La Stampa TuttoLibri 22.9.18
Ben Jelloun, i diciotto mesi all’inferno
che non riuscii mai a confessare
Da
giovane fu incarcerato e torturato per avere partecipato a una
manifestazione studentesca pacifica: lo scrittore marocchino racconta la
“punizione” che gli ha segnato la vita (e un doloroso segreto)
di Maurizio Molinari
Ogni
scrittore ha almeno un segreto da raccontare e Tahar Ben Jelloun
sfrutta l’occasione del suo ultimo libro, La punizione edito da La nave
di Teseo, per descrivere l’esperienza di detenzione in Marocco nel 1965,
sotto il regno di Hassan II. 135 pagine che accompagnano il lettore in
un viaggio che richiama alla mente, in riedizione maghrebina, Il
Castello di Kafka ovvero un universo di potere, silenzi e contraddizioni
in cui l’unico fine è l’oppressione di chi ha la sventura di trovarsi
in una sorta di inferno terreno.
La storia, personale ed
autobiografica, che l’autore racconta è una detenzione illegittima, la
propria. Ben Jelloun, allora ventenne, ha semplicemente partecipato
insieme ad altri ragazzi a una manifestazione studentesca, pacifica.
Siamo nel Marocco degli Anni Sessanta in piena stagione di
decolonizzazione, con i giovani contagiati dalle idee di libertà che
arrivano dall’Europa e dall’Occidente, protagonisti di sogni destinati
al più amaro dei fallimenti. Tali emozioni iniziali del ventenne Ben
Jelloun sono però utili per ricordare che c’è stato un momento in cui i
giovani arabi, non solo nel Maghreb ma anche in Medio Oriente, hanno
davvero immaginato la possibilità di vivere in nazioni dove libertà e
democrazia fossero dei valori condivisi. Ovvero, il nazionalismo arabo
ha avuto una sua primavera a metà del Novecento prima della scelta
omogenea, da parte delle più diverse dittature, di dedicarsi soprattutto
alla conservazione del potere di piccole élites. C’è stata una finestra
di opportunità per gli Stati nazionali arabi per costruire società
basate sullo Stato di Diritto ma è andata perduta per l’impatto di una
miriade ti storie simili a quella di Ben Jelloun.
Il romanzo
inizia quando un gruppo di militari arriva a bussare alla porta dei
genitori di Tahar, dicendo loro che il figlio il giorno dopo deve
presentarsi in una lontana prigione militare del Paese. Tutti sanno che
può essere l’inizio della fine: il Marocco attraversa un periodo di
regime molto autoritario, in cui la monarchia, con i suoi apparati
militari, reprime tutto, soffocando qualsiasi espressione di libertà. Il
giorno dopo Ben Jelloun parte, accompagnato dal fratello, sapendo che
forse non tornerà mai più indietro. È un viaggio difficile, tra mille
difficoltà e miserie ma soprattutto nell’angoscia della fine. Arrivati
alle porte della prigione, il fratello lo saluta e lì inizia un periodo
di reclusione di 18 mesi che si rivela, pagina dopo pagina, in una
discesa negli inferi. La descrizione accompagna il lettore nelle ferite
più profonde causate dal regime ad una nazione antica.
I ragazzi
vengono malmenati, costretti a lavori forzati - costruire un muro enorme
e poi riabbatterlo e poi ricostruirlo, per il puro gusto di farli
morire di fatica - sottoposti a condizioni igieniche tremende e
costretti a non mangiare o a mangiare cibo avariato. Molti si ammalano,
alcuni muoiono, il tutto mentre i gerarchi del regime se la godono
mangiano, bevono e ricevono donne. E poi c’è la violenza psicologica:
nessuno dei ragazzi sa cosa lo aspetta, nessuno spiega niente, tutti
vivono aspettando il peggio da un momento all’altro.
A un certo
punto si ammala anche Tahar e per questo viene portato in ospedale. La
clinica in realtà è una parentesi felice, perché lì le condizioni sono
migliori. Quando ne esce, fisicamente ristabilito, viene spedito in
un’altra prigione, non più quella iniziale atroce, dove vive in
condizioni materiali leggermente migliori ma subisce torture
psicologiche ancor più pesanti. Il regime è militare stretto e prepara
gli internati ad una guerra, seguendo ritmi e imposizioni pesantissime.
Quando però l’ipotesi del conflitto svanisce, e senza nessuna ragione
precisa, Tahar e pochi altri vengono liberati e così, dopo 18 mesi di
incubo, può tornare a casa e riabbracciare i genitori. Ma proprio quando
cerca faticosamente di recuperare una vita normale, uscire dallo shock,
riprendere a studiare, l’incubo sembra riaffacciarsi: viene infatti
richiamato dal capo militare che lo aveva «torturato», che convoca lui e
altri suoi compagni di sventura per un determinato giorno per una
«sorpresa». Per Tahar torna il terrore. Se non si presenta, diventerà un
disertore, ma se si presenta, ricomincerà tutto l’incubo. Opta per la
diserzione. Appena inizia il tentativo di fuga, arriva la notizia: c’è
stato un golpe militare, poco dopo represso dal re nel più cruento dei
modi. Era dunque quella la «sorpresa» in cui il capo militare voleva
coinvolgerlo, e in cui certamente sarebbe morto.Può tornare a casa,
senza essere disertore ma ha bisogno di 50 anni per riuscire a
rielaborare e raccontare questo segreto. Che suggerisce come i
dispotismi arabi costruiscono il loro potere sull’immagine di un nemico
esterno ma poi in realtà combattono all’interno dei confini una sfida
senza limiti di tempo il cui unico intento è sottomettere la popolazione
civile. Ben Jelloun parla in questi termini, amari ed autobiografici,
del suo Marocco divenuto nel corso degli ultimi 20 anni, fra i Paesi fra
i più aperti e tolleranti del mondo arabo-musulmano.