venerdì 21 settembre 2018

il manifesto 21.9.18
Rebibbia, la donna era malata. Il Dap chiede la testa dei medici
Carcere. La detenuta tedesca che ha ucciso i suoi due figli era stata segnalata dal personale penitenziario. Ma i servizi psichiatrici sono molto carenti, in carcere. Md e sindacati: non capri espiatori, si affrontino i nodi reali
Rebibbia femminile, nido
di Eleonora Martini

A. S., la detenuta tedesca di 33 anni che martedì mattina nel “nido” di Rebibbia ha ucciso i suoi due figlioletti di sei mesi e due anni gettandoli dalle scale, «era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli». A comunicarlo al direttore generale dell’Asl Roma 2 e per conoscenza al capo di gabinetto del ministero della Giustizia, in una lettera scritta dopo che la tragedia si era consumata, è stato il capo del Dap, Francesco Basentini.
Il documento riferisce che lo stesso personale del carcere aveva segnalato «la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico». Perciò Basentini aveva chiesto ai vertici del Ssn nel quale rientra la Sanità penitenziaria, di «voler valutare l’opportunità di adottare tutte le più adeguate iniziative relative al personale medico impiegato presso la suddetta Casa circondariale, anche provvedendo – ove lo riterrà opportuno – alla sostituzione dello stesso».
Al momento invece il governo, per mano del Guardasigilli Alfonso Bonafede, come è noto ha rimosso la direttrice della sezione femminile di Rebibbia, Ida Del Grosso, la sua vice Gabriella Pedote e la vicecomandante del reparto di Polizia Penitenziaria Antonella Proietti. Un provvedimento che è apparso subito piuttosto come un diversivo per non affrontare i nodi reali della questione.
Protestano i sindacati di categoria, Sappe, Uilpa, Osapp, Uil, Fns Cisl, Sinappe, e l’Fp Cgil Nazionale che parla di «scappatoie» e «capri espiatori» invece di «cambiamenti necessari al sistema carcerario». «Il ministro e il capo del Dap pensano di assolvere ai loro doveri punendo funzionari e dirigenti, con motivazioni ancora in queste ore sconosciute ai più», scrivono in una nota i sindacalisti della Cgil che elencano invece le urgenze per risolvere il problema dei bambini detenuti con le loro madri. A cominciare dal «rafforzamento, anche con decreto d’urgenza, della legge 62/2011 che impedisce la reclusione negli istituti di pena di donne con prole in tenera età; una accurata e tempestiva indagine sull’operato dei magistrati; un provvedimento immediato che realizzi case protette, un potenziamento dei servizi sanitari, soprattutto di supporto e assistenza psicologica e psichiatrica».
Particolarmente necessari, questi ultimi, da quando sono stati chiusi gli Ospedali psichiatrici giudiziari e le misure di sicurezza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali vengono eseguite solo in alcuni casi nelle residenze alternative chiamate Rems. La maggior parte dei detenuti con problemi psichici, precedenti o comparsi in seguito alla detenzione, rimane in carcere, dove i servizi psichiatrici non sono stati potenziati.
E infatti soltanto ora A. S. si trova piantonata presso il reparto di psichiatria dell’ospedale Sandro Pertini, sottoposta a Trattamento sanitario obbligatorio. Oggi sarà interrogata dal Gip per la convalida dell’arresto. Difesa dall’avvocato Andrea Palmiero, è accusata di duplice omicidio ma ieri è stata ritenuta dal giudice in condizioni mentali tali da non poter neppure decidere sull’espianto degli organi del bambino più grande, Divine, deceduto all’ospedale Bambin Gesù ventiquattr’ore dopo sua sorella Faith, morta sul colpo. Il padre dei due bimbi, il nigeriano Ehis E., è stato infine rintracciato dopo due giorni di ricerca da parte dell’Interpol e dei carabinieri: si trova in carcere in Germania.
Intanto si levano altre voci contro i provvedimenti ad effetto di Bonafede adottati dal Dap. Magistratura democratica auspica che in questo modo non si voglia attaccare «un modello di carcere che costituisce un’eccellenza nel panorama penitenziario italiano», e che attraverso una semplicistica «identificazione» dei «colpevoli», «si rinvii invece il confronto con i problemi reali». E il Pd, dimenticando forse di essere il principale responsabile dell’affossamento – durante la scorsa legislatura – della riforma carceraria targata Orlando che affrontava anche il nodo delle detenute madri, chiede ora al governo di ritirare «il decreto legislativo sull’ordinamento penitenziario perché privo di importanti norme sul diritto all’affettività, sulle misure alternative, sulla sanità penitenziaria». E di agire «in modo serio, responsabile, senza cedere ai richiami della propaganda».

Il Fatto 21.9.18
Bimbi in carcere. La moderna Medea e la doppia punizione dello Stato

Sono una mamma a tempo pieno di due bambini. Vederli crescere sereni mi ripaga delle rinunce e dei momenti di amarezza, rari ma intensi. Ho letto della madre detenuta che ha ucciso i propri figli lanciandoli dalle scale. Il gesto è quello di una donna in pieno delirio di colpa o comunque in preda a uno status di forte turbamento emotivo. Ora è scattata la sospensione per la Direttrice, per la sua vice e per il vicecomandante di polizia penitenziaria della casa circondariale femminile di Rebibbia. Mi chiedo: basterà questo provvedimento esemplare per impedire che accada ancora?
Sara Fabrizi

Gentile Sara, “ora i miei figli sono liberi” sono le parole che ha pronunciato Alice, la donna, poco più che trentenne, che ha ucciso i suoi figli. È un gesto atroce, terribile, di una moderna Medea che, come ha spiegato il suo avvocato, ha vissuto la detenzione dei suoi piccoli due bimbi (due anni in due) come una doppia punizione. Alice Sebesta il 27 agosto era stata intercettata dai carabinieri di Roma in auto con due nigeriani: dentro il veicolo, 10 chili di marijuana. “Mi hanno dato un passaggio per la stazione, dovevo prendere il treno per tornare a Monaco di Baviera, non sapevo della droga”, si era giustificata. I due uomini vennero rimessi in libertà, Alice invece finì a Rebibbia. Con i figli. È su questo che dovremmo innanzitutto interrogarci, prima di farlo sull’animo umano. Come è possibile che Alice si trovasse ancora in carcere, nonostante i due figli. La scarcerazione, a dire il vero, sembrava a portata di mano. Il giudice aveva bisogno di un domicilio sicuro dove assegnarla ai domiciliari e lei lo aveva trovato, a Napoli, da un amico. Ma poi il magistrato competente era cambiato e il nuovo, ritenendo che “il quadro indiziario non fosse modificato”, e senza fare riferimento ai minori, il 7 settembre ha respinto la richiesta. Le madri carcerate che vivono all’interno delle strutture penitenziarie italiane sono 52: 52 madri che “certamente non mettono a rischio la sicurezza degli italiani, e quindi si potrebbero tranquillamente trovare alternative al carcere”, come ha sottolineato Susanna Marietti dell’Associazione Antigone. “Se io dirigessi un carcere con 350 detenute – ha scritto sul suo blog sul fattoquotidiano.it – avrei solo un modo per essere certa che mai accadrà nell’istituto qualche evento che finirà sui telegiornali: tenere tutte le detenute chiuse in celle singole, nude, legate al letto, sorvegliate a vista. Ma è questo il modello di pena che vogliamo?”.
Maddalena Oliva

Repubblica 21.9.18
I bimbi di Rebibbia, discarica sociale e una riforma mai fatta per paura
di Roberto Saviano

Articolo 31, comma 2, della Costituzione italiana: «La Repubblica protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».
Articolo 3, comma 1, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo: «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Articolo 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: «In tutti gli atti relativi ai bambini, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».
18 settembre 2018, carcere di Rebibbia. Una detenuta, nata in Germania ma con cittadinanza georgiana, getta dalle scale i suoi due figli. La bimba di 6 mesi muore subito, il bimbo, di poco più grande, morirà in ospedale. Questa è la premessa.
Esattamente un anno fa, il 18 settembre 2017, sull’Espresso scrissi del tragico caso della bambina di tre anni che aveva rischiato di morire nel carcere Gazzi di Messina per aver ingerito del veleno per topi. La domanda — per niente retorica — fu: perché è in galera se ha solo tre anni? Era con sua madre, una donna nigeriana in carcere per immigrazione clandestina. Per l’Italia, Paese che non concede visti agli Stati africani, l’unica via d’accesso è quella illegale e l’immigrazione clandestina è un reato punito con il carcere anche se hai figli piccoli che non hanno nessuno oltre te.
Ovviamente della notizia ci occupammo in pochi (diedi conto dell’interesse di Radio Radicale), anche perché uscivamo da un’estate tragica. La caccia all’immigrato si era ufficialmente aperta grazie alle politiche dell’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti. Devastanti per il Paese, per il Pd e per l’idea stessa di sinistra. Ogni giorno aumentava il senso di insicurezza e la percezione che fosse necessario autodifendersi ( Salvini non ha inventato nulla!), nonostante il Viminale, in palese controtendenza rispetto alle dichiarazioni dei suoi vertici, diffondesse cifre rassicuranti sul calo delle denunce. E se a un calo nelle denunce non corrisponde necessariamente la diminuzione dei reati, possiamo stare certi, con il clima che si respira, che agli stranieri non si fanno sconti. Inoltre fa più presa dire " abbi paura e armati" piuttosto che " i reati sono in diminuzione", perché il ragionamento perde terreno di fronte alla percezione di insicurezza che siamo indotti a provare per convenienza altrui.
Ma forse è proprio da qui che dovremmo partire, da una politica abituata a criminalizzare, a considerare il carcere la soluzione per tutto, una discarica sociale. Dovremmo partire da qui perché la detenuta che ha ucciso i suoi figli a Rebibbia stava per essere scarcerata ed evidentemente non era il carcere il luogo adatto alla sua detenzione. Era detenuta per concorso in detenzione di stupefacenti, un reato su cui, con un’altra politica, diversa da quella attuale ma anche da quella che l’ha preceduta, si aprirebbe una riflessione seria sulla necessità di legalizzare le droghe. Ma per le cose serie non c’è mai tempo: comunicare e non fare, cercare consenso e non lavorare seriamente per una società più sicura e più democratica.
La donna era in carcere con due bambini di sei e 18 mesi. Entrambi minori di tre, età minima che consente la detenzione con il genitore. Sotto i tre anni i bambini devono essere affidati ai servizi sociali. E invece erano in carcere con la madre e non dove sarebbe stato umano ospitare tutto il nucleo familiare, ovvero in una casa famiglia protetta. Ma qui si apre l’annoso capitolo delle misure alternative al carcere e dei mancati finanziamenti per queste strutture. "Ma siamo pazzi!", già sento i commenti, "investire soldi per i detenuti, per i delinquenti?". " Non ci sono soldi per le persone perbene, figuriamoci trovarne per loro". Ma " loro" sono bambini, non hanno commesso reati e, quando possibile, devono stare con i genitori in ambienti che siano di supporto al nucleo familiare.
Di fronte a questa tragedia immane non so davvero da dove iniziare per raccontare la strage di diritto, che è strage di vite umane, che si consuma ogni giorno nelle carceri italiane. Alfonso Bonafede sospende la direttrice della sezione femminile di Rebibbia, sospende anche la sua vice e la vicecomandante della polizia penitenziaria perché dice: «Deve essere chiaro, nel mondo della detenzione non si può sbagliare». Ma che ne sa Bonafede del mondo della detenzione, mi verrebbe da dire, se ha bloccato la riforma dell’ordinamento penitenziario uscita dalla scorsa legislatura?
E poi leggo la comunicazione che fa sui social l’ex ministro Andrea Orlando, ex Guardasigilli; è lui che ha lavorato per anni alla complessa e articolata riforma, che Bonafede ha liquidato appena arrivato negli uffici di via Arenula, ed è lui che purtroppo (ci avevo sperato) non ha difeso quel lavoro. È lui che avrebbe dovuto azzannare il Pd e dissociarsi dai fragili compagni di partito che hanno preferito temporeggiare per timore di perdere consenso sotto elezioni. Tanto che quelle misure sono state varate dal governo Gentiloni a tempo ormai scaduto, dopo il voto del 4 marzo.
"Un regalo ai delinquenti", "un decreto svuota carceri", chi ha rivolto queste accuse alla riforma dell’ordinamento penitenziario non ha interesse nella giustizia e nel rispetto dei diritti. Ma diciamoci la verità, non ha interesse nemmeno chi teme di riceverle queste accuse e archivia una riforma necessaria, vitale, che si aspettava da anni. Inutile che Andrea Orlando chieda a questo governo ciò che non ha preteso da quello di cui era parte. Inutile cercare fuori dal Pd le cause della fine del Pd.
E il Pd accetti un consiglio non richiesto: non pensi a congressi o a cambiare nome, quello che deve augurarsi, piuttosto, è di essere al più presto dimenticato. Perché un partito riformista — o che si crede tale — che non mette in discussione i frutti avvelenati del berlusconismo, come le leggi Bossi- Fini e Fini-Giovanardi in materia di immigrazione e stupefacenti, merita per il bene del Paese solo una cosa: di essere al più presto dimenticato.
I figli della detenuta di Rebibbia sono morti. Del più grande i medici hanno appena decretato la morte cerebrale. È banale dire che con quei due bambini il Pd è definitivamente scomparso. È banale perché la fine era arrivata molto prima, il colpo di grazia sono stati la dottrina Minniti e la codardia nel non sostenere a pieni polmoni la riforma dell’ordinamento penitenziario.
Ciò che davvero resta di un percorso politico si misura nella quantità di diritti che è in grado di difendere. La via della sinistra non è altro che questo: avere il diritto di non uccidere (non solo il dovere), il diritto di non spacciare ( non solo il dovere), il diritto a non impantanarsi nell’ignoranza ( non solo il merito della conoscenza). Tutto il resto è amministrazione, ordine, meccanismo di gestione.
Non ci si senta orfani di un soggetto politico che non merita rimpianti, viviamoci questa stagione " nera" provando a fare argine con le armi che abbiamo, che sono e resteranno lo studio, l’approfondimento, i dati, l’ascolto, l’empatia, il racconto. E speriamo che si riesca a ricostruire qualcosa non partendo, come molti ancora auspicano, da un figura carismatica, da chi ha più ambizione personale che coraggio, ma da quello che oggi in politica tragicamente manca: le idee. Magari liberando il campo definitivamente da leaderini che al governo sembrano conservatori di destra e all’opposizione rivoluzionari.
La riforma delle carceri si è arenata per paura di perdere consenso, sulle politiche migratorie ci si è alleati con la Libia finanziando trafficanti di esseri umani e torturatori per rincorrere chi parlava di invasione. E quel che è peggio è non aver mai rinnegato tutto questo.
I bambini nelle carceri non ci devono stare e questa, per esempio, è un’idea, un’idea da difendere. Nella riforma dell’ordinamento penitenziario cestinata da Bonafede e orfana di Orlando c’era anche questo: sessantadue bambini di cui nessuno si è voluto occupare.

Repubblica 21.9.18
Rebibbia, errori e lacune i bimbi uccisi dalla madre potevano essere salvati
di Federica Angeli Maria Elena Vincenzi,

Roma A tre giorni dalla tragedia che si è consumata nella sezione nido del carcere romano di Rebibbia cominciano a delinearsi i contorni di una vicenda composta da una catena infinita di "e se". Anello dopo anello si comprende meglio che se Alice Sebesta, la donna tedesca di 33 anni che ha ucciso la figlia di 7 mesi e il primogenito di 2 anni gettandoli dalle scale, avesse avuto una residenza, se si fossero rispettati i dettami della legge 62/2011, se il gip non avesse negato le istanze del suo difensore e se qualcuno non avesse ignorato due segnalazioni sulle sue condizioni mentali, oggi forse quei due piccoli innocenti sarebbero ancora in vita. E non si tratta di ragionare col senno di poi. Ma solo di capire l’epilogo di una vicenda a partire dalle sue innegabili contraddizioni che, al momento, hanno portato alla sospensione di direttrice, vicedirettrice e vicedirigente della penitenziaria di Rebibbia.
Il carcere dopo l’arresto
Il 26 agosto Alice viene arrestata dai carabinieri della compagnia Roma Centro. Era vicino alla stazione Termini in un’auto insieme a due nigeriani e ai suoi due figli. Passava per Roma e aveva con sé 10 chili di marijuana. Quando i militari l’hanno fermata ha dichiarato che quella droga era tutta sua. Il gip in 24 ore convalida l’arresto per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. E qui si consuma la prima " violazione". La donna è di passaggio nella capitale, è domiciliata in Germania e a Roma non ha un casa. Motivo per cui — a differenza di quanto previsto dall’articolo 146 del codice penale — malgrado Alice abbia due bambini e malgrado il suo avvocato chieda l’obbligo di firma, il giudice stabilisce che debba andare in carcere.
Il domicilio negato
La donna arriva a Rebibbia il 28 agosto, nella "sezione nido". Il suo difensore, Andrea Palmiero, presenta il 4 settembre istanza di scarcerazione trovandole un domicilio in cui la donna possa scontare la detenzione preventiva. Alice è anche incensurata. Tre giorni dopo il gip rigetta la richiesta. Nella motivazione scrive che non vi era nessun elemento nuovo per permettere alla madre di tornare libera. Trascurando che in quella istanza veniva fornito un indirizzo, che Alice aveva un casa dove andare con i suoi bambini. E che quello era il motivo per cui, di fatto, era finita dentro.
La struttura inadeguata
E così Alice e i suoi due figli minorenni rimangono a Rebibbia, anche se la legge 62 del 2011 è al riguardo chiara. La donna avrebbe dovuto, nelle sue condizioni giudiziarie e in quanto mamma, abitare in una struttura fuori dal carcere, in un Icam ( istituto a custodia attenuata per detenuti madri), ossia il livello intermedio tra la sezione nido del carcere ( riservata per legge a mafiose e terroriste) e la casa protetta ( per reati minori). L’I-cam però a Roma non c’è, dunque per Alice Sebesta si è scelta la soluzione Rebibbia, quella più dura.
Gli allarmi ignorati
«La detenuta era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli» e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato « la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico». A scriverlo è il capo del Dap, Francesco Basentini. Al momento del suo arrivo, Alice ha un colloquio con la psicologa che lavora in carcere: la dottoressa non ravvisa niente di particolare. Ad accorgersi di piccole note stonate nel comportamento della donna sono le agenti penitenziarie. Che in due segnalazioni, indirizzate ai vertici del penitenziario, raccontano due episodi. Il primo parla di un atteggiamento " strano" rispetto al nutrimento del neonato. La donna, che allatta ancora, usa il tiralatte ed è lei stessa a berlo invece di darlo alla piccola. La seconda viene redatta il giorno prima della tragedia. Questo secondo scritto segnala la presenza di un ematoma sulla fronte della bimba di 7 mesi. « Di natura incidentale » , è la dicitura scritta. Ma non si spiega come né dove la neonata abbia sbattuto. Nessuno ha visto il momento dell’urto o della caduta. La donna ora è sedata nel reparto protetto di psichiatria del Pertini. Ieri continuava a ripetere di avere «liberato i suoi piccoli » . A dire che « Divine era infelice. Che stava male. Che gli rubavano i giochi e che non sopportava quella assordante ninna nanna per neonati».

Repubblica 21.9.18
Ma i politici evitino processi sommari
di Marco Patarnello

Caro direttore, faccio il magistrato penale da quasi trent’anni, ho visto da vicino tante terribili vicende umane e da due anni sono il magistrato di sorveglianza per Rebibbia Femminile, sebbene solo per le detenute definitive.
Osservo i numerosi interventi mediatici di queste ore successive alla tragedia accaduta lunedì, che ha visto due bimbi uccisi in carcere dalla loro mamma e sento il bisogno di dire alcune cose.
Davanti a tragedie così, che ci costringono a guardare il buio senza fine che può esserci nell’animo umano penso che la reazione più giusta e matura dovrebbe essere il silenzio o per lo meno una rigorosa misura: pensare di avere la chiave per comprendere a caldo eventi come questi, le loro cause, le loro ragioni o addirittura la convinzione del senno di poi di poterli prevenire, individuando le responsabilità che li hanno prodotti, più che velleitario credo che sia superficiale e alluda al bisogno di cercare un responsabile per consentire a ciascuno di noi di scrollarsi di dosso quella parte di responsabilità collettive che ci appartengono, per le inadeguatezze e la fallibilità delle nostre pur sofisticate dinamiche sociali, civili, giuridiche.
Soprattutto da parte di chi ha alte responsabilità istituzionali, cercare o addirittura additare in chi ha operato ogni giorno da decenni a questa parte in prima linea nel luogo della sofferenza e della esecuzione della pena — cui nessuno rivolge uno sguardo se non per puntare il dito, dove tutte le contraddizioni di un ordinamento ricco di aspirazioni ideali e privo di ogni risorsa vengono a collidere sui corpi e nelle menti di persone in carne ed ossa, conservando la massima attenzione ai diritti dei detenuti, con enorme sacrificio personale — mi sembra un modo piccolo, ma antico, di guardare e affrontare i problemi. Raramente nel corso della mia vita professionale ho trovato professionisti più attenti e sensibili di quelli che finora hanno retto, a diverso titolo, la direzione di quel carcere. E so di non essere l’unico.
Marco Patarnello è magistrato di sorveglianza per il carcere femminile di Rebibbia.
È stato vicesegretario del Csm

Corriere 21.9.18
Abusi sessuali, sei anni al sacerdote La famiglia della vittima contro la Curia
Milano, nel 2011 la tentata violenza su un 15enne. La replica: vicini a chi ha sofferto
di Luigi Ferrarella

Il Tribunale di Milano ha condannato a 6 anni e 4 mesi don Mauro Galli per violenza sessuale (consistente nell’aver dormito una notte di dicembre 2011 nello stesso letto a due piazze con un allora 15enne e nell’aver tentato un approccio sessuale) quand’era prete nella parrocchia di Rozzano (Milano), e il giovane — emotivamente fragile poi tra evocate possessioni diaboliche, tentativi di suicidio e due anni di scuola persi — si era fermato a dormire a casa sua con il consenso dei genitori (pure molto religiosi) in vista di una giornata di preghiera.
Da subito il 15enne espresse il proprio profondo malessere a suo avviso innescato dall’aver dovuto dormire nello stesso letto, essersi svegliato urlando e essersi ritrovato abbracciato dal sacerdote (che poi, ammettendo il grave errore educativo del letto comune, sosterrà di avergli solo afferrato un braccio per impedirgli di cadere in bilico dal letto): e lo disse sia a scuola sia a un sacerdote (don Alberto Rivolta) amico della famiglia, sia al parroco di Rozzano (don Carlo Mantegazza), al quale i genitori chiesero che don Galli venisse allontanato. In quel momento, però, e ancora per anni fino al 2014, come confermato dalla neuropsichiatra infantile Benedetta Olivari che lo aveva in cura, il ragazzo non parlò mai anche di abusi sessuali. È sulla base di questo patrimonio informativo che il primo marzo 2012 l’allora vicario generale della diocesi di Milano, monsignor Carlo Redaelli, sposta don Galli da Rozzano a Legnano, territorio nel quale monsignor Mario Delpini (che 4 mesi dopo diventerà vicario generale) lo pone sotto la vigilanza e l’assistenza psicologica di due preti. Resta comunque a operare nella pastorale giovanile, a contatto con altri ragazzi, ed è ciò di cui ancora oggi si dolgono i genitori, che nel settembre 2012 registrano di nascosto un incontro con Delpini che spiega loro: «Il tentativo che è stato fatto è stato quello di metterlo nelle condizioni di essere vigilato e seguito (…) Il mio dovere non è soltanto accontentare voi, ma è di garantirmi... che non fosse nelle condizioni di replicare una leggerezza, un abuso, o una forma di comportamento certamente da condannare (…) Possiamo anche dire che ci sono delle cose da rettificare (…) I dati sono un po’ diversi da quelli che avevo quando ho deciso lo spostamento… adesso dobbiamo riprendere la questione e avere altre garanzie». Infatti i potenziali contatti con altri minorenni finiscono comunque quando il 31 ottobre 2012 don Mauro viene mandato tra i cappellani dell’ospedale Niguarda e il 10 luglio 2013 in un istituto religioso di soli adulti a Roma.
È solo nell’estate 2014 che il ragazzo, ieri 22enne in lacrime in aula, aggiunge al proprio racconto allo psichiatra anche il ricordo che don Galli in quel letto a due piazze avrebbe tentato di abusare di lui. La rappresentazione — per la prima volta — di un tentato atto sessuale innesca sia la denuncia penale dei genitori (da cui la condanna decisa ieri dalla V sezione presieduta da Ambrogio Moccia dopo che il pm Lucia Minutella aveva chiesto 10 anni e 8 mesi), sia il processo ecclesiastico con sospensione dal sacerdozio il 18 maggio 2015. Sempre troppo tardi ad avviso dei genitori, che ancora ieri, dopo la sentenza a loro formalmente estranea (avendo ritirato la costituzione di parte civile contro il prete dal quale hanno accettato un risarcimento di 100.000 euro), ai microfoni di tg e trasmissioni tv hanno lamentato di essersi sentiti trascurati dalla Chiesa ambrosiana, tacciata di aver «a lungo sottovalutato il caso». Tanto che sventolano la lettera scritta loro nell’aprile 2015 dall’allora cardinale di Milano, Angelo Scola, che rinnovava «le mie scuse e quelle dei miei collaboratori per alcune scelte maldestre», e notava che dalla diocesi «non è stato valutato con adeguato rigore il fatto, già di per sé assai grave, che don Mauro avesse passato la notte con un minore, condividendo lo stesso letto». Ieri l’Arcidiocesi di Milano, retta da Delpini successore di Scola, in un comunicato «prende atto» della sentenza, esprime vicinanza al ragazzo, alla sua famiglia e a tutti coloro che hanno ingiustamente sofferto», e «attende l’esito del processo canonico».

Il Fatto 21.9.18
L’Aquarius 2 non consegna 11 migranti alla Libia: porto non sicuro
Salvataggio di Sos Méditerranée
di Adriana Pollice

L’equipaggio dell’Aquarius si è rifiutato di trasferire gli 11 migranti salvati ieri mattina su una motovedetta della Guardia costiera libica. La nave, che ha a bordo il personale della Ong Sos Méditerranée e Medici senza frontiere, ha intercettato un barchino che rischiava di affondare.
Dell’operazione di soccorso sono stati avvisati i Centri di coordinamento di Roma, La Valletta, Tripoli e Tunisi. Attorno alle 11 Tripoli ha comunicato di aver preso in carico l’evento invitando l’Ong a consegnare i migranti alla guardia costiera libica. Dall’Aquarius è arrivato un rifiuto poiché, hanno spiegato, la Libia non è un porto sicuro e il trasbordo avrebbe messo a rischio la sicurezza dei naufraghi a causa delle probabili scene di panico. A giugno l’Ong era stata costretta ad arrivare fino a Valencia per sbarcare 237 naufraghi, ad agosto il via libera ad approdare a Malta solo dopo una trattativa in sede Ue.
Dopo un lungo stop, L’Aquarius è tornata in mare lunedì scorso: Gibilterra le aveva revocato la bandiera ed è stato necessario inserirla nel registro navale di Panama. Il ministro Salvini ha attaccato: «L’Aquarius 2 vaga nel Mediterraneo: certamente non avrà spazio nei porti italiani».

Il Fatto 21.9.18
“Reddito di cittadinanza solo agli italiani”
Caos manovra - La Lega detta la linea: “M5s concorda”. Sulla sanatoria: “Strumento sia permanente”
di Marco Franchi

Nelle trattative sui numeri e soprattutto sulle misure della manovra, a una settimana dal termine entro cui l’esecutivo dovrà presentare la nota di aggiornamento al Def, il Documento di economia e finanza, nonché il quadro delle riforme, ieri il Carroccio ha mandato diversi messaggi agli alleati di governo.
Reddito. “Sono sicuro che gli amici Cinque Stelle stanno studiando una formula del reddito di cittadinanza intelligente che lo limiti ai cittadini italiani” ha detto il vicepremier Matteo Salvini, riferendosi alla misura imprescindibile per i pentastellati. Un messaggio che la Lega manda dopo le parole del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che interrogato al Senato aveva spiegato come l’iniziativa legislativa, già avanzata dal Movimento 5 Stelle durante la precedente legislatura, prevedeva che alla misura potessero accedere i cittadini italiani o di Stati membri dell’Unione europea che fossero residenti sul territorio nazionale.
Per i Paesi terzi, invece, si “condizionava la fruibilità del sostegno al fatto che i rispettivi Paesi di origine avessero sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale con l’Italia”.
Il Carroccio procede spedito sulle sue posizioni: dopo l’incontro di ieri tra i sottosegretari Massimo Garavaglia, Massimo Bitonci, Claudio Durigon e il vicepremier Matteo Salvini, oggi spingerà sui suoi cavalli di battaglia, da quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi) per le pensioni, alla flat tax e alla fattura elettronica, fino alla Pace fiscale (che dovrà essere non solo una tantum ma “misure strutturali per risolvere forme di contenzioso attuale e in prospettiva”), alla cedolare secca sui negozi al 21 per cento, il taglio delle accise sulla benzina e il 100 per cento del turn over per tutte le forze dell’ordine. “Esclusa – hanno detto, come confermato anche dal ministro Tria – qualsiasi ipotesi di aumento Iva”.
Contorni. Sono comunque ancora poco definiti i contorni sia economici che pratici della manovra: sulla pace fiscale il titolare del Mef ha prima assicurato (come lo stesso Luigi Di Maio) che non sarà un “condono” e poi ha sottolineato come non è ancora possibile “allo stato fornire una stima attendibile e puntuale degli effetti di gettito delle misure che saranno introdotte”.
La Lega ha continuato a rassicurare, ha promesso di mantenere i “conti in ordine” iniziando a “smantellare la Fornero” e riducendo le tasse per “i dimenticati da Renzi e la sinistra”. La platea sono le partite Iva, commercianti, i piccoli imprenditori, gli artigiani. “Con la pace fiscale e con Equitalia si va avanti, così come con la semplificazione.” Parole simili a quelle di Tria, che ha ripetuto che “l’obiettivo del governo è quello di assicurare alla graduale realizzazione degli interventi di politica economica contenuti nel contratto di governo, compatibilmente con le esigenze di garantire l’equilibrio dei saldi strutturali di finanza pubblica”.
Deficit. Sulle coperture è intervenuto Di Maio: “Un governo serio trova le risorse – ha detto il vicepremier – perché altrimenti è meglio tornare a casa”. Il riferimento è alla flessibilità di bilancio e alla possibilità di portare il rapporto tra deficit e Pil al 2 per cento. “Non dobbiamo avere paura di sforare, a meno che il 2 per cento non sia diventato un tabù, però ce lo dovevamo dire prima”. Una impresa non facile. La ‘linea Tria’ è infatti di portare il deficit nominale non oltre l’1,6 per cento e di puntare a non far peggiorare il saldo strutturale.

La Stampa 21.9.18
M5S contro il decreto migranti
“Incostituzionale e discriminante”
di Ilario Lombardo

Il messaggio arriva fino a Salisburgo. Matteo Salvini ha dato un pizzicotto dei suoi ai 5 Stelle perché gli vogliono mettere un bel bastone tra le ruote ai suoi due decreti, sicurezza e immigrazione. Dallo staff di Giuseppe Conte, alle prese con la riunione dei capi di Stato e di governo dell’Ue, chiedono spiegazioni a Roma. Poi è Conte stesso a chiarire a Salvini che la strada verso l’approvazione non è così lineare: «Tutti i decreti possono essere modificati fino all’ultimo momento» lo gela il presidente del Consiglio.
Già mercoledì sera, il leghista in riunione con i suoi collaboratori al Viminale aveva capito che il giorno dopo il testo non sarebbe finito al Consiglio dei ministri, come da lui anticipato in conferenza stampa . «I 5 Stelle fanno storie, vedrete che rinvieremo». Così è stato. Se ne riparlerà lunedì. Salvini ha provato a girarla diplomaticamente come una «galanteria istituzionale» per aspettare il ritorno del premier impegnato in Austria e del vicepremier Luigi Di Maio, in viaggio in Cina.
Ma dietro le dichiarazioni pubbliche, fatte per salvare il quadro idilliaco del governo, bolle tutta l’irritazione del capo del Carroccio. Un nervosismo alimentato anche dalle voci di forti perplessità del Quirinale e che trova sfogo nella firma impressa accanto ai nomi di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni alla nota in cui si garantisce che il governo nella manovra avrebbe realizzato il programma del centrodestra. Cioè: un vicepremier firma un comunicato con ex alleati oggi all’opposizione per dire che il loro patto vale più del contratto firmato da chi condivide con lui le fatiche del governo. Salvini si muove d’istinto, e mentre c’è chi gli consiglia di pensarci bene prima di fare una mossa del genere che può essere potenzialmente distruttiva, e tira dritto anche a costo di scatenare le ire dei grillini. Che puntualmente arrivano «Una evidente ritorsione» commentano nel M5S alcuni ministri e sottosegretari che per tutto il giorno si messaggiano con Di Maio. Per i 5 Stelle è una ennesima concessione a Berlusconi, in cambio del via libera a Marcello Foa alla presidenza della Rai. Ma è anche e soprattutto una reazione alle resistenze del Movimento verso i due decreti, soprattutto quello sull’immigrazione. Per i 5 Stelle un testo che in diverse parti «è quasi sicuramente incostituzionale». Gli uffici tecnici del ministero della Giustizia guidati dal grillino Alfonso Bonafede si stanno confrontando con i colleghi del Viminale e prima di lunedì arriveranno diverse limature. Nel frattempo però, alcuni sottosegretari e i due capigruppo di Camera e Senato assieme ad alcuni deputati della commissione Giustizia spulciano punto per punto i quasi 40 capitoli del testo. Un trattamento dei migranti che definiscono, per molte parti, «inaccettabile». Così com’è, secondo 5 Stelle, il decreto non passerà l’esame né del Colle né tantomeno della Corte Costituzionale, soprattutto se non verranno giustificati i motivi di urgenza e di necessità previsti per questo tipo di provvedimento. Dall’abrogazione del permesso per motivi umanitari, perno del dl immigrazione, alle norme sulla cittadinanza, sono tante le nuove restrizioni di marca salviniana che non piacciono ai 5 Stelle. Ma affondando gli occhi tra gli articoli della legge è un passaggio ad aver scandalizzato i grillini, come una fonte spiega alla Stampa: «Si parla di vietare la cittadinanza a un migrante se ha un parente indagato. Una discriminazione etnica». Dal Viminale confermano ma spiegano meglio la declinazione della norma: «Viene introdotta la valutazione delle frequentazioni del migrante, compresa la famiglia. Ma già oggi per la concessione della cittadinanza la decisione è altamente discrezionale e coinvolge tutte le relazioni del migrante». Ora però la discrezionalità si fa legge.

Il Fatto 21.9.18
Chi offre di più? Il referendum macedone e la guerra dell’Est tra Ue-Nato e Cremlino
Contesa storica - Il Paese balcanico decide il nome ufficiale dopo anni di polemiche
di Michela A. G. Iaccarino

Meno 9, 8, 7 fino all’ultima domenica di settembre. Da oggi il conto alla rovescia per il referendum è cominciato. C’è sempre meno tempo per convincere i due milioni di abitanti a rispondere si a questa domanda: “Siete favorevoli all’entrata nella Nato e nell’Unione europea accettando l’accordo tra Repubblica di Macedonia e Grecia?”.
Se il sì vincerà, Fyrom, ex repubblica jugoslavia di Macedonia, diventerà Macedonia del Nord. È un nuovo battesimo concordato con Atene, per cui Macedonia è il nome di una regione ellenica. Si decide il prossimo 30 settembre, dopo quasi 30 anni di disputa.
Cambiare nome al paese è presupposto necessario per entrare in Europa e Alleanza atlantica e per convincere i macedoni si sono spostati i pesi massimi della politica prima delle urne. Manovre e riunioni operative, incontri in sequenza: la prima a sfilare con giacca verde su tappeto rosso alla passerella di Skopje è stata la Merkel. Il 17 settembre è arrivato in visita James Mattis, segretario della Difesa statunitense. La campagna americana per votare yes è poi veramente cominciata quando è toccato al segretario dell’Alleanza Jens Stoltenberg. Complimenti per riforme economiche e poi un messaggio diretto: “siamo pronti ad accogliervi nella Nato, le porte sono aperte, ma dovete decidere voi di attraversarle, il futuro vi aspetta”. Messaggio amplificato dal premier macedone Zoran Zaev: se non vince il si diventeremo instabili, per il paese “non c’è una strada per tornare indietro”. Anche l’Italia ha augurato un futuro benvenuto in Europa al paese. Con strette di mano cordiali la ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha promesso aiuti e addestramento del personale militare in visita nella Capitale.
Ma a spaventare l’Europa e i filo-europei del paese è l’hashtag #boycott. Dietro le quinte, a orchestrare la campagna di fake news, ci sarebbe sempre la stessa faccia: quella di Mosca. Il peccato originale dei russi è sempre uguale: la propaganda, che starebbero usando per evitare l’entrata dello stato balcanico nell’Unione.
Il Congresso americano, già nel gennaio 2017, avrebbe stanziato 8 milioni per combattere la disinformazione russa contro il referendum, dice una fonte anonima del New York Times. Le interferenze di Mosca nel paese “agiscono con vari strumenti, a vari livelli, ma la campagna dei russi non sta vincendo” ha detto Stoltenberg. Per Micheal Carpenter, centro Diplomacy and Global engagment, i russi pagherebbero ultras e motociclisti per alimentare tensioni e scontri. Fonte dell’informazione: intelligence americana. A luglio scorso anche Atene ha puntato l’indice contro Mosca e ha espulso due diplomatici russi “per intromissione negli affari interni del paese” perché tentavano di intralciare la fine della disputa con i macedoni.
Ma non ci sono solo fake news di presunti troll russi, c’è anche il presidente George Ivanov, che chiede di boicottare le urne, dopo aver cercato di intralciare l’accordo con i greci dello scorso giugno, quando i ministri degli Esteri di Atene e Skopje hanno trovato un compromesso su nuovo nome per un nuovo e comune futuro europeo. La volontà di Ivanov è quella dei nazionalisti di entrambi i paesi, scesi in strada a Skopje quanto a Salonicco, dall’altro lato del confine. Anche l’opposizione Vmro-Dpmne, democratici per l’unità nazionale, ha chiesto ai cittadini di non andare a votare. Secondo gli ultimi sondaggi il quorum è a rischio: solo il 30% dei macedoni si recherà alle urne in vista dell’ingresso ufficiale nell’Unione nel 2025. Se vincerà l’astensione, non si sa, ma se vincerà il no il tonfo della sconfitta arriverà oltreoceano, fino a Washington.

Il Fatto 21.9.18
Il milite ignoto, il viaggio tra 4 miliardi di lettere
Grande guerra - L’inedito del musicista e scrittote Massimo Bubola oggi a Pordenonelegge
di Massimo Bubola

“Ti regalerò un bosco di pioppi sul fiume Adige. Ti donerò le mie trecce piene di sogni.  Ti offrirò un letto di piume sotto i meli. Ti darò una boccetta di lacrime mattutine e una di rosolio per la sera. Questo è il maglione caldo di mio fratello Genesio che ti salvi dal freddo del marmo. Ti cedo questa cartolina di mio marito caduto che mi ha disegnato il castello di Duino. Cederò ogni anno metà del mio vino, perché bevano tutti al tuo ricordo. Ti lascio il medaglione con la mia pallida bambina scomparita nel frumento. Ti dedicherò la prossima città che fonderò in Paraguay”.
Queste erano una piccola parte delle lettere e degli oggetti che furono gettati su uno dei carri vuoti del treno che trasportava la bara del milite ignoto ch’era partito il mattino del 29 di ottobre del 1921 dalla stazione di Aquileia e che sarebbe arrivato a Roma la sera del primo novembre. All’arrivo occorsero ben venticinque camion e una trentina di trattori d’artiglieria per trasportar i fiori e gli oggetti che vi eran stati deposti.
Rivedendo quel treno che a passo d’uomo attraversava le campagne e le colline del Friuli, del Veneto, dell’Emilia, della Toscana e del Lazio e che raccolse intorno a sé otto milioni di persone che andarono a piedi a salutarlo, ci appare un’Italia contadina, profondamente mortificata e scioccata dalla più dura guerra che avesse mai visto, ma unita sul quel ragazzo senza nome. Un paese ancora ferito, ma avvolto in una lunga e lacera coperta di Pietà per quel soldato che rappresentava per ognuno il padre, il marito, il figlio, il fratello che avevano perduto.
Il viaggio di quel treno correva su un affresco di Misericordia tra la commossa partecipazione di una nazione che s’era formata da poco e da poco cominciava ad avere un unico cuore ed un unico sentire. La Grande Guerra era finita da tre anni, ma quell’incantato fiume di parole creato da quattro miliardi di lettere scritte durante il conflitto, rappresentava il primo vero epos italiano: uno sconfinato e toccante documento di racconto collettivo.
Un paese come il nostro ancor oggi così carente di un’epica condivisa, dove anche gli eroi del Risorgimento sono confutati e discussi, l’invenzione del Milite Ignoto ed il suo leggendario viaggio dalla Basilica di Aquileia all’Altare della Patria rappresenta invece e finalmente una letteratura popolare nuova e partecipe La grande pianura che andava dall’Isonzo al Po, era attraversata e avviluppata in chilometri e chilometri di lettere, con inchiostro azzurro e color sangue, da stagni di lacrime e maledizioni dove volava come una libellula la una giovane Dea Speranza che cambiava il colore degli occhi e dei sogni al nostro avventurato paese, che come una sposa aveva iniziato a riconoscersi nel suo amato prima ancora di conoscerlo. Aveva iniziato a scriverlo prima che a leggerlo. Ad amarlo prima d’averlo incontrato. Lungimiranze sentimentali dovute alle vertigini della povertà e del disastro incombente che ci avevano disperso a lungo per poi unirci su un giovine martire sconosciuto.
Quello che appariva infine dopo il trionfante strazio di quella Via Crucis su rotaie era una nazione riconciliata dalla morte del suo figlio ultimo e dimenticato, diventato alfine l’ultimo figlio amatissimo.
Dobbiamo impegnarci quindi a rappresentare questa tragedia e a rinnovarne la memoria, che non è solo storia e dramma, ma è soprattutto poesia e racconto rapsodico, musica da cantare e versi di canzoni semplicemente immortali.
Questo è doveroso da parte nostra verso le nuove generazioni per ridare loro una mappa a colori di com’erano i sentimenti di un secolo fa, così diversi da adesso: l’amore coniugale, la devozione filiale, lo spirito del sacrificio, la parola data, la indiscussa lealtà ed il rispetto per le persone e le cose desiderate e necessarie, sudate e guadagnate.
Il coraggio, dicono, salta sempre una generazione ed è proprio per questo che ogni generazione deve tenere a memoria il coraggio delle precedenti ed anche il semplice ricordarlo aiuta chi questo coraggio non ha avuto e non se lo può donare.
Eschilo sulla sua tomba fece scrivere solo e soltanto che aveva combattuto a Maratona, nonostante i sui innumerevoli meriti letterari. Quella guerra contro i Persiani e quella battaglia dove perse un fratello e dimostrò il suo giovane coraggio, era tutto ciò che voleva che di lui fosse ricordato e questo fu il suo ultimo regalo per tutti noi.

Il Fatto 21.9.18
Dalla depressione ci salva la scrittura
di Francesco Musolino

A cosa servono le storie? A proteggerci dalle tenebre, tenendo a bada le paure mentre ci stringiamo attorno ad un fuoco. Dall’epoca dei Neanderthal sino all’era del cloud non siamo poi così diversi dovendo sempre fare i conti tre fobie basilari – il timore dei rumori forti, i lampi di luce improvvisi e la paura di cadere. Ciò significa che tutti gli altri casi sono residui di traumi o acquisizioni culturali, capaci di far germogliare anche il male di vivere, quella depressione che in Italia affligge quasi tre milioni di persone. A conti fatti siamo diventati un popolo infelice.
Per nostra fortuna quelle medesime storie che rendevano la notte più piccola, possono rivelarsi taumaturgiche, persino capaci di rompere il mare ghiacciato dentro di noi. Con questo spirito pionieristico, andando alla ricerca delle parole necessarie, lo scrittore romano Andrea Pomella ha rotto gli indugi, scrivendo un memoir per raccontare della sua malattia, il rapporto con “la complessa cattedrale della depressione maggiore” ovvero “una non-malattia il cui effetto era, per Teresa d’Avila, ‘di oscurare e disturbare la ragione, cui non riesce a far arrivare le nostre passioni’”. Pomella fa tabula rasa degli imbarazzi ammettendo di soffrirne sin dalla tenera età, rievocando quel giorno in cui, esasperato dalle insistenze materne, rispose che non sentiva null’altro che un “frastornante, immoto silenzio”.
L’Uomo che trema (Einaudi) è un libro spietato e delicato, un testo che dona confidenza ma esige una piena attenzione. Una preghiera laica con cui Pomella – già nella dozzina del Premio Strega 2018 con Anni Luce, add editore – si mette a nudo, strappandosi dal viso la maschera del tabù occidentale della malattia, ammettendo e raccontando la sua fragilità anziché nasconderla con cortesia. Soffrendo di “una depressione ciclica anomala” strettamente legata al rapporto controverso con il proprio corpo, l’autore ricorre ad un tono diretto – attento a non scivolare mai nel pietismo o nella facile autocommiserazione – per compiere un viaggio nel tempo, zigzagando fra ricordi e piccoli episodi quotidiani, alla ricerca delle cause del suo patire, richiamando il rapporto con il padre e quella decisiva coazione all’abbandono, sospinto dal timore che lui stesso possa un giorno rivelarsi un padre evanescente, persino nocivo. Questo memoir deve essere inteso come un sipario strappato, la ricerca delle parole come il fascio di luce di una torcia nel buio per provare a spiegare quei momenti in cui l’autore si sente come “l’ultimo uomo sulla terra e non c’è nulla intorno a te che abbia significato”. Ma è possibile che il problema sia altrove. Nell’epistolario di Sigmund Freud leggiamo che “nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati, giacché i due problemi non esistono in senso oggettivo”. Ecco, il depresso si dibatte per tutta la vita in un “cortocircuito alimentato dal realismo – scrive Pomella – lucidamente consapevole che la vita sia effettivamente priva di senso”. O per dirla con le parole del Bardo, “La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente”. Niente, e così sia.

Corriere 21.9.18
Sarah Chang: «Senza rivali il carattere del mio Guarnieri»
La star, ex bimba prodigio: lo suono per Vivaldi. Che non mi annoierà mai
di Enrico Parola

Prima di diventare una delle violiniste più applaudite al mondo è stata una clamorosa bambina prodigio: a tre anni il padre, che la vedeva giocare al pianoforte, le propose il violino; a quattro sosteneva l’esame per entrare nella prestigiosa Juilliard School, a sei suonava il Concerto di Bruch, a otto era chiamata per delle audizioni davanti a Zubin Mehta e Riccardo Muti.
Ma Sarah Chang, nata nel dicembre di 38 anni fa a Philadelphia, non era mai stata nella città natale del suo strumento, Cremona. Colmerà la lacuna in grande stile, inaugurando lo Stradivari Festival e il 15° concorso internazionale di liuteria ad esso collegato. «Già, a pensarci è incredibile, era ora! Sono eccitata all’idea di vedere finalmente i luoghi dove furono creati i primi e i più belli esemplari del mio strumento; e sono sicura che, come altre città italiane, Cremona mi sorprenderà e mi conquisterà con tante altre bellezze: architettoniche, storiche, artistiche, culinarie…».
Nonostante il Festival sia intitolato a Stradivari, Chang ammette di preferire i Guarneri: «Suonerò con il mio, che fu creato nel 1717 e appartenne al mio grande maestro Isaac Stern; adoro la potenza, la drammaticità e la profondità che scaturiscono da questo strumento, posso dire che ha un carattere incredibile. Ho provato alcuni Stradivari, ma finora non ne ho trovato nessuno che fosse adatto al mio modo di suonare e di interpretare più del Guarneri».
Chissà se visitando il Museo del Violino ne troverà uno che la seduca. Intanto la aspettano le Quattro Stagioni di Vivaldi: «Non importa che sia un brano suonato e ascoltato centinaia di volte: è un simbolo del barocco ma allo stesso tempo uno dei brani più popolari dell’intera storia musicale, ha una tale freschezza che non annoia mai, ti lascia sempre l’impressione di novità».
Di novità ne ha vissute tante nella sua vita, ad esempio quando ha suonato in Corea del Nord, lei, americana di nascita e sudcoreana per famiglia: «Sono coreani i miei genitori, papà violinista e mamma compositrice, e lo erano anche i miei nonni; prima della divisione i miei familiari avevano legami con il Nord. Suonare là fu un’esperienza bizzarra, fu un concerto molto significativo per tutti i miei parenti. Credo sia stata la prima volta in cui veramente ho toccato con mano la forza che la musica può avere: non si trattava solo di un’esibizione su un palcoscenico, ma anche un messaggio non verbale e politico».
Sono state anche queste esibizioni a farla eleggere, nel 2006, tra le otto donne più influenti d’America: «Mi fece piacere, ma io sono una musicista, non un politico; se posso spendere questa mia “influenza” lo faccio per sostenere l’educazione musicale tra i giovani; sono stata ambasciatrice artistica andando a fare lezioni tra i bambini della Bosnia e dell’Ucraina, in Africa e in Sudamerica, suonando con loro e nelle scuole; è stata un’esperienza molto appagante».
Tra le incombenze della celebrità vi fu anche un cimento atletico: nel 2004 le chiesero di portare la torcia olimpica a New York, nel suo viaggio di avvicinamento ad Atene: «Fu divertente, mi sentivo onorata. Era caldissimo, dovetti correre per sette quartieri, io che non corro mai…speravo di non cadere».
Si è emozionata più di quanto non lo fosse a otto davanti a Muti e Mehta: «Allora non mi rendevo conto della grandezza e dell’importanza di chi avevo di fronte; erano gentili e simpatici, non mi impressionarono né mi misero soggezione. Poi lavorai con tutti gli altri grandi direttori; Masur, Maazel, Sawallisch furono quasi dei padrini per me».
In quei primi passi della carriera Chang conduceva quasi una doppia vita: «Da una parte c’era la Sarah bambina, contenta di stare in famiglia, che andava volentieri a scuola per stare con i suoi coetanei; dall’altra la musicista che si abituò presto a dividere il palco con artisti che avevano tre, quattro volte i miei anni, che viaggiava, volava, faceva interviste, scopriva alberghi e ristoranti. La mia fortuna è stata essere circondata da manager e amici bravi, che mi hanno lasciato i miei spazi e i miei tempi».

Repubblica 21.9.18
Fenomenologia teoria e pratica dello scarabocchio
di Marco Belpoliti con Tullio Pericoli

Che rapporto c’è fra lo schizzo poco decifrabile di un bambino e il disegno o la scrittura? E se autore di quello schizzo è un adulto che lascia andare la mano su un foglio? Marco Belpoliti ne parla con Tullio Pericoli
Sul tavolo dello studio di Tullio Pericoli c’è un libro: Storie della mia matita. L’ha pubblicato le Edizione Henry Beyle, un contenitore di tantissimi disegni, scarabocchi, realizzati da quello che il pittore marchigiano definisce il suo "sesto dito", la matita. Parliamo di scarabocchi perché al festival che si apre oggi a Novara, Pericoli terrà due laboratori: uno di disegno con i bambini e l’altro con adulti sul ductus, insieme a Giuseppe Di Napoli, artista e saggista.
Belpoliti: Cosa sono gli scarabocchi?
Pericoli: In un libro di Roberto Calasso, Il cacciatore celeste, c’è una frase detta dal custode d’una caverna con incisioni preistoriche: "Todos los adornos son escrituras": "Ogni immagine è un testo scritto". Significa che le immagini raccontano, usando dei segni, dei gesti che compongono un alfabeto, e sono riconducibili a parole. Gli alfabeti nascono da gesti tracciati sui muri delle caverne, quindi dal gesto che voleva rappresentare un’immagine. Non sono un antropologo, ma penso che questa possa essere una spiegazione plausibile del rapporto tra pittura e scrittura. La prima linea è stata quella che ha definito il mondo. Se non ci fosse la linea noi non sapremmo bene com’è fatto un albero o una bottiglia. L’invenzione della linea ha prodotto tutta una serie di forme espressive e conoscitive che vanno dalla pittura alla scrittura, e anche alla simbologia.
Belpoliti: Secondo te cosa sono gli scarabocchi dei bambini o quelli degli adulti? Distingueresti i primi dai secondi?
Pericoli: Gli adulti scarabocchiano, i bambini disegnano. Noi leggiamo i segni dei bambini come scarabocchi, perché somigliano a certi disegni che facciamo da grandi in momenti di distrazione, quando siamo in una riunione, al telefono, quando lasciamo andare la mano su un foglio. I bambini quando tracciano dei segni penso vogliano rappresentare qualcosa, non scarabocchiare. Da dove viene la parola scarabocchio?
Belpoliti: In italiano significa "parola mal scritta, al limite dell’illeggibile, quasi uno schizzo"; contiene sia la scrittura che il disegno. Viene da "scarabotto", scarafaggio, secondo alcuni; altri sostengono che è la fusione di due parole francesi "escarbot", scarabeo, e "escargot", chiocciola, forse perché la macchia d’inchiostro dello scarabocchio è simile all’impronta lasciata da uno scarabeo o dalla chiocciola.
Pericoli: La suddivisione tra il disegno del bambino e lo scarabocchio dell’adulto è fondamentale, c’è una differenza.
Belpoliti: Quindi secondo te i bambini scrivono?
Pericoli: Anche. Ogni segno è riconducibile a una storia, a un discorso che vogliamo fare. Quindi anche i bambini vogliono parlare attraverso i loro segni, in un modo diverso dall’adulto, perché non c’è ancora quel passaggio dato dagli anni della conoscenza, dalla razionalità, in cui avviene una sorta di sosta, di pausa della fantasia libera. Da adulti c’è poi un ritorno a questa fantasia, ma è stata, diciamo così, razionalizzata.
Belpoliti: I bambini oggi imparano a scrivere prima di andare a scuola, a 4-5 anni, anche se poi sono scritture scarabocchiate, perché a quell’età non c’è ancora la raffinatezza del gesto, il coordinamento di tutte le ossa che vanno dalla spalla alle dita; sono scritture sgorbiate. Intanto continuano a disegnare, spesso magnificamente. Poi verso gli 11-12 anni smettono di disegnare in modo meraviglioso, come se perdessero la magia del disegno.
Per imparare a disegnare occorre poi studiare, fare molto esercizio.
Pericoli: Questo in verità è un tema da psicologi dell’infanzia. La prima cosa che ho notato dai miei figli e dai bambini con i quali ho avuto che fare disegnando insieme, è che il gesto del produrre una linea sul foglio di carta dà a loro un grande piacere. Vedere apparire un segno su un foglio dà felicità. Nella crescita di un bambino ci sono poi vari eventi, ad esempio l’emulazione, la vicinanza con gli altri, la scoperta della società e delle immagini trasmesse dalla società; lì accade il cambiamento. La fantasia è come frenata, trattenuta. Nasce una soggezione. Pensano di essere giudicati e smettono.
Belpoliti: È accaduto così anche a te? Hai dovuto rimparare a disegnare?
Pericoli: Non ho mai smesso di disegnare. Ho trovato dei fogli in cui cercavo di disegnare. Ho cominciato a disegnare le cose che vedevo, normalmente non succede. Forse è stata una mia mancanza. Disegnare è un talento, ma va educato.
Belpoliti: Allora gli scarabocchi degli adulti?
Pericoli: Questi scarabocchi appartengono a dei momenti di liberazione, di qualcosa d’inespresso in noi. Credo che nascondano un desiderio di racconto. Ci liberiamo perché sappiamo che non verranno giudicati, che saranno gettati via. A proposito, ho una raccolta di scarabocchi; li ho ottenuti in cambio di miei ritratti: Eco, Moravia, Arbasino, Kundera, Bene, Bufalino e altri.