Repubblica 14.9.18
Orbán e i suoi
Criticano l’Ue ma non escono
di Siegmund Ginzberg
Paradossi
d’Europa. Buona notizia: Orbán censurato con 448 voti contro 197 (e 48
astensioni) dal Parlamento europeo. Cattiva notizia: la cosa non avrà
esito perché la Polonia, e forse gli altri di Visegrad, metteranno il
veto. Cattiva notizia: l’Europa è più divisa che mai, tra Paesi e
all’interno di ciascun Paese, anche all’interno dei maggiori
schieramenti. Buona notizia: a differenza dell’aria che tirava un paio
di anni fa, nessuno vuole più uscire dall’Europa, neanche Ungheria e
Polonia, nemmeno i 5 Stelle o Salvini. Per una ragione semplice: perché
non gli conviene.
Brexit ha avuto un effetto dissuasorio. Si sta
rivelando catastrofica per i promotori. Nigel Farage, entrato nel
Parlamento europeo sull’onda dei successi del sovranismo britannico, è
ormai un fantasma. Nemmeno Orbán ha preso sul serio il suo invito a
iscriversi al club di quelli che vorrebbero lasciare l’Europa. È
ultra-sovranista, ma non suicida. Nessuno di quelli che ce l’hanno ora
con l’Europa se ne vuole andare. Se ne guardano bene dal chiederlo i
polacchi, i cechi, gli slovacchi, i finlandesi, l’Austria o la Slovenia.
I sovranisti svedesi erano per la Svexit, ma sono stati inchiodati al
17,6 per cento, pressappoco la percentuale di Le Pen in Francia, della
Lega in Italia.
La cosa che più accomuna Orbán e i suoi amici è
l’alt feroce all’immigrazione. Ma il paradosso è che proprio l’Europa
centrale rischia di pagarlo caro. Non perché passano per cattivi. Per
ragioni più solide. La demografia non perdona. In crescita fino alla
fine degli anni ’90, la popolazione dei quattro di Visegrad sta
cominciando a subire il declino che ha già colpito l’Europa occidentale.
Da ora al 2050 si prevede un calo, del 13 per cento, da 64 a 55
milioni, cioè a ritmo più vertiginoso che in qualsiasi altra regione del
mondo, ad eccezione del Giappone. Sta venendo meno la spinta propulsiva
che li aveva fatti crescere più degli altri europei negli ultimi due
decenni. Comincia a mancare forza lavoro. Sarebbero già nei guai se non
avessero avuto un influsso di almeno 2 milioni di ucraini. Dovranno
prima o poi accogliere immigrati anche loro. Da un recentissimo studio
di Ian Goldin dell’Università di Oxford viene fuori che ben due terzi
dell’impressionante crescita Usa dal 2011 in poi è attribuibile
direttamente all’immigrazione. Se avessero congelato l’immigrazione in
Gran Bretagna nel 1990 l’economia sarebbe cresciuta di almeno il 9 per
cento in meno. In Germania del 6 per cento in meno. In Italia la già
modesta crescita che c’è stata si sarebbe dimezzata, se non azzerata.
Che
gli Stati uniti, i più beneficati di tutti dall’immigrazione, abbiano
eletto Trump su una piattaforma anti-immigrazione, e i campioni anti-
migranti in Europa siano Ungheria e Polonia (dove di migranti ce ne sono
in proporzione meno che in qualsiasi altro Paese d’Europa) può sembrare
assurdo, ma non è inedito. Nella Germania tra le due guerre
l’antisemitismo era più virulento laddove di ebrei quasi non ce n’erano.
La pulsione a darsi la zappa sui piedi è storicamente diffusa. Non
sarebbe la prima volta che chi più urla e più si agita lo fa contro i
propri interessi. Né è detto che si ravvedano a breve termine. Quella
specie di Visegrad allargata, di internazionale del totalitarismo, di
riedizione degli Imperi centrali che fu l’Europa di Hitler, se la
prendeva con gli ebrei esattamente come questi ora se la prendono con
gli immigrati.
Sarà bene però ricordare che Orbán non è stato
censurato per le politiche sull’immigrazione, ma per le minacce alla
democrazia. Anche questo è un elemento che lo accomuna ai suoi amici in
Europa. Non per niente a tutti loro piace Putin. Stravotato in Russia
come Orbán in Ungheria, come Erdogan in Turchia. Per Trump si vedrà come
si mette tra poche settimane. In Cina non ci sono elezioni, indovinate
nel caso chi voterebbero con un plebiscito.
Sono tempi in cui la
democrazia è svalutata un po’ dappertutto. Perché è inconcludente.
Perché è lenta, spesso cerca rimedi quando i buoi sono scappati. Lo
stesso si potrebbe dire dell’Europa di Bruxelles ( l’Europa reale
contrapposta a quella ideale). Quando andremo a votare tra otto mesi per
il rinnovo del Parlamento europeo potrebbe venirne fuori un’Europa
ancora più brutta e divisa. Ma quali sarebbero le alternative? A ranghi
sparsi, nudi, a dilaniarsi gli uni con gli altri nella crisi che può
riscoppiare da un giorno all’altro? Uomini della provvidenza che ci
conducono alla catastrofe come negli anni ’ 20 e ’ 30? Un quarto di
secolo fa mi capitò di seguire l’allora presidente socialista francese
Mitterrand in una visita al Nord desolato. Agli operai che lo
ascoltavano parlò del senso dell’Europa. « Le nationalisme c’est la
guerre », disse. Pareva semplicistico. Era semplicemente l’essenziale.