venerdì 28 settembre 2018

Repubblica 28.9.18
Il Male è rimasto oscuro scrivere sulle orme di Giuseppe Berto
di Michela Marzano


"L’uomo che trema" di Andrea Pomella, racconto di una depressione
Dove sta la verità dell’umore? Fingo di più quando sono di buono o di cattivo umore? E fingo rispetto a cosa? Rispetto alla realtà del mio umore, o rispetto alla fisionomia oggettiva della realtà che mi circonda?» Depressione maggiore. È questo il verdetto dello psichiatra quando il protagonista e narratore di L’uomo che trema, l’ultimo romanzo di Andrea Pomella, si decide a consultarlo. Sono quarant’anni che ne soffre, ma è solo quando si rende conto che la «farsesca mancanza di senso» che l’affligge non è solo «cattivo umore», che il narratore cede, e accetta di raccontare la storia della sua malattia. Ancora un memoir?
In realtà no. Un vero e proprio romanzo. Visto che la depressione viene raccontata «come se la malattia non fosse un aspetto di me, ma un altro me fuoriuscito per gemmazione», e Andrea Pomella usa sapientemente la letteratura, la logica, la musica e l’ironia per descrivere quanto accade al suo corpo, gli incontri con gli psichiatri, le corse per le vie di Roma, il rapporto con la compagna e il figlio. Come nominare d’altronde le cose quando la «perenne terminalità« che caratterizza la condizione di un depresso, come scrive Pomella citando Harold Brodkey e il suo cammino verso la morte, tocca proprio la sfera del linguaggio? «Mi autocensuravo, sopprimevo dal mio vocabolario alcune parole», ammette Pomella raccontando come il tempo abbia pian piano disfatto tutto.
Ecco perché la cronaca di questa depressione, per certi aspetti, è di ghiaccio, come se solo la distanza tra "sé" e le "cose" potesse permettere di attraversare il deserto della malattia, e emozionare nel profondo il lettore. A parte quando l’uomo che trema parla del rapporto con Mario, il figlio, che giocando con lui lo «tiene in vita, erige le difese». Sono forse le pagine più belle del romanzo, anche perché tutto, in questa storia, sembra giocarsi attraverso uno spietato corpo-a-corpo tra padre e figlio: il padre del protagonista che lasciando la madre lo ha spinto all’abbandono – sono anni che il protagonista rifiuta di vederlo – e il figlio di sette anni che si farà strumento di riconciliazione perché lui, l’unico nonno che gli resta, lo vuole conoscere.
Andrea Pomella ripudia l’idea di una scrittura terapeutica – e fa bene, la scrittura non cura, non è questo lo scopo della letteratura: anche quando nominare le cose serve a mettere ordine nel marasma della propria mente, non è scrivendo che si esce dal buco nero in cui si precipita quando l’assenza di senso toglie il fiato – ma cita più volte Giuseppe Berto e Il male oscuro, e la meta finale delle sue lunghe passeggiate romane è spesso quel vicolo curvo senza uscite alle pendici della Balduina dove viveva appunto Berto.
L’uomo che trema non vuole intraprendere un percorso di analisi anche quando a proporglielo è il giovane psichiatra che per la prima volta lo ascolta – «lui ascolta, annuisce, ma soprattutto scrive, scrive tantissimo, il che mi restituisce quasi un senso di accudimento, tutto ciò che non mi trasmetteva l’altro psichiatra» – ma non fa fatica ad ammettere che gli antidepressivi e gli ansiolitici non hanno effetto sull’autostima e «agiscono in superficie». E la quiete sembra tornare solo quando il protagonista, per amore del piccolo Mario, accetta di incontrare suo padre: «Mi sento come se avessi vissuto per anni in un vortice di vento, con le foglie morte che turbinavano incessantemente nell’aria, e come se ora, all’improvviso, il vento avesse cessato di soffiare». Dopo aver vissuto in un mondo illusorio in cui si è costruito l’idea di un padre inesistente, il protagonista, che non a caso cita il mito della caverna di Platone, si libera dalla catene e si lascia abbagliare dalla luce del sole: «Il mio male era legato alla visione».