Repubblica 25.9.18
La tragedia in carcere
Io, tra i figli prigionieri di Rebibbia
di Rosella Postorino
Non
meritava di essere madre» è la frase che più ho letto dopo che Alice
Sebesta ha lanciato i suoi due figli dalle scale del nido di Rebibbia,
uccidendoli. Così gran parte della gente ha liquidato la questione: un
caso di follia, del tutto avulso dal contesto in cui è avvenuto. Il
ministro Bonafede ha sospeso i vertici del carcere, la polizia
penitenziaria si è indignata, Bonafede ha invocato il silenzio. Invece
proprio adesso bisogna parlare del tema che sembrano trascurare in
molti: la detenzione dei bambini è una violenza.
Quelle scale le
conosco. Sono entrata nel nido per partecipare alle feste della Befana o
di Pasqua organizzate in ludoteca, una saletta con giocattoli, tavolini
colorati e sbarre alle finestre; le uova di cioccolato venivano rotte a
causa dei controlli, anche se questo rovinava la sorpresa. Per più di
due anni, con l’associazione "A Roma insieme", mi sono occupata dei
piccoli detenuti di Rebibbia, portandoli fuori il sabato su un pulmino
assieme ad altri volontari, per mostrare loro il mondo: le strade, i
cani al guinzaglio, i supermercati, il teatro dei burattini, il rumore
dei clacson. Non per forza la bellezza, semplicemente la normalità.
I
bambini di Rebibbia avevano meno di tre anni, il catarro perenne, abiti
sempre inadatti alla stagione, giubbotti con la zip rotta, nomi assurdi
come Al Capone e cognomi che indicavano la loro etnia Rom o africana.
Li ho imboccati, perché spesso si rifiutavano di mangiare in autonomia,
li ho addormentati, alcuni avevano problemi di sonno, li ho portati in
braccio se non avevano voglia di camminare, sono rimasta sulla battigia
con loro ad aspettare la risacca, perché di immergersi avevano paura, e
l’istinto con cui si affidavano a me, un’estranea, mi sconvolgeva, tanto
da farmi dimenticare che quelli erano i sintomi della sindrome da
prigionia di cui parla lo psicologo Gianni Biondi.
Mancanza
d’appetito, problemi locomotori, ritardo nel linguaggio: se per tutto il
giorno ripeti gli stessi gesti, come fa il tuo vocabolario a
svilupparsi? Di fronte alla camera da letto di una donna che ci ospitava
a casa in uno dei sabati di libertà, un bambino disse: «Che bella, la
tua cella!» In montagna, un’altra s’infilò in tasca una palla di neve e
pianse perché si sciolse: avrebbe voluto regalarla alla mamma. Poi a sei
anni quei bambini escono dal carcere, e alla prigionia si somma il
trauma della separazione.
La legge 62/2011 dovrebbe teoricamente
tutelare il minore, che può crescere accanto alla madre ma fuori dalla
galera. Prevede infatti misure alternative — gli arresti domiciliari (ma
non in un campo Rom), le case famiglia protette e gli Icam ( istituti
di custodia attenuata, dove si applica l’ordinamento penitenziario, per
esempio rispetto ai rapporti con l’esterno, ma gli agenti sono in
borghese) — cui però possono accedere solo le detenute che non incorrono
nella recidiva. Ma statisticamente quelli femminili sono piccoli reati,
legati a furto o spaccio, e ripetuti nel tempo. E di Icam in Italia ce
ne sono due appena. Le case famiglia pesano sul bilancio degli enti
locali, non sull’amministrazione carceraria, dunque se non ci sono soldi
non si fanno. D’altronde la legge non elimina le sezioni nido, continua
a contemplarle.
Il risultato è che oggi 60 bambini vivono ancora
reclusi: a qualcuno sembrerà un numero esiguo, che non rappresenta
un’urgenza. Ma se la detenzione ha lo scopo di rieducare chi ha
sbagliato, che cosa insegniamo a chi paga una pena da innocente?
Alice
aveva partorito Divine da soli sei mesi. Quante donne affrontano un
disagio psichico dopo la gravidanza, sentendosi incapaci di rispondere
ai bisogni del neonato? Quale senso d’inadeguatezza può provare una
madre in gabbia, che ha costretto, seppur non intenzionalmente, i figli
alla segregazione? Persino se si trattasse di un unico bambino, il
numero sarebbe troppo alto. Uno Stato che invece di proteggerlo gli fa
scontare la colpa di chi l’ha messo al mondo, gli sta negando il diritto
a una vita degna nonostante le sue origini. È uno Stato che non crede
nel suo futuro e così rinuncia al proprio. Finché accettiamo che
esistano bambini di serie B, e li chiudiamo in galera, nessuno di noi
merita di essere genitore, anzi di considerarsi umano.