valutare eventuali indagini e azioni giudiziarie pertinenti a livello nazionale».
Ma che il Myanmar collabori non è da prendere nemmeno in considerazione.
Il Bangladesh invece sicuramente lo farà. Nelle stesse ore la premier del Bangladesh Sheikh Hasina rendeva noto che Dacca presenterà una proposta di piano d’azione in cinque punti sulla questione Rohingya in diversi incontri multilaterali durante la 73ª Assemblea generale Onu. L’ultima espulsione riguarda oltre 700mila Rohingya ma il suo Paese ne ospita oltre un milione.
Se le cose andranno avanti – come è ormai inevitabile – e, dopo le indagini preliminari, si aprisse una vera e propria inchiesta, le risultanze potrebbero portare alla costituzione di un tribunale ad hoc, come già in passato. Inutile dire che i generali birmani – che un rapporto Onu ha chiesto siano indagati per genocidio (parole che Bensouda non ha usato) – si rifiuterebbero di andare a deporre con il rischio di essere arrestati. E una loro condanna resterebbe solo una macchia sul vestito. Indelebile però.
Chi è condannato dal Tpi vede emettere un mandato internazionale di arresto a qualsiasi frontiera e in qualsiasi territorio dei 123 Stati membri.
Corriere 20.9.18
Riflettori su Mussolini e Marx Il nodo della disuguaglianza
Tra i personaggi storici di cui si parlerà a Pordenonelegge un rilievo di primo piano spetta a Benito Mussolini, di cui Antonio Scurati ha romanzato la biografia dal 1919 al 1925 nel libro M. Il figlio del secolo (Bompiani), primo volume di una trilogia dedicata al dittatore fascista. Sabato 22 settembre l’autore presenterà il suo romanzo in piazza San Marco (ore 11.30) con Paolo Mieli, in un incontro coordinato da Alberto Garlini. Ma a Pordenone si discuterà anche della raccolta di saggi Karl Marx vivo o morto?, edita da Solferino. Ne parleranno domani Antonio Carioti e Umberto Curi, sempre alle 11.30, presso il Palazzo Montereale Mantica. Il nome di Marx richiama ovviamente la questione sociale, sulla quale a Pordenonelegge interverrà Dario Di Vico, autore del libro Nel Paese dei disuguali (Egea). L’incontro, presentato da Valentina Gasparet, si terrà sabato 22 settembre alle ore 10, presso l’Auditorium dell’Istituto Vendramini. Si confrontano con l’editorialista del «Corriere della Sera» tre giovani «ugualmente disuguali»: Leonardo Goi, Luca Pascotto e Benedetta Rombolà.