Repubblica 19.9.18
Pd, prove di scomparsa
di Guido Crainz
Sembra
ormai senza freni la corsa del Pd alla autodistruzione in un maldestro
susseguirsi di proposte, dal cambio di nome allo scioglimento ( con
l’intermezzo grottesco della " battaglia delle cene"). Proposte che
hanno in comune il tentativo di rimuovere ed esorcizzare le cause e i
processi che hanno portato al 4 marzo.
Cause e processi di breve e
di lungo periodo, che rinviano agli errori di una politica ma anche
alle radicali trasformazioni che hanno stravolto l’orizzonte in cui sono
cresciute le democrazie del Novecento. L’orizzonte in cui aveva preso
corpo il processo stesso di costruzione dell’Europa.
Sono temi
largamente assenti nel dibattito interno al Pd e in questo scenario ogni
proposta appare quasi surreale. Mutare il nome di un partito o
ipotizzarne lo scioglimento per rifondarlo sono vie che hanno un senso
alto — drammaticamente alto — se sono connesse a un progetto
riconoscibile, a una sfida per il futuro: appaiono prive di senso,
invece, se sono un escamotage per non riflettere a fondo sulle proprie
responsabilità. Se sono puro maquillage, una tardiva caricatura dei
processi che erano stati avviati con lo scioglimento del Pci e poi, più
tardi, con la difficile costruzione del Pd: eppure anche quei processi
sono falliti, e anche su questo sarebbe necessario interrogarsi.
Si
aggiunga che questo discorde balbettio si svolge in uno scenario che
vede la nostra democrazia a rischio come nei peggiori anni
berlusconiani. Come allora, magistratura e stampa sono sotto attacco in
una escalation che mira alla natura stessa della democrazia
costituzionale, dall’equilibrio dei poteri alle figure e agli organi di
garanzia. Gli "eletti del popolo" contro la Costituzione e la stessa
presidenza della Repubblica: e qui è stato Di Maio a lanciare il primo
attacco. Con buona pace di chi insegue "l’anima di sinistra" dei
grillini ignorando il loro progressivo convergere con Salvini su temi
non secondari ( a partire dall’immigrazione, come ha segnalato Ilvo
Diamanti). E anche oggi un autorevole monito contro le derive viene
proprio dalla presidenza della Repubblica, espressione dei valori
profondi che abbiamo saputo conquistare nella nostra storia e che
sembriamo voler disperdere. Come nei peggiori anni berlusconiani,
davvero: e allora, va aggiunto, lo scontro non si svolgeva all’interno
di una devastante crisi europea.
Questo è lo scenario in cui si
consuma la tendenziale scomparsa del Pd e non vi sono vie brevi per
contrastarla. Ammesso che esistano, ammesso che sia possibile
contrastare la dissoluzione definitiva avviando una inversione di
tendenza e una riflessione radicale sul futuro che oggi è difficile
immaginare.
Ammesso che sia possibile, almeno, un esito
congressuale che permetta il tendenziale superamento dei conflitti
interni e sappia riportare un soffio di vita nei sempre più deserti
circoli del partito. Che sia capace di parlare anche a chi, pur
dall’esterno del Pd, voglia contribuire alla faticosa ricostruzione di
un progetto riformista. Difficile negarlo: nessuna delle ipotesi oggi
presenti, nessuna delle candidature evocate più o meno apertamente
sembra rispondere a queste esigenze.
Nessuna è estranea alle
miopie, se non alle pulsioni distruttive, degli ultimi anni. Ed è forte
la tentazione di sperare invece in figure che evochino l’ispirazione più
nobile dell’Ulivo ( quella ricordata su queste pagine da Walter
Veltroni) e abbiano la generosità, il coraggio e il consenso per
scendere in campo.
Un’ipotesi che oggi non sembra reale: ma non
sembra reale neppure un superamento della crisi che abbia come
riferimento gli ultimi spezzoni di un gruppo politico diviso e perdente,
ripiegato sul proprio fallimento.