Repubblica 29.9.18
Di Maio guida i suoi ministri con gesti da
ultrà. Una scena che sfiora il tabù nato a Palazzo Venezia e conferma
l’allergia alla compostezza
Palazzo Chigi
Lo show dei 5 Stelle
L’esultanza dal balcone antico vizio del potere
di Filippo Ceccarelli
ROMA
Tutto torna a Roma, anche il balcone; e non è che ci sia troppo da
rallegrarsene, ma tant’è. Così l’altra sera, agitando come scalpo, o
magari come un trofeo quel rischiosissimo 2,4 per cento, senza chiedere
il permesso al padrone di casa, il vicepremier Di Maio e i suoi ministri
hanno aperto la fatidica porta-finestra del primo piano e lì sul
balcone si sono offerti ai flash e alle telecamere alzando le braccia
come tifosi al momento del gol. Al grido «ce l’abbiamo fatta! Ce
l’abbiamo fatta!», Di Maio gioiosamente scravattato ha quindi posto fine
alla gioiosa invasione: «Adesso scendiamo!», mentre il suo collega
Toninelli, che a distinguersi ci ha preso gusto, seguitava a esprimere
il suo giubilo con un singolare barrito un po’ da coro disneyano — " Yù-
ùuuu!" — che avrà senz’altro rallegrato la piccola folla di
parlamentari e tifosi cinque stelle convocati nottetempo con bandiere a
piazza Colonna.
Di tutto questo, tra meno di una settimana, non
resterà che un confuso e pallido ricordo — come pure dell’enfasi che ha
accompagnato la "manovra del popolo".
Eppure, i balconi sono pietre miliari della storia politica del novecento, e non certo della più provvida, prospera e pacifica.
Detta
altrimenti: da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia sono appena due fermate
di autobus (quando passa!) e lo storico balcone del secondo edificio è
rimasto a tal punto impresso come tribuna, specchio e misuratore del
consenso mussoliniano che da oltre 70 anni risulta chiuso con un
lucchetto.
In realtà il duce fu abile a far sua la grande lezione
del vero, grande inventore del balconismo scenico e tonitruante
all’italiana: «Il popolo tumultuava chiamandomi sotto le mie finestre —
si legge negli appunti del Vate durante la spedizione fiumana — la
disumana massa ribolliva come materia in fusione. Certe cadenze e
clausole mi balenavano dentro come quei baleni che appariscono a fior
del metallo strutto. Una forza non più contenibile mi saliva a sommo del
petto, mi anelava nella gola: credo mi soffiasse non so che
fluorescenza tra i denti e le labbra, gittavo un grido, andavo alla
ringhiera, andavo ad bestias? Ad animas? Sì, al popolo» (certo
discutibile il fervore, ma mica male come prosa, rispetto ai social).
Bisogna infatti accontentarsi, e magari anche, nell’interesse del popolo, toccare ferro.
Ma
prima che qualcuno alzi moniti sull’improponibilità di confronti tra
fascismo, dannunzianesimo e governo del cambiamento, varrà la pena di
chiarire che la riapertura del balcone di Palazzo Chigi si connota
piuttosto come l’espressione di un antico e latente vizio del potere in
Italia: o meglio di certo potere del tutto incapace di decorosa
compostezza, anzi condannato all’esibizionismo, all’ostentazione, alla
mancanza di rispetto per le forme e per ogni sorta di sorvegliata
dignità. Per cui la scenetta e il video che studiatamente l’ha
preceduta, con i ministri che non stanno nella pelle e Di Maio che
nell’anticamera vieppiù scalda l’atmosfera, «Ciao a tutti, cittadini
italiani, adesso vi portiamo fuori e vi facciamo vedere perché è una
cosa incredibile...», ecco, l’attitudine a buttarla in caciara è il
cuore nascosto, ma non troppo, del guittismo nazionale da balcone, un
filo lungo e tenace che dalla palpitante aggressività di D’Annunzio e
dalle instivalate performance di Mussolini giunge al sanculottismo
social-tifoso dei cinque stelle.
Poi sì, certo, in mezzo e cioè
fra antichi e novissimi padri figli e fratelli del Popolo, non è che
tutti gli altri si siano sottratti. Farsi vedere da lassù, anche se non
necessariamente alla ringhiera, ma solo alla finestra, segnala comunque
uno status, una parvenza di dominio che però via via, anche sul piano
dei luoghi e delle apparizioni, si faceva in realtà sempre più flebile,
malaccorto, trascurabile se non esplicitamente, ma inconfessabilmente
parassitario.
In questo senso è significativo che nel 1982
l’allora premier Spadolini si mostrò (forse in finestra, scansando le
tende) dopo la vittoria della nazionale in una delle partite del Mundial
benedicendo, ricambiato (se ne compiacque anche con Pertini), i
caroselli dei tifosi sulla piazza. Per le stesse ragioni nelle cronache e
negli archivi fotografici si trova traccia di calciatori e ministri
affacciati con la coppa in alto (forse anche al balcone) dopo il trionfo
sempre ai Mondiali del 2006. Ma Prodi, sembra di ricordare, fece appena
capolino.
Nel 2008, dopo il primo consiglio dei ministri,
Berlusconi eseguì il suo bel numero balconesco, accolto dalla claque al
canto di "Meno male che Silvio c’è".
Qualche anno dopo, alla
finestra, come chi non vuole comparve il giovane Renzi in bianca
maglietta sportiva. "Per dovere di cronaca", come riportato a scanso di
sgradevoli accostamenti dall’AdnKronos, esiste a Palazzo Chigi un altro
balcone: d’angolo e coperto, ancora da D’Annunzio battezzato "la prora
d’Italia". Era qui che nel 1925 Tito Zaniboni mise nel mirino Mussolini
per fargli la pelle. Non ci riuscì, ma la faccenda si può anche leggere
come la conferma che sporgersi, a volte, non è mica tanto conveniente.