Repubblica 25.9.18
La presenza dell’assenza
Un lutto impossibile da elaborare
Era mio padre e adesso non so dov’è
Non si può piangerlo, “semmai piangiamo il non averlo pianto”
di Massimo Recalcati
Un
genitore sparito nel nulla quando lei, Ida, aveva tredici anni
L’assenza come presenza costante e le domande senza risposta. Il nuovo
romanzo di Nadia Terranova racconta un lutto impossibile da elaborare
L’assenza
può essere una forma di presenza assoluta; accade soprattutto quando
abbiamo fatto esperienza della perdita di una persona cara. La sua
assenza scava nella nostra vita e nel mondo un buco che non può essere
riempito. Diventa una forma radicale di presenza. È quello che definiamo
comunemente "lutto": la reazione affettiva di fronte ad una perdita che
non si lascia digerire psichicamente, ma che insiste in noi come fosse
una spina nella carne, un’assenza sempre presente che duole e che
impedisce lo scorrere della vita. Come fare allora per lasciare che
l’assenza diventi tale, scivoli nell’oblio, come fare per evitare che la
nostra vita resti impigliata al dramma di quella perdita, per evitare
che la sua presenza — la presenza dell’assenza — diventi una ossessione
alla quale è impossibile fuggire?
Di questa materia tormentata e
essenziale è fatto l’intensissimo ultimo romanzo di Nadia Terranova,
titolato Addio fantasmi (Einaudi). Non si tratta solo di una nuova prova
di scrittura capace di raggiungere livelli di equilibrio e di maturità
davvero rari, ma di un vero e proprio viaggio attraverso il fantasma
inquietante di una assenza che non vuole cedere il passo, che non vuole
cadere nell’oblio. È la storia di Ida che ritorna nella propria casa a
Messina dove è cresciuta prima di trasferirsi a Roma e ricostruire la
propria vita: una casa, un lavoro, un matrimonio. L’assenza che
l’assilla è quella di suo padre, "stimato professore di liceo", che una
mattina, quando lei aveva 13 anni, esce di casa senza fare più ritorno.
Non una morte, dunque. Piuttosto una sparizione, una evaporazione nel
nulla, una scomparsa irreversibile. Ida è "figlia dell’assenza". È
questa la sua tragica eredità. La bellezza dei ricordi della sua vita di
bambina col padre (i baci, le coccole, il profumo del suo tabacco, la
barca insieme verso Stromboli a vedere i delfini, le passeggiate lungo
il mare con i pattini) è come stordita di fronte all’enigma atroce di
questo addio.
Nessuna elaborazione simbolica è stata possibile,
nessun lavoro del lutto di fronte alla morte ha consentito
l’incorporazione dell’oggetto perduto.
Piuttosto il tempo si
sospende, resta inchiodato alle lancette dell’orologio che coincidono
con l’ultimo risveglio del padre prima della sua dipartita: «la sveglia
segnava le sei e sedici, avrebbe segnato le sei e sedici per sempre».
L’assenza diviene allora una forma di presenza; la bara del padre è
"dappertutto" perché non è in nessun luogo. Il mistero indecifrabile di
questa scomparsa resta senza risposta: perché lo ha fatto?
voleva
morire o voleva vivere diversamente? Era, la sua, una resa o una
ribellione? Si è ucciso in mare? Vive ancora, magari in un Paese
straniero?
Ha avuto un infarto o un aneurisma? Ritornerà? La
scomparsa del padre non coincide con la sua morte. Il lavoro del lutto
non può compiersi simbolicamente perché il suo ritorno resta
inconsciamente sempre atteso. Non c’è pace perché quella scomparsa
impedisce la sua morte. Mentre, infatti, «la morte è un punto fermo»,
quella scomparsa «è la mancanza di un punto»: «se mio padre non era
morto, non sarebbe morto mai». Non si può piangerlo, «semmai piangiamo
il non averlo pianto». I sopravvissuti sono costretti a resistere in un
tempo bloccato, congelato, fermo, senza avvenire. Lo stesso che aveva
caratterizzato gli anni della depressione paterna: rannicchiato tra le
lenzuola, succube dei farmaci, senza desideri, senza voglia di vivere,
con delle cuffie sulle orecchie attaccate ad una radio spenta e lo
sguardo nel vuoto. Il tempo del padre si era fermato per primo. La vita
di Ida resta minata da questa ferita che sembra non conoscere sutura:
«non voglio figli perché ho paura che muoiano, che scompaiano, perché ho
paura che tra me e Pietro frani l’amore…».
L’ombra spessa della
perdita si insedia ovunque: sulla vita cala l’assenza sempre presente
del padre scomparso. Il mondo deve essere mantenuto a distanza per
evitare che il dolore della perdita si possa nuovamente ripetere.
Tutto
è iniziato a crollare con la scomparsa di suo padre, con la rottura del
"triangolo originario" che lega la figlia e la madre al padre. Ida
torna nei luoghi della sua infanzia, nella sua prima casa dove aveva
vissuto sino ai vent’anni, perché essa sta crollando ancora, non ha mai
smesso di crollare. Torna per scegliere cosa portare con sé e cosa
lasciare andare per sempre. Una cosa tra tutte le interessa sottrarre
all’oblio: una scatoletta rossa. Il suo contenuto è tutto quello che
resta del padre: la sua vecchia pipa e una cassetta registrata sulla
quale è impressa la sua voce mentre canta. È tutto quello che resta di
lui: il suo odore e la sua voce. Sono le sole tracce superstiti.
Ma
in quella scatoletta rossa Ida aveva richiuso, insieme ai "resti" del
padre, anche la sua vita. È, infatti, più facile amare l’assenza, che
amare chi davvero c’è. Bisogna allora lasciare cadere quel rifugio
insidioso che era divenuta l’assenza del padre. Bisogna liberarsi del
contenuto della scatoletta rossa. È necessario un rito di separazione,
un funerale, una tomba che richiuda con sé il mistero del padre
liberando la vita della figlia. La vera emergenza non sono i nostri
morti, la vera emergenza, sostiene infine Ida, è «pensare ai
sopravvissuti». Perché «veniamo tutti da un funerale… tutti abbiamo
perso qualcosa e sappiamo quanto lunghissimo e ingiusto sia il tempo
davanti a noi, il tempo senza quella persona. Il tempo che cominceremo a
contare anno dopo anno, a partire dalla perdita».