sabato 29 settembre 2018

La Stampa TuttoLibri 29.9.18
“C’è un vento che spaventa nella mia Svezia della libertà”
La scrittrice nata in Iran racconta la storia dell’esule Nahid, gravemente malata Rabbia e voglia di lottare la riportano alle manifestazioni giovanili contro lo scià
di Elena Masuelli


Quando gli studenti scendevano in piazza contro l’ultimo scià di Persia, Golnaz Hashemzadeh Bonde non era ancora nata. Ma è in quella voglia di libertà e contestazione, nella determinazione a mettere la propria vita in gioco per un ideale, senza mai pentirsi di averlo fatto, che affonda (e ricerca) le radici Un popolo di roccia e vento, primo romanzo pubblicato in Italia dell’autrice iraniana arrivata in Svezia bambina, nel 1986, insieme ai genitori esuli: la scrittura è diventata il filo che la tiene legata alle sue origini. Così racconta di Nahid, cinquantenne nata a Teheran e rifugiata nel Paese scandinavo, cui viene diagnosticata una malattia senza speranza. L’ostinazione la spinge a riguardare alla se stessa diciottenne, talentuosa e volitiva, e a Masood, affascinante rivoltoso conosciuto alla facoltà di Medicina e seguito nelle manifestazioni del 1977 piene di speranze finite nel sangue. Alle notti rubate allo studio passate a discutere di democrazia, con quel senso di immortalità di chi si sente dalla parte della ragione, all’ultimo corteo costato la vita alla minore delle sue sei sorelle. Dopo il matrimonio e la nascita di una bambina, la fuga e il divorzio, la solitudine: «Non avremmo dovuto vivere così a lungo. Avremmo dovuto morire durante la rivoluzione- pensa-. O sotto le sue macerie».
In Svezia crescono gli estremismi e un pericoloso vento razzista. Cosa è cambiato?
«Quando ero piccola c’era poca dimestichezza con lo straniero, ho provato sulla pelle la diffidenza. Ma adesso i flussi migratori senza un piano, spaventano le persone. La Svezia deve ripensare la sua politica umanitaria, renderla più sostenibile. Libertà, tolleranza e uguaglianza restano per me i valori fondanti del popolo svedese. Le derive cui stiamo assistendo sono ostinate e preoccupanti, fanno paura, ma ho scelto di considerarle come qualcosa di temporaneo».
Quanta vita vissuta in questo romanzo?
«È ispirato alla generazione dei miei genitori, scomparsi entrambi giovani, non avevano ancora 50 anni. La mia sensazione è che il loro destino sia stato determinato dal trauma della rivoluzione, dalla fatica spesa nel ricostruirsi esistenza e identità in un paese straniero. Di questo volevo raccontare».
Scrive che la fuga «contamina il sangue». Cosa significa scappare?
«La prima frase che ho scritto di questo libro è: “Uno non se ne va perché ha rinunciato. Parte per costruire qualcosa di nuovo”. È stato molto importante nella mia esperienza di figlia di rifugiati: te ne vai perché vuoi sopravvivere, ma anche perché hai un forte desiderio di lottare. Un cambio di pelle agrodolce, fondamentale ma anche molto doloroso».
È una storia di relazioni ed eredità femminili, di solidarietà e orgoglio. Cosa lega donne così diverse?
«Le unisce è l’inevitabilità del patrimonio sociale. Credo sia un concetto interessante, perché non ha bisogno di essere lineare. Quando la protagonista scopre di essere malata, sta per nascere una nipote che sarà libera grazie alle sue lotte, ma erediterà anche la sofferenza di sua madre, che rimane orfana. Nel 2014, in pochi mesi, ho avuto la mia prima figlia e sono morte prima mia nonna e poi mia madre. Mi sono ritrovato a tenere il futuro tra le braccia, ma allo stesso tempo a salutare le mie origini. Quel senso di perdita così lacerante mi ha fatto pensare a come il dolore e i sacrifici di chi ci ha preceduto ci abbiano permesso di essere chi siamo».
Perché la protagonista è una donna profondamente arrabbiata?
«Sente che la vita l’ha maltrattata nonostante abbia lavorato duramente. In cambio di grandi sogni e grandi speranze ha avuto enormi perdite. E invece di essere triste, è in collera. È un aspetto importante di questo romanzo: la rabbia di un personaggio femminile è spesso vista come qualcosa di negativo. Ma Nahid è cruda e onesta, può non essere simpatica, ma si finisce con amarla, perché condividendo la sua storia, si capisce e si apprezza persino la sua rabbia».
Questo stato d’animo le rende difficile essere madre?
«Si porta dentro un vuoto da riempire: vuole qualcuno che la ami, che la accudisca. Ma ciò non accade, mentre lei si sente in dovere di dare affetto incondizionato a sua figlia e fare sacrifici per lei . Non riesce a venire a patti con questo. Il suo bisogno è troppo profondo».
Una donna «di sabbia», è così che si sente dopo avere lasciato la sua terra. Ma sa che la nipote sarà una «creatura di radici», è questa la sua salvezza?
« È stata costretta ad abbandonare la sua storia e ricercherà per sempre quello a cui ha dovuto rinunciare, non si rassegna. La piccola che sta per nascere le regala un senso di vittoria e riscatto, perché sa che è grazie a lei se potrà vivere in libertà nello stesso luogo in cui è nata».
Come guarda oggi al Paese dei suoi genitori, alla condizione femminile?
«Ammiro le donne iraniane. Seguo la loro lotta per una maggiore indipendenza e spero che la raggiungeranno molto presto».
Dall’Iran Nahid e suo marito arrivano in Svezia portando con loro solo con un tappeto. Molto più che un semplice oggetto.
«Ha un ruolo centrale nella quotidianità iraniana. La maggior parte delle persone trascorre il tempo dedicato alle relazioni sociali lì seduta, mangiando insieme, dormendoci sopra. Molto oltre un semplice esempio di bell’artigianato, in qualche caso una vera opere d’arte: il tappeto regala senso di sicurezza, è un simbolo di appartenenza, significa casa».
Il rapporto fra le protagoniste è segnato dalla musica della cantante Googoosh, iraniana ed esule. Cosa rappresenta, anche per lei?
«È la chiave per accedere a ciò che hai di più intimo. Ricordi, emozioni, persino la sensazione di essere nel posto cui appartieni. Io la sento ancora fortemente, anche se sono passati trentadue anni da quando la mia famiglia è fuggita dall’Iran e io avevo solo tre anni. La musica è il mio legame con la cultura persiana. Io non parlo il farsi con i miei figli, ma canto loro queste vecchie canzoni e loro ne imparano il profondo significato. E ogni volta che canto in farsi, mia figlia mi guarda e mi chiede: “Ti mancano la mamma e il papà?”».