sabato 22 settembre 2018

La Stampa 22.9.18
La resa dell’America
Le mani di Pechinosull’Oceano Pacifico
Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin al summit economico di Vladivostok.
Le isole artificiali costruite dalla Cina negli atolli del Mar Meridionale Cinese
di Paolo Mastrolilli


Pechino ha ormai preso il controllo del Mar Cinese Meridionale. Se si esclude l’ipotesi di una guerra diretta contro gli Usa, in tutti gli altri scenari i suoi militari avrebbero la meglio. Questo avvertimento lo aveva lanciato nel maggio scorso l’ammiraglio americano Philip Davidson, durante le audizioni tenute al Congresso prima di assumere la guida dell’Indo-Pacific Command, e forse spiega meglio di ogni altra analisi la gravità della sfida in corso in quella regione, e nel mondo. Un domino che vede la Cina minacciare la supremazia costruita dagli Usa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con l’aiuto destabilizzante della Russia.
Il presidente Trump finora ha concentrato l’attenzione sui rapporti commerciali con Pechino, un po’ perché sono oggettivamente sbilanciati, un po’ perché l’aggressività economica della Repubblica popolare è strategica, un po’ perché i deficit commerciali sono la sua ossessione, e un po’ perché ciò lo aiuta a conquistare voti tra i colletti blu degli stati americani più penalizzati dalla globalizzazione. In questo contesto ha abbandonato il trattato commerciale TPP, che forse sarà stata una buona notizia per la sua base, ma ha indebolito la percezione degli Usa fra i tradizionali alleati del Pacifico e ha aperto spazi proprio per il rivale Xi. La sfida però è assai più ampia di così, come dimostrano le franche parole di Davidson.
Il «New York Times» nei giorni scorsi ha volato su un Poseidon che pattuglia il Mar Cinese Meridionale, e ha sperimentato l’aggressività di Pechino. Appena l’aereo si è avvicinato al Mischief Reef, un piccolo atollo, dalla radio è arrivato l’avvertimento dei militari della Repubblica popolare: «Avete violato la sovranità cinese, la nostra sicurezza e i nostri diritti. Dovete andare via immediatamente e restare lontani». Il Poseidon ha proseguito la sua missione, perché in realtà si trovava nello spazio aereo internazionale, e il Michief Reef è più vicino alle Filippine che al territorio di Pechino. Questo episodio però dimostra la pericolosità della sfida.
La Cina ha completato la militarizzazione di sette isole nell’arcipelago delle Spratly, creando atolli dal nulla per trasformarli in basi. Così si è messa in condizione di minacciare direttamente Manila. Gli altri paesi che hanno pretese territoriali nella regione, cioè Filippine, Vietnam, Taiwan, Malaysia e Brunei, non sono abbastanza forti per resistere, e quindi gli americani continuano le missioni aeree e navali per mostrare la loro presenza e affermare il principio della libertà di navigazione. L’ammiraglio Davidson però ha ammesso che gli Usa potrebbero sconfiggere la Repubblica popolare se nel Mar Cinese Meridionale scoppiasse una guerra, ma in tutti gli altri scenari Pechino ha ormai il controllo. Se aggredisse i vicini ci sarebbe poco da fare, a meno di scatenare un confitto diretto.
La sfida però è globale. Washington ha appena imposto sanzioni ai militari della Repubblica popolare, perché hanno acquistato 10 caccia russi Sukhoi Su-35 e diversi missili S-400, violando le misure adottate contro Mosca dopo l’invasione della Crimea. Xi però è schierato con Putin su questo punto, per evitare ingerenze nei propri confini, e quindi sfida Trump perché gli servono le armi, e perché vuole contestare l’ordine internazionale promosso dagli Usa. Queste divergenze hanno dimensioni politiche e pratiche, come dimostra il fatto che i militari cinesi hanno partecipato con i colleghi russi alle grandi manovre Vostok appena condotte in Siberia, mentre gli americani li hanno “disinvitati” dalla loro esercitazione “Rim of the Pacific”. Un quadro in cui i inserisce anche la questione nordcoreana, dove Trump spera di ottenere un successo che allontani Pyongyang da Pechino, mentre Xi potrebbe avere interesse a deragliare il dialogo, se andasse contro le sue ambizioni geopolitiche.
La sfida cinese dunque si gioca su almeno tre fronti. Quello politico, che passa anche per l’intesa con la Russia; quello economico, che punta ad imporre la sua supremazia in Asia, ma pure ad espandersi in Africa e verso l’Europa, attraverso il piano Belt and Road; e quello strategico, mostrando i muscoli soprattutto nell’area del Pacifico. La risposta dovrebbe venire da Usa, Giappone e alleati occidentali, se saranno capaci di elaborare una strategia comune.