domenica 2 settembre 2018

La Stampa 2.9.18
Cavalli-Sforza, l’esploratore del Dna che ha smontato il mito della razza
di Gabriele Beccaria


Nell’abisso del Dna ha trovato molto, moltissimo, tranne la parola più pericolosa e scottante: razza. Non siamo una razza, né ci sono razze umane, separate da incolmabili differenze biologiche. C’è solo una specie, quella umana. Che inventa concetti esecrabili - come quello di razza, appunto - ma che negli ultimi 200 mila anni ha realizzato un cammino unico tra gli esseri viventi.
L’esploratore dell’avventura primigenia si chiama Luigi Luca Cavalli-Sforza e la sua intelligenza multiforme si è spenta ieri, a Belluno, a 96 anni. Non c’è retorica nel celebrarlo tra i grandi della scienza. Uno dei suoi meriti è aver contribuito a definire una visione rivoluzionaria: il nostro passato ancestrale non si limita più a una fragile collezione di fossili, in cui dannarsi per far combaciare un dente con un teschio. Da almeno tre decenni stiamo imparando a considerare ognuno di noi, e ogni antenato, come un archivio, vivente o congelato nel tempo. Una massa di informazioni, quasi inconcepibile per i non addetti ai lavori, concentrata nei geni e lì custodita per chi sa decifrarla.
Nel XXI secolo paleoantropologi e archeologi non possono più fare a meno dei genetisti e così si sono fatte scoperte sorprendenti, come quella che nel nostro Genoma si è riversato un po’ di Dna di una specie concorrente, estintasi 40 mila anni fa, i Neandertal. Ma a dare il via alla colossale decifrazione dell’Homo sapiens è stato proprio Cavalli-Sforza: lui - ha raccontato - già negli Anni 50 si chiese «se fosse possibile ricostruire la storia dell’evoluzione umana ricorrendo ai dati genetici delle popolazioni attuali». La paleogenetica - l’analisi del Dna antico - non esisteva ancora, e il professore-pioniere raccolse quantità crescenti di dati biologici, a cominciare dai gruppi sanguigni, fino a tracciare un «albero darwiniano» che equivale alla vulgata che oggi va per la maggiore.
Noi Sapiens siamo africani e poi, spinti da una curiosità che non smette di tormentarci (e che Cavalli-Sforza ha interpretato da maestro), abbiamo dato il via all’impetuosa colonizzazione del Pianeta: l’Europa e quindi l’Asia intorno a 55 mila anni fa e le Americhe all’incirca 30 mila anni fa. Nel Dna - ha raccontato nei suoi saggi, come il celebre Storia e geografia dei geni umani - è racchiusa la memoria di tutte le migrazioni - e quindi degli incroci e degli adattamenti all’ambiente - e di come siamo diventati agricoltori, diecimila anni fa.
Cavalli-Sforza, nomade anche lui (nato a Genova, studente a Torino, professore a Stanford e a Pavia), si divertiva a smontare le elucubrazioni di Arthur de Gobineau, assertore della superiorità degli europei. Proprio gli europei - ha dimostrato - sono il vertice di una maionese genetica, frutto di incroci di popolazioni. Non c’è alcuna «purezza» e il diverso colore della pelle non è altro che una variazione del look, mentre all’intelligenza riconosceva aspetti ancora misteriosi, all’incrocio tra sfera naturale e sfera culturale. Forse l’enigma avrebbe potuto essere sciolto con il mega-progetto dello «Human Genome Diversity Project», destinato a mappare la diversità genetica dei Sapiens. Ma le accuse di razzismo (e biopirateria) hanno incrinato la visione dell’uomo che più di ogni altro ha contribuito a farci riflettere sulle nostre comuni radici .

il manifesto 2.9.18
Cavalli Sforza, la genetica che svela la nostra natura migrante
Scienza. Scomparso a 96 anni nella sua casa di Belluno uno dei più grandi scienziati del Ventesimo secolo. Come gli astronomi osservano nelle galassie lontane cose accadute nel passato, così, grazie a lui, i genetisti leggono nel Dna la firma di eventi accaduti migliaia di anni fa e ne traggono la storia dei popoli
di Luca Tancredi Barone


Quando il giornale su cui scrivi da quasi 20 anni ti chiama un sabato pomeriggio per raccontare uno dei più grandi scienziati del ventesimo secolo, sentire una certa vertigine è inevitabile. Scrivere di Luigi Luca Cavalli Sforza, morto a 96 anni ieri nella sua casa di Belluno, è un po’ come rispondere ai perché innocenti di tua figlia cinquenne su come funziona il mondo: ti mancano le parole, le conoscenze e le letture per sperare di poter dare una spiegazione semplice, corretta ed efficace.
MA L’EREDITÀ CULTURALE che lascia Cavalli Sforza va molto più in là dei suoi straordinari risultati scientifici. Nato a Genova nel 1922, si laurea nel 1944 a Pavia in medicina, dopo che uno dei suoi professori a Torino, Giuseppe Levi, il maestro dei tre futuri premi Nobel Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi Montalcini, viene allontanato dalla cattedra per le leggi razziali. E questo non è solo un triste aneddoto personale, perché la questione della razza sarà centrale nella vita scientifica di Cavalli Sforza.
Non è la medicina però la sua vera passione. Prima della laurea si era dedicato a studiare il batterio dell’antrace, o carbonchio, e i suoi effetti sui polmoni. Ma subito dopo la laurea, inizia a collaborare con Adriano Buzzati Traverso, che sarebbe diventato il primo professore di genetica in Italia, e capisce che è la genetica il suo cammino. I primi oggetti del suo studio furono i cromosomi dei moscerini della frutta – in quegli anni ancora non era stato descritto il Dna – e la sessualità dei batteri. Conscio delle proprie lacune matematiche, si mette anche a studiare statistica con Ronald Fisher, il migliore dell’epoca nel campo: una scelta che avrebbe determinato il suo futuro scientifico. La sua carriera si svolge, fin da quegli anni, fra Italia, Inghilterra e Stati Uniti, dove insegnerà a partire dal 1970 a Stanford. Ma è quando inizia a interessarsi della genetica umana che Cavalli Sforza inizia il viaggio scientifico che cambia radicalmente la nostra visione del mondo.
Fu uno dei primi a capire che lo studio comparato delle popolazioni umane – la genetica delle popolazioni – avrebbe potuto fornire delle informazioni chiave non solo per la genetica, ma anche per l’antropologia e per lo studio dell’evoluzione dei primi esseri umani. Solo la sua dimestichezza con la statistica gli permise di far fare alla disciplina un salto di qualità. Prima iniziò studiando i fattori che modificano la distribuzione dei gruppi sanguigni tra le diverse popolazioni, per poi concentrarsi sul cromosoma Y – il pezzettino di cromosoma che hanno tutti i maschi biologici – e da lì corroborò dal punto di vista genetico la teoria paleontologica dell’«Out of Africa», secondo la quale i primi ominidi lasciarono il continente africano circa 100mila anni fa per poi colonizzare il resto del pianeta.
FU UNA VERA RIVOLUZIONE: la genetica delle popolazioni era in grado di costruire un «albero genealogico» capace di raccontare la nostra storia – e quella di tutti gli esseri viventi – attraverso il Dna. Come gli astronomi – la disciplina a cui il padre l’aveva voluto appassionare da bambino – osservano oggi negli astri e nelle galassie lontane cose accadute nel passato, così, grazie a Cavalli Sforza, anche i genetisti possono osservare oggi nel Dna la firma di eventi accaduti migliaia di anni fa, e da lì trarre conclusioni sulla storia delle popolazioni. Non solo: nel suo famoso saggio Geni, popoli e lingue (1996), usando anche la demografia, traccia un parallelismo fra le linee filogenetiche delle popolazioni mondiali, la linguistica e l’archeologia e ne osserva la sostanziale sovrapponibilità. Non è solo il primo «atlante genetico» dell’umanità. Le tre discipline raccontano tutte coerentemente la storia dei popoli sulla terra: una storia di migrazioni e meticciati, con buona pace dei salvini di tutta Europa.
E c’è una seconda conclusione altrettanto attuale. Proprio mentre si stava portando a termine il Progetto Genoma Umano che avrebbe sequenziato per la prima volta il nostro Dna, Cavalli Sforza coordinò un progetto complementare, ma per studiare la diversità del genoma umano (Human Genome Diversity Project), e cioè quello che ci rende differenti. E che invece, ineluttabilmente, gettò le basi per smontare per sempre l’idea di «razza».
«Il razzismo», dissero lui e la sua collega nel progetto diversità Mary-Clair King in una famosa audizione davanti al Senato americano del 1993, «è un antico flagello dell’umanità». Il team scientifico guidato da Cavalli Sforza dimostrò infatti che gli esseri umani sono piuttosto omogenei geneticamente, che «i gruppi che formano la popolazione umana non sono nettamente separati, ma costituiscono un continuum. Le differenze nei geni all’interno di gruppi accomunati da alcune caratteristiche fisiche visibili sono pressoché identiche a quelle tra i vari gruppi, e inoltre le differenze tra singoli individui sono più importanti di quelle che si vedono fra gruppi razziali», come scrive efficacemente in Chi siamo. La storia della diversità umana (1995). In altre parole, il mio vicino potrebbe essere più diverso da me, geneticamente, di un aborigeno australiano.
MA CAVALLI SFORZA, convinto della forza dell’evidenza scientifica, non era un illuso. E nello stesso libro ricordava: «Pensiamo che la scienza sia obiettiva. La scienza è modellata dalla società perché è un’attività umana produttiva che richiede tempo e denaro, e dunque è guidata e diretta da quelle forze che nel mondo esercitano il controllo sul denaro e sul tempo. Le forze sociali ed economiche determinano in larga misura ciò che la scienza fa e come lo fa».

Corriere 2.9.18
1922- 2018
Cavalli-Sforza, il signore dei geni
Dal sesso dei batteri al Dna dell’umanità, addio al pioniere che si fece maestro
di Telmo Pievani


Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il grande genetista spentosi all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più viene da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.
Dopo gli studi di Medicina a Torino e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli-Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica del moscerino della frutta da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello dello scrittore Dino. Fu Buzzati Traverso a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi premio Nobel nel 1958 a soli 33 anni, Cavalli-Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e cognomi. Collaborò con l’Istituto sieroterapico milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori del deserto africano del Kalahari, e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.
Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli-Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni all’ateneo americano di Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul Dna mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60 mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue (Adelphi) è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Ne discende, e Cavalli-Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in «razze» ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa, dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi e linguisti, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa, e per scoprire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità).
Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un’opera monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani (Adelphi). Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura (Codice).
Il valore della scienza di Cavalli-Sforza sta tutta in quella domanda, Chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza; due volumi editi da Mondadori). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò una mostra importante, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle lauree honoris causa. Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici. Era un uomo schietto, ironico, libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile curiosità, sulla natura e sull’umano.

Repubblica Robinson 2.9.18
La Scomparsa di Cavalli Sforza
L’uomo che mostrò l’unicità dell’uomo
Se n’è andato lo scienziato che ci ha spiegato come l’umano sia uno solo, frutto di un mosaico di contaminazioni. Un innovatore da Nobel (che non gli fu dato) fin dalle ricerche sui microrganismi: come fanno l’amore i batteri?
di Guido Barbujani


Con Luca Cavalli-Sforza, scomparso venerdì pomeriggio nella sua casa di Belluno, non se ne va solo una delle menti italiane più brillanti del Ventesimo secolo. Se ne va un formidabile innovatore: l’uomo che, nel corso di sessant’anni, ha portato la genetica mondiale a trasformarsi da una scienza artigianale – un bancone, qualche moscerino, poche attrezzature e tante idee – a una grande impresa transnazionale ad altissimo contenuto tecnologico. Se la moderna scienza dei genomi oggi ci offre possibilità senza precedenti di comprendere i meccanismi di base della vita, è merito di un piccolo gruppo di scienziati dalla vista lunga, con Luca Cavalli-Sforza appunto in prima fila. Lo chiamavamo tutti Luca, ma in realtà si chiamava Luigi. Sull’origine del Luca circolano due leggende. Secondo la prima, pare che il padre della genetica italiana, Adriano Buzzati-Traverso, lo chiamasse Luca per sbaglio, e poi si giustificasse dicendo che comunque aveva "una faccia da Luca". Preferisco l’altra, secondo cui, arrivato in America, resosi conto che lì tutti hanno il middle name, aveva deciso di inventarsene uno. Aveva preso le prime sillabe del nome e del cognome e, baciato dalla grazia in questo come in tanti altri aspetti della vita, ne aveva ottenuto un nome, Luca.
Luca sembrava davvero un uomo baciato dalla grazia. Dava un’impressione di leggerezza, sia che derivasse formule matematiche sul bloc notes (lo faceva a velocità spaventosa) sia che prendesse la parola in consessi internazionali. Tutto quello che faceva era elegante, nulla di quello che faceva sembrava richiedere il minimo sforzo: a lui, voglio dire, mentre tutti gli altri, compreso chi scrive, dovevano sudare per star dietro ai suoi ragionamenti che poi, una volta esposti, sembravano limpidi, quasi banali. Versatile e curioso di tutto, aveva cominciato studiando la Drosophila, il moscerino della frutta caro ai genetisti, e poi, a Cambridge, i batteri. È stato lui a scoprire i cosiddetti ceppi Hfr, che avrebbero permesso di capire come è fatto il DNA del batterio Escherichia coli, nel frattempo rivelando stupefacenti aspetti della vita sessuale (sì, sessuale) di queste creature.
Ma nei libri di testo del futuro Cavalli- Sforza sarà ricordato soprattutto per il suo fondamentale contributo alla genetica umana. Mentre, nell’ultimo decennio del XX secolo, si lavorava intensamente a leggere l’intero genoma umano, Cavalli- Sforza aveva capito prima di tanti altri che un solo genoma non ci può dire molto. Quello che conta veramente, quello che fa di ognuno di noi un individuo unico e irripetibile, sono le nostre differenze, e quindi, per capirle, bisogna studiare tanti genomi. Il progetto HGDP, lo " Human Genome Diversity Project", da lui promosso e difeso quando la competizione per i fondi era durissima e la concorrenza spietata, è stata la chiave per comprendere meglio le cause di complesse malattie genetiche, e al tempo stesso rivelare aspetti sorprendenti della nostra vicenda evolutiva.
Io però penso che la cosa più importante nella luminosa carriera scientifica di Luca Cavalli- Sforza sia un’altra, e risalga agli anni Settanta. La genetica di popolazioni, la disciplina che più di ogni altra ha beneficiato della sua creatività e capacità organizzativa, allora era una disciplina modesta. Certe malattie genetiche sono trasmesse da portatori sani che, sposandosi, hanno una probabilità su quattro di fare un figlio malato; all’epoca non esistevano test sul DNA, i portatori sani erano difficili da individuare; la genetica di popolazioni cercava di minimizzare il rischio che si sposassero fra loro. Per primo, Luca Cavalli- Sforza capisce che nelle nostre cellule c’è ben di più: che il messaggio lasciato nel nostro DNA dalle generazioni precedenti ci permette di illuminare aspetti del passato altrimenti inconoscibili. Le prime vicende della preistoria umana in Africa; le migrazioni che hanno portato Homo sapiens a colonizzare tutto il mondo; e i continui scambi che hanno fatto della nostra specie il mosaico che è; su tutto questo oggi sappiamo molto, grazie a una geniale intuizione di Luca Cavalli-Sforza (e a quelli che hanno saputo seguirla).
Non gli hanno dato il Nobel; se lo meritava. A Stoccolma non hanno mai riconosciuto alla biologia evoluzionistica il peso che dovrebbe avere. Luca Cavalli-Sforza ha lasciato però tanti allievi, in Italia e all’estero. Pochi come lui hanno saputo attraversare i confini fra discipline diverse, sviluppando collaborazioni con antropologi, biologi molecolari, demografi, ecologi, linguisti, archeologi e storici (difficilissime quelle con i linguisti). Pochi come lui hanno saputo affascinare con le loro idee, formando generazioni di giovani scienziati che gli saranno per sempre debitori. In Italia non è un’esagerazione dire che, in un modo o nell’altro, siamo tutti suoi figli, noi genetisti. Io, in realtà, meno di altri, di chi ha lavorato per anni con lui, a Parma, a Pavia, e poi a Stanford. Laura Zonta, Suresh Jayakar, Gianna Zei, Alberto Piazza, Paolo Menozzi, Italo Barrai… mi scuso se non posso nominarli tutti. Come a loro, da oggi mi mancherà uno dei grandi italiani del secolo. Siamo un po’ più soli, e più tristi.

Repubblica 2.9.18

Curioso e libero così era mio padre
Hanno lavorato (e scritto) assieme per vent’anni.
E ora il figlio, da sempre stregato dalla sua capacità di scoprire strade nuove, ricorda: "L’evoluzione culturale?
Lévi-Strauss gli disse che era un po’ troppo complicata..."
di Francesco Cavalli Sforza


Luca Cavalli- Sforza si è spento nel pomeriggio di venerdì, a 96 anni, nella casa di famiglia a Belluno dove trascorreva l’estate. Era Luigi all’anagrafe, Luca per gli amici. Da qualche settimana non riusciva ad alzarsi dal letto, non per malattia ma per la debolezza dell’età. È trascorso serenamente, in compagnia del figlio maggiore, Matteo, e di sua moglie Kima Guitart. Lascia i quattro figli avuti dalla moglie, Alba Maria Ramazzotti, scomparsa tre anni prima di lui. Luca era mio padre, e per vent’anni abbiamo lavorato insieme a divulgare quanto si andava scoprendo sull’evoluzione dell’uomo moderno, al cui studio aveva dedicato la vita. Spesso erano scoperte sue. Abbiamo raccontato la sua autobiografia scientifica in un libro scritto a quattro mani, Perché la scienza: l’avventura di un ricercatore (Mondadori, 2005). Uno degli aspetti che ho sempre trovato più stimolanti dell’attività di mio padre è stata la sua capacità di imboccare strade nuove, ogni volta che se ne offriva la possibilità, e di lavorare in parallelo a più progetti scientifici, anche molto distanti tra loro. Nei decenni "americani" ma in costante collegamento con il laboratorio di Pavia l’affluire continuo di dati genetici sulle più diverse popolazioni del mondo gli permetteva di ricostruire con precisione sempre maggiore l’evoluzione biologica dell’umanità moderna. In parallelo, però, si applicava a studiare l’evoluzione culturale umana, fino ad allora ignorata dagli antropologi («Perché è troppo complicata » , gli dirà Levi- Strauss incontrandolo) ma ovviamente fondamentale nello studio della nostra specie. Lavorando con il matematico e biologo Marcus Feldman produce un testo di modelli di evoluzione culturale. In collaborazione con l’archeologo Albert Ammermann ricostruisce la diffusione dell’agricoltura in Europa, dimostrando che si è trattato in larga parte di una diffusione demica, cioè della progressiva diffusione degli agricoltori, anziché della diffusione di una tecnologia, l’agricoltura. Con i colleghi Alberto Piazza, di Torino, e Paolo Menozzi, di Parma, pubblica nel ’ 97 History and Geography of Human Genes ( Storia e geografia dei geni umani, Adelphi 1997), con 800 grafici che mostrando la distribuzione dei geni sul pianeta illustrano la storia delle popolazioni umane. Con i linguisti Joseph Greenberg, Merritt Ruhlen e Bill Wang studia l’evoluzione del linguaggio, vera architrave della cultura umana.
Un altro aspetto che ho sempre trovato di grande valore è stata la sua capacità di collaborare con colleghi dei più svariati campi di studio, nel comune impegno a ricostruire il nostro passato portando a convergere i contributi offerti dalle più diverse discipline. Non ha mai scordato le sue origini di medico, pur avendo praticato poco l’attività clinica e solo al principio della carriera, e ha contribuito con le sue competenze alle più svariate ricerche di medicina genetica, un ambito divenuto sempre più importante negli ultimi decenni, pur rifiutando le offerte di applicare in ambito commerciale e farmaceutico le sue competenze. Il suo interesse è sempre stato rivolto alla semplice conoscenza, alla comprensione dei fenomeni. Penso considerasse limitanti e decisamente ambigue le applicazioni di tipo economico. Con altri colleghi, crea negli anni ’90 il Progetto della diversità genomica umana, mettendo a disposizione dei ricercatori, sulla base di un rigoroso codice etico, i dati genetici di una cinquantina di popolazioni aborigene.
Nei primi anni del secolo, lo sviluppo dei metodi di sequenziamento del genoma gli permette di ricostruire, con il gruppo di ricerca di Stanford, l’albero genealogico del cromosoma Y, che definisce il sesso maschile e viene trasmesso dal padre ai figli maschi, fino a risalire all’"Adamo Y", il cui cromosoma Y, in forma diverse, tutti noi maschi portiamo. Un’ultima ricerca, pubblicata quasi dieci anni fa, mostra la leggera ma continua perdita di diversità genetica dai luoghi d’origine della diffusione umana, in Africa orientale, fino ai suoi punti più lontani, nelle isole del Pacifico. È un risultato che conferma in pieno sia la nostra origine africana sia l’importanza del caso nell’evoluzione, ma soprattutto illustra i modi in cui è avvenuta la diffusione umana sul pianeta, attraverso un serie di tappe contrassegnate dall’"effetto del fondatore".
Per noi figli, il suo legato va ben al di là di ciò che ha scoperto e delle strade che ha tracciato. Ci lascia la sua libertà di spirito, l’indipendenza e l’onestà intellettuale, l’apertura verso tutto e tutti, la curiosità inesauribile, il rifiuto di qualunque dogmatismo, anche in campo scientifico. Diceva che l’unico contributo che si può dare agli altri è con il proprio esempio, e sempre ha aiutato chi incontrava, incoraggiandolo e promuovendone le capacità. Siamo tutti laici in famiglia, ma non per questo pensiamo che nostro padre sia scomparso: sappiamo anzi che le sue indicazioni resteranno con noi, e che la strada che ha tracciato, molto al di là delle sue realizzazioni scientifiche, offre itinerari che sarà affascinante percorrere

il manifesto 2.9.18
Il percorso speculativo di Simone Weil dentro la fucina del Novecento
Novecento francese. In Leggere Simone Weil (Quodlibet) Giancarlo Gaeta rivisita la vicenda biografica dell’intellettuale francese, mettendo ordine in un pensiero ora mistico, ora filosofico, ora operaio
Les grands bureaux delle acciaierie di Longwy in Lorena, Francia, vetrata realizzata su disegno di Louis Majorelle, 1928
di Pasquale Di Palmo


«La critica alla modernità in effetti non si risolve nel suo caso in una presa di posizione intellettuale che ne farebbe un’antimoderna; deriva piuttosto da un senso di estraneità verso saperi e modalità espressive che avvertiva impermeabili alle questioni reali della propria epoca e perciò agli effettivi bisogni fisici e morali degli individui». Questo emblematico passaggio è tratto da Leggere Simone Weil (Quodlibet, pp. 320, € 22,00), che raccoglie e ordina una serie di interventi critici sulla pensatrice francese composti da Giancarlo Gaeta, uno dei suoi più raffinati esegeti italiani, curatore di parecchi lavori di traduzione, nonché dell’edizione integrale dei Quaderni, suddivisa in quattro volumi usciti tra 1982 e 1993 per Adelphi.
Gaeta, saggista e studioso di storia del cristianesimo antico, ripercorre le vicende biografiche della Weil, associandole alla sua opera variegata. Ne è scaturito un libro di indubbio fascino, elegante e rigoroso, che tenta di sistematizzare un processo speculativo che ha attraversato come una meteora le grandi crisi, non solo ideologiche, che hanno investito il «secolo breve», nonostante si tratti di «un pensiero estraneo per forma, contenuti e comprensività alle correnti dominanti nella cultura del Novecento». Il continuo richiamo al retaggio dei Greci si configura come una sorta di riscatto dalla dimensione solipsistica e angosciante in cui è irretito il modernismo, nel tentativo di recuperare, oltre a una comunicatività di taglio primigenio, anche «un senso in rapporto alla felicità per la quale l’uomo è fatto e di cui è privato dalle dure costrizioni di questo mondo», come scrisse la stessa Weil.
Gaeta privilegia l’aspetto filosofico, relegando in secondo piano quello letterario, anche se spesso è difficile discernere tra motivi che sono quasi complementari, considerato che per Simone Weil il compito primario della riflessione speculativa non può che essere «comunicazione indiretta della verità», «filosofia esclusivamente in atto e pratica». Tale dimensione «etica» erompe soprattutto dalla lezione di quella straordinaria fucina di impressioni e pensieri costituita dai Cahiers, a proposito dei quali osserva: «Scrivere per frammenti fu dunque per lei, in un passaggio decisivo della sua ricerca intellettuale, una necessità inerente alla specificità del suo pensiero filosofico, che le ha imposto di disporre gli oggetti della riflessione su piani molteplici legati tra loro per analogia, e di leggere ciascuno di essi da più punti di vista, senza nascondersi le contraddizioni, ritenute essenziali al pensiero umano».
Non si poteva non partire dal sodalizio con Simone Pétrement, amica e biografa della filosofa, all’epoca dell’insegnamento di Alain, indiscusso assertore del concetto di libertà che, accomunato a quello di verità, diverrà uno dei capisaldi della ricerca umana e filosofica dell’autrice di La Pesanteur et la grâce. Dall’insegnamento nei licei al sindacalismo passando attraverso un impegno ideologico di indiscussa matrice eretica, si arriverà alla fondamentale decisione, avversata da amici e conoscenti, di lavorare in fabbrica, al fine di capire (e carpire) la reale portata della Condition ouvrière, titolo fortemente voluto da Camus per contrassegnare la raccolta di scritti postumi pubblicata nel 1951 nella collana «Espoir», da lui diretta per Gallimard. Il libro fu tradotto l’anno successivo da Fortini per le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti che contribuiranno in maniera decisiva alla conoscenza nel nostro paese di un pensiero tra i più originali e articolati della modernità, stampando altri tre titoli dell’intellettuale francese.
Nonostante la condizione dell’operaio sia paragonata a quella di uno schiavo, per la Weil diventa un privilegio poter misurarsi con il lavoro manuale, benché fosse maldestra e di costituzione gracile, afflitta oltretutto da spaventose emicranie. Si consideri all’uopo l’aneddoto riguardante il fatto che volesse a tutti i costi un fucile in dotazione durante la sua permanenza nella colonna Durruti in cui confluivano le formazioni militari non regolamentari composte da anarchici e comunisti nella guerra civile spagnola. Intimoriti dal fatto che, alla forte miopia, si aggiungesse un’accentuata incapacità manuale, i suoi compagni, dopo mille discussioni, riuscirono a dissuaderla dall’imbracciare un’arma, convinti di aver salvato in tal modo qualche innocente.
Molto interessante è il capitolo che ricostruisce le vicissitudini editoriali di un’opera perlopiù pubblicata in forma postuma e frammentaria. La stessa autrice, poco prima di morire, aveva lasciato al domenicano Joseph-Marie Perrin e al filosofo di estrazione cattolica Gustave Thibon alcuni importanti quaderni mentre la famiglia si adoperò per pubblicare altri testi inediti e poco conosciuti, affidandoli a quell’estimatore d’eccezione che fu il summenzionato Camus. Il primo titolo fu L’Enracinement (1949), seguito da La Connaissance surnaturelle (’50), dalla citata Condition ouvrière (’51) e da Oppression et liberté (’55). Ma, sebbene questi lavori abbiano contribuito in modo determinante a rendere noto il pensiero della Weil, si tratta di testi che non hanno alcun presupposto scientifico, privi come sono di qualsiasi apparato critico o filologico. Alla stessa stregua vanno considerati i Cahiers editi da Plon tra 1951 e 1956 che, insieme alla Connaissance surnaturelle, in cui confluirono i «Quaderni d’America» e il «Taccuino di Londra», rappresentano per Gaeta edizioni «assai lacunose». Il fatto che sia Perrin sia Thibon preferissero pubblicare autonomamente gli scritti loro affidati, in cui molto forte è la riflessione sul versante mistico e religioso (si pensi anche al concetto di decreazione che investe «l’annullamento in Dio che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere»), non contribuì in maniera adeguata alla conoscenza globale di un’opera complessa e stratificata. In parte, è riuscita in questa impresa la pubblicazione da Gallimard, ancora in corso, delle Œuvres complètes: intrapresa nel 1988, è arrivata nel 2012 al VII tomo, per un totale di undici volumi.
Ma, al di là delle considerazioni di carattere bibliografico, che tuttavia hanno un rilievo basilare nell’opera della Weil, Gaeta si districa agevolmente nei meandri di un pensiero che cercò «fino ai suoi tentativi estremi di prefigurare un nuovo assetto sociale e politico per l’Europa del dopoguerra» (si veda la critica acerrima dei sistemi totalitari o l’attualissimo «Manifesto per la soppressione dei partiti politici»). Il rigore, l’intransigenza con cui vennero vissute tali istanze sul piano intellettuale, associati a una mancanza di dogmatismo e a un’umiltà davvero ragguardevoli, costituiscono un unicum nella storia del pensiero novecentesco, soprattutto per l’autonomia di giudizio che li sottende.
Si arriva così al travagliato periodo finale: l’avvicinamento a un cattolicesimo sui generis (il «punto al limitare della Chiesa» di cui parla la stessa Weil) che diede vita alle splendide pagine di Attente de Dieu e Lettre à un religieux, la fuga per sottrarsi alle leggi razziali con la famiglia, lo sbarco a New York e il successivo approdo a Londra. Si lascerà morire di inedia in un ospedale di Ashford, nel Kent, il 22 agosto 1943, all’età di 34 anni. Aveva scritto in una delle sue ultime lettere: «A parte ciò che mi può essere accordato di fare per il bene di altri esseri umani, per me personalmente la vita non ha altro senso, e in fondo non ha mai avuto altro senso, che il conseguimento della verità».

La Stampa 2.9.18
l’Italia e il risveglio dei demoni
Il virus dell’intolleranza è una narrativa che non cerca le soluzioni
di Maurizio Molinari


Un parrucchiere di Roma, particolarmente loquace, conversa con le clienti. «A me piace Matteo Salvini e poi, vi confesso, in fondo sono sempre stato razzista». Davanti allo sguardo sorpreso di chi ascolta, l’uomo continua a lavorare all’acconciatura come se avesse detto la cosa più banale del mondo. A oltre 600 km di distanza, in un ristorante vicino a  Belluno un imprenditore locale spiega ai commensali: «Sono in disaccordo su tutto con questo governo, tranne su un tema, i migranti, perché violentano le nostre donne, ci costano tanti soldi e generano ogni sorta di malaffare». Fra i presenti c’è chi obietta che in realtà molti migranti vengono impiegati in lavori che gli italiani non vogliono più fare ma l’imprenditore è perentorio: «Ne abbiamo troppi». Courmayeur è in un altro angolo di Italia, la piazzetta nella zona pedonale è un luogo di incontri ed un quarantenne in vacanza pone pubblicamente il dubbio se non ci sia «il mondialismo» all’origine «di tutti i nostri problemi» perché «il multiculturalismo oramai è fallito». In un Autogrill vicino Bologna due giovani davanti ad un caffè descrivono i migranti in arrivo dal Nordafrica: «Altro che poveretti denutriti, hai visto che muscoli?». Questi episodi, tutti avvenuti nelle ultime settimane, sono la cartina di tornasole di un sentimento pubblico crescente e lasciano intendere che i demoni stanno tornando fra noi.
L’avversione per il prossimo è il più pericoloso dei virus perché annebbia la mente, trasforma la conoscenza in un avversario e conduce su una strada disseminata di conflitti, dunque senza uscita. L’antidoto più efficace contro questo demone è la forza della ragione: il razzismo ha causato nel Novecento 60 milioni di morti e la distruzione dell’Europa, perché resuscitarlo?
Le nazioni più prospere del Pianeta sono state create negli ultimi duecento anni con il contributo vitale degli immigrati, perché rigettarli? L’avversione al «mondialismo» nasce dalla narrativa totalitaria favorevole alla chiusura ermetica delle società, può essere questo l’orizzonte della generazione Erasmus?
Quando la ragione si offusca è l’intolleranza che si fa largo, accompagnandosi ad una narrativa collettiva imperniata non sulla soluzione dei gravi problemi esistenti ma sull’avversione per nemici sempre più numerosi e pericolosi che nell’odierna versione sovranista-populista italiana sono: l’establishment, l’euro, l’Unione europea, la Francia, la Germania, i migranti, i rom, Confindustria e, come ha affermato il vicepremier Luigi Di Maio il 6 agosto al Senato, il «Dio mercato» contrapposto alla «dignità dell’individuo». Altri, prima o poi, seguiranno. Ma quando sono gli avversari a definire cosa siamo, dobbiamo chiederci chi siamo.
Prendere atto del risveglio dei demoni dell’intolleranza significa chiedersi da dove vengono. L’avversione per chiunque identifichiamo come diverso è congenita ad ogni gruppo nazionale, etnico, tribale, dunque è presente anche in casa nostra ma dopo le devastazioni del Novecento la consideravamo sepolta, inghiottita dall’abisso, invece adesso riemerge con prepotenza. Appare incontenibile, accompagnata dalla costante ricerca dei nemici più diversi. La risposta al perché del ritorno dei demoni è da rintracciarsi nella somma di diseguaglianze economiche, timori per i migranti, corruzione, burocrazia e infrastrutture fatiscenti che alimentano l’insicurezza collettiva, allontanano i cittadini dalle istituzioni democratiche e minano il legame con i valori della Repubblica declinati nella Costituzione.
Se una moltitudine di italiani il 4 marzo scorso ha votato per Movimento Cinque Stelle e Lega è stato proprio per chiedere sicurezza davanti ad una molteplicità di fattori che aggrediscono la vita delle famiglie e a cui i partiti tradizionali non sono riusciti a dare risposte convincenti. La sfida dunque, per la coalizione giallo-verde, è tentare di elaborare risposte strategiche a tali emergenze sfruttando il consenso popolare per varare le riforme necessarie al nostro Paese: un nuovo modello economico per battere le diseguaglianze, l’integrazione dei migranti per farne un motore della crescita, la rigida applicazione della legge per proteggere le famiglie, investimenti per le infrastrutture e lotta senza quartiere alla corruzione. Se intraprenderà la strada delle riforme il governo si guadagnerà sul campo il merito di aver dato un nuovo orizzonte al nostro Paese, se invece preferirà scagliarsi contro nemici vicini e lontani si assumerà la responsabilità del ritorno dei demoni. Il bivio è fra la scommessa su un futuro migliore e il ritorno al passato più buio. Fra fedeltà alla Costituzione e rincorsa degli istinti più pericolosi che albergano in ognuno di noi.

Corriere 2.9.18
Nuovi vertici ai Servizi segreti. Guardia costiera sotto esame
di Fiorenza Sarzanini

Già domani il governo avvierà la procedura per il cambio ai vertici dei servizi segreti. Via il direttore del Dis Alessandro Pansa e via il capo dell’Aise, l’agenzia per la sicurezza esterna, Alberto Manenti. Resta al suo posto il direttore dell’Aisi Mario Parente. Pansa e Manenti pagano la proroga dall’esecutivo di Gentiloni, e pagano soprattutto l’ostilità del ministro dell’Interno Salvini. E non è escluso che dopo il caso Diciotti, la nave bloccata per dieci giorni a Catania con 140 migranti, possa essere avvicendato il comandante della Guardia costiera, l’ammiraglio Giovanni Pettorino.
ROMA La decisione è presa. Già domani il governo Conte avvierà la procedura per il cambio ai vertici dei servizi segreti. Via il direttore del Dis Alessandro Pansa e via il capo dell’Aise, l’agenzia per la sicurezza esterna Alberto Manenti. Rimane invece al suo posto il direttore dell’Aisi Mario Parente, confermato appena prima dell’estate per altri due anni. Pansa e Manenti pagano il fatto di essere stati prorogati dall’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni il 7 marzo, tre giorni dopo le elezioni perse dal Partito democratico.
Ma pagano soprattutto l’ostilità del ministro dell’Interno e vicepremier Matteo Salvini. E infatti alcune indiscrezioni non escludono che — dopo il caso della nave Diciotti bloccata per dieci giorni a Catania con 140 migranti a bordo — possa essere avvicendato il comandante della Guardia Costiera, l’ammiraglio Giovanni Pettorino.
Il ministro Salvini assicura che «tutto è nelle mani di Conte», ma anche su questa partita Lega e Movimento 5 Stelle potrebbero dividersi. Perché il premier Giuseppe Conte ha avuto modo di apprezzare il lavoro di Pansa e non è escluso che possa decidere di chiamarlo a Palazzo Chigi nelle vesti di consulente.
Qualcuno addirittura ipotizza che il presidente del Consiglio possa nominarlo sottosegretario proprio con la delega ai servizi, ma su questo potrebbero pesare i veti incrociati e non è affatto scontato che Conte riesca a prevalere. Mentre potrebbe essere il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli a bloccare il cambio alla guida della Guardia Costiera, ribadendo che la linea fin qui seguita sul salvataggio dei migranti è imposta dalla legge.
Di certo c’è che le emergenze da affrontare sono numerose e richiedono competenze elevate. Prioritaria è la situazione libica e i rapporti di Tripoli con l’Italia. Non a caso tra i più accreditati come successore di Manenti c’è il suo vice, Gianni Caravelli — sponsorizzato dalla ministra della Difesa Elisabetta Trenta — sempre in prima linea proprio nella gestione delle trattative con il governo guidato da Al Serraj, ma anche nei contatti con il generale Haftar. Non è un mistero che il governo abbia evitato di negoziare con lui, proprio Salvini ha più volte dichiarato che «l’Italia tratta solo con i governi riconosciuti».
Una posizione che però difficilmente potrà essere mantenuta, tenendo conto che gli equilibri in Libia appaiono sempre più fragili e il nostro Paese ha necessità di avere buoni rapporti per difendere gli interessi economici delle aziende impegnate in quell’area e per il controllo dei flussi migratori.
Delicato e ancora pieno di incognite è anche il dossier egiziano. È stato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi il primo a incontrare il presidente Al Sisi e poi Salvini e l’altro vicepremier Luigi Di Maio sono stati al Cairo ma numerose sono le questioni sul tavolo e l’intelligence certamente gioca un ruolo fondamentale.
Nelle scorse settimane si è ipotizzato più volte che al vertice del Dis possa andare Elisabetta Belloni, segretario generale della Farnesina che ha certamente la competenza tecnica e politica per un ruolo così delicato .

La Stampa 2.9.18
“Non si governa con gli slogan
Noi con la Lega? Colpa di Renzi”
di Luca Ferrua


Niente ufficio al piano nobile di Palazzo Civico. Chiara Appendino, sceglie i giardini di via Alimonda nel quartiere Aurora, uno dei più difficili della città. Venti panchine, un parco giochi, un affollato campo da calcetto. Qui pochi residenti italiani (arrivati dal Sud per cercare lavoro negli Anni 70) e immigrati di seconda generazione combattono ogni giorno con i pusher che non smettono di lavorare mai. Già dalla scelta del luogo dove parlare la sindaca Cinquestelle di Torino vuole dare un segno: «Vede in questo spazio tra il campetto e il parco giochi ho portato mia figlia e ho giocato a pallavolo con le persone straordinarie del quartiere che quotidianamente montano la rete per riappropriarsi di questo spazio pubblico, con chi vive qui e i ragazzi strenieri che sfidano gli spacciatori».
La sindaca sa che quando parla di periferie a Torino si parla di stranieri e italiani e nuovi italiani: «Le periferie esistenziali, le periferie moderne, sono quel luogo dove una parte della città lotta per riappropriarsi degli spazi contro chi vuole impedirlo non rispettando le regole. Ed è qui che serve la presenza fisica delle istituzioni. Le periferie come i giardini Alimonda sono la vera emergenza del Paese, il governo deve tenerne conto e lavorare per ricreare il senso di appartenenza a un comunità».
Le periferie come emergenza da affrontare prima di tutto. Senza eccessi, senza slogan, senza estremismi come il daspo urbano, l’espulsione dei senzatetto dalla città che Torino non vuole utilizzare.
«Non utilizzerò mai il daspo per i senza fissa dimora: sarebbe certamente facile andare in tv a dire ho fatto il daspo, a sbandierare un foglio con una firma e a dire “li abbiamo cacciati” ma sarebbe solo uno scarico di responsabilità usando uno strumento non efficace. Non si governa con gli slogan».
Che cosa intende dire?
«Un sindaco o un governante deve costruire un rapporto di fiducia con la sua comunità, cercando di dare risposte concrete a tanti problemi anche, spesso, non di propria competenza».
Salvini e Di Maio sono i due leader di questo governo, lei da chi si sente rappresentata?
«Mi sento rappresentata dalla forza politica che mi sostiene. E non bisogna dimenticare che questo governo è frutto di una legge elettorale che non abbiamo scelto, ma anche dalla decisione del Pd di non voler fare il governo con noi. Ora tutti se lo dimenticano, ma quell’occasione Renzi l’ha avuta. Il governo comunque sta lavorando bene e io lavoro nell’interesse della Città con tutti i ministri».
Con i ministri ha parlato a lungo di Olimpiadi. È soddisfatta?
«No. Torino e le sue montagne erano la soluzione migliore, ma hanno prevalso altre logiche. Al momento siamo in attesa che il governo convochi i territori e le istituzioni interessate e faccia un’analisi costi benefici con criteri trasparenti e omogenei per ogni location. Quando parlo di costi intendo non solo quelli delle infrastrutture intesi come impianti ma anche quelli legati ai trasporti, alla sicurezza e in generale all’organizzazione dei Giochi che vedrebbe coinvolta un’area molto estesa».
La sua posizione sul Tav è un no convinto. La Lega non è della stessa idea?
«Nel contratto di governo c’è l’analisi costi-benefici delle grandi opere e il ministro Toninelli sta facendo un grande lavoro. È chiaro che una decisione netta deve essere presa perché se non la prendi perdi di credibilità sul territorio. Ma ho fiducia nel ministro».
Dentro il governo, sempre alla Lega, non è piaciuta la sua scelta sui riconoscimenti e le trascrizioni dei figli e delle figlie delle famiglie omogenitoriali”. La rifarebbe?
«Assolutamente sì, è stato uno dei momenti più significativi della mia vita da sindaca, uno di quelli in cui ti rendi conto che con le tue scelte puoi cambiare la vita delle persone. Stiamo tuttora trascrivendo e continueremo a farlo».
Quale priorità suggerisce al governo?
«Nel 2030 si stima che il 70% della popolazione mondiale vivrà nelle città. Le comunità urbane saranno sempre più protagoniste nell’affrontare i cambiamenti e nel rispondere ai bisogni: mobilità, lotta alla povertà, tutela dell’ambiente. In questo mi aspetto che il governo riconosca il ruolo centrale delle comunità locali. Progetti come reddito di cittadinanza, nuove normative per limitare gli orari di apertura dei locali che spesso generano bivacco e degrado nelle zone difficili delle città, protocolli comuni per le ztl e politiche per aiutare le città a combattere lo smog senza penalizzare i cittadini sono solo alcuni esempi».
Ma i 61 milioni che volevate da Renzi?
«Stiamo andando avanti, a giugno abbiamo avuto un altro giudizio favorevole. Speriamo che l’autunno possa essere il momento decisivo. Non si tratta infatti di una questione politica che appartiene a una forza politica specifica ma di un diritto dei torinesi».

Il Sole 2.9.18
In cerca di equilibrio
Democrazia liberale a rischio senza opposizione
di  Sergio Fabbrini


Continua da pagina 1
Non pochi cambiamenti sono in corso nella politica italiana. Il governo in carica afferma la sua discontinuità radicale dai governi precedenti. Il discorso pubblico è monopolizzato dal linguaggio dei leader dei due partiti che lo costituiscono. Tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini è in atto una concorrenza sfrenata per accrescere il rispettivo tasso di popolarità, oltre che per stabilire la tematica che il Paese deve considerare come prioritaria. Un sistema comunicativo senza precedenti, basato sulla mobilitazione dei social media e l’utilizzo di tecnologie sofisticate per la diffusione di immagini e messaggi, è al loro servizio. Un nuovo ceto politico populista, imponendo il proprio stile aggressivo alla discussione pubblica, ha accentuato la polarizzazione sociale. Chi non la pensa come chi governa, è un «cretino del pensiero unico» (nella migliore delle ipotesi) oppure un «servo del vecchio regime» (nella peggiore delle ipotesi). Si può comprendere che, osservatori europei e americani, si domandino se l’Italia stia diventando un regime illiberale. È una preoccupazione giustificabile? La mia risposta è che l’Italia sia diventata piuttosto una democrazia sbilanciata, anche se il suo sbilanciamento (se si cronicizza) può produrre esiti illiberali. Provo a spiegarmi.
Se la democrazia liberale è il regime politico in cui l’esercizio del potere di governo è circoscritto, allora non è plausibile sostenere che l’Italia di Di Maio e Salvini sia assimilabile alla Turchia di Erdogan o al Venezuela di Maduro.
Contrariamente a ciò che avviene in queste ultimi Paesi, chi governa, in Italia, continua a farlo all’interno di un sistema multiplo di controlli e bilanciamenti (la cui esistenza e legittimazione sono indipendenti dal governo stesso). È indubbio che Di Maio e Salvini siano impegnati a conquistare risorse e posizioni pubbliche con cui controllare il funzionamento di istituzioni importanti per il successo del loro governo, ed è indubbio che entrambi mostrino una scarsa (se non nulla) considerazione per le procedure dello stato di diritto interno o per gli obblighi derivanti dal rispetto del diritto esterno. Peraltro, la loro insofferenza verso quelle procedure (che impediscono di tenere le persone prigioniere in una nave militare italiana) o quegli obblighi (che richiedono di dare il nostro contributo al bilancio dell’Unione europea o Ue) è politicamente profittevole per entrambi. Alimentando il risentimento dei cittadini (contro gli immigrati, contro l’Europa), la loro popolarità cresce. Ciò nonostante, l’infrastruttura liberale del nostro sistema repubblicano continua a funzionare. Lo stato di diritto non è in pericolo, anche se è minacciato.
In pericolo, invece, è l’equilibrio tra i poteri politici. La nostra democrazia è sbilanciata perché manca il principale contrappeso politico del governo, l’opposizione parlamentare. Non si tratta, occorre ricordare, di un fenomeno recente. La storia della Seconda repubblica (dopo il 1992) è stata caratterizzata da governi senza opposizioni. L’assenza di opposizioni esterne aveva quindi favorito la formazione di opposizioni interne allo stesso governo o alla stessa maggioranza (Bertinotti contro Prodi, Fini o Tremonti contro Berlusconi, Bersani contro Renzi). Dopo il lungo periodo dell’opposizione ideologica che aveva connotato la Prima repubblica, l’opposizione è sembrata scomparire nella Seconda repubblica.
Tuttavia, dopo le elezioni del 4 marzo scorso, la questione dell’opposizione è diventata di più ingarbugliata. Sulla destra, Forza Italia non riesce a fare l’opposizione ad un governo costituito da un partito (la Lega) con cui è alleata in molti governi locali e regionali (e con il quale si era presentata alle elezioni parlamentari). Sulla sinistra, il Pd non sa se deve fare l’opposizione ad un governo costituito da un partito (Cinque Stelle) che ritiene sia stato votato da settori del suo elettorato. Forza Italia non spinge la sua opposizione per non interrompere i rapporti con la Lega e il Pd fa altrettanto per non compromettere una futura collaborazione con i Cinque Stelle. L’esito è che le due opposizioni sono internamente paralizzate, lasciando così un grande spazio di manovra a chi governa.
Di qui lo sbilanciamento della democrazia italiana. L’opposizione è pre-emptied, svuotata ancora prima di formarsi. E continuerà ad essere paralizzata fino a quando le sue componenti non riusciranno a cambiare il loro schema di riferimento. Il riequilibrio politico della democrazia italiana non può avvenire attraverso una “nuova sinistra” mobilitata contro un “governo di destra” (versione Pd) o attraverso una “nuova destra” mobilitata contro un “governo di sinistra” (versione Forza Italia). Quel riequilibrio sarà possibile quando le opposizioni si renderanno conto che sinistra e destra sono categorie politiche poco utilizzabili per definire il governo Di Maio/Salvini. Quel governo persegue un programma sovranista che, in quanto tale, può anche includere posizioni tradizionalmente di destra (rispetto all’immigrazione o all’uso privato delle armi) o di sinistra (rispetto al lavoro o alle pensioni). Un programma sovranista che può condurre (se incontrastato politicamente) all’indebolimento dell’infrastruttura liberale della nostra repubblica. Dopo tutto, se si continua a delegittimare le leggi che ostacolano il conseguimento di un obiettivo politico (“chiudere i porti italiani”, ad esempio), e nessuno avanza proposte alternative nel quadro di quelle leggi, allora la democrazia illiberale finirà prima o poi per attecchire.
Insomma, il problema della democrazia italiana è l’assenza di una opposizione politica al governo sovranista. L’opposizione è necessaria per creare le condizioni di un confronto pubblico nel merito delle politiche proposte o perseguite, così circoscrivendo il populismo del governo e il moralismo dell’anti-governo. L’opposizione è una istituzione della democrazia, prima ancora che una forza partigiana. Come ha spiegato più di mezzo secolo fa Robert Dahl, tutti i regimi politici hanno un governo, ma solamente le democrazie liberali hanno anche un’opposizione. I cambiamenti che stanno attraversando l’Italia hanno fatto nascere un nuovo governo. Occorre che facciano emergere presto anche una nuova opposizione.

il manifesto 2.9.18
Martina lancia la sua piazza
Pd. Il segretario fissa in solitudine la data del 29 settembre e chiama il partito alla mobilitazione contro il governo. «E' una tappa essenziale del nostro lavoro», spiega, mentre a Cortona, in casa della corrente di Franceschini, si apre ufficialmente la corsa al congresso del 2019
di Domenico Cirillo


Una manifestazione per rianimare il Pd. «Tappa essenziale del nostro lavoro», la presenta così il segretario Maurizio Martina. E lancia la «sua» data del 29 settembre, prescindendo o ignorando le indicazioni già emerse dal mondo sindacale e delle associazioni (come l’«avviso ai naviganti» del nostro giornale, il manifesto di Cgil, Arci, Anpi e Libera di qualche giorno fa). Una via autonoma alla piazza che viene già irrisa dal Movimento 5 Stelle. «Si troveranno in pochi intimi», dichiara sprezzante un sottosegretario M5S (Di Stefano), ma Martina non nega che la mossa – «una chiamata a raccolta» – serva innanzitutto al Pd: «Dobbiamo battere un colpo sui valori e i principi».
La tre giorni di dibattito organizzata a Cortona dalla corrente di Franceschini, Areadem, apre il percorso congressuale del Pd. Non c’è ancora una data – dovrebbe essere prima delle prossime europee, tra febbraio e marzo -, c’è in campo per il momento un solo candidato, Zingaretti, ma le opposte anime del partito aspettano tutte il congresso come il momento della rivincita. Martina, segretario con i voti dei renziani, proprio a Cortona ha incontrato Zingaretti: sull’idea della manifestazione non ha trovato obiezioni.
Il Pd eviterà di caratterizzarla troppo in chiave anti Salvini e pro accoglienza, anche se quello era il senso del recente e fortunato presidio di Milano al quale il partito aveva poi aderito e che pure viene richiamato da Martina come «un segnale chiaro che va colto». Sull’immigrazione il segretario non può certo invertire la rotta del Pd renziano e minnitiano dell’«aiutiamoli a casa loro», della lotta alle ong e del recinto libico. La manifestazione dunque, seppure contro «il governo dell’odio», si allarga ad altri temi. Uno soprattutto: il tradimento di Di Maio e soci delle politiche filo europee dell’Italia. Il 29 settembre arriverà nel pieno della discussione sulla legge di bilancio, il rischio che impostata in questo modo possa diventare una forma di assit alla linea Tria non può escludersi.
Del resto il gruppo dirigente ancora renziano vede malissimo qualsiasi scostamento dalla linea euro-entusiasta. È bastato che Zigaretti avanzasse qualche dubbio sul modello Macron per scatenare i renziani. Arrivati a un passo dal dare del grillino al presidente della regione Lazio, tantopiù che secondo lui non è eresia provare a sganciare qualche 5 Stelle dall’abbraccio con Salvini.
Persino un dialogante come l’ex braccio destro di Renzi, Guerini, ha scagliato a Cortona la sua freccia. «Va bene il campo largo – ha detto – ma non troppo. Un ubi consistam tra Macron e Mujica dovremo pur trovarlo». Obiettivo della stilettata più Martina che Zingaretti: tre giorni fa alla festa del partito il segretario ha distesamente dialogato con l’ex presidente guerrigliero dell’Uruguay (che poi ha incontrato Grillo). Del resto Martina -«grazie per il lavoro di preparazione al congresso», gli ha detto di nuovo tagliente Guerini – non vuol restare indietro nella corsa a presentarsi come nuovo. Attacca così un totem del Pd: le primarie. «Ci siamo cullati sugli allori pensando che potessero colmare la funzione democratica di un partito che si metteva a costruire nuova partecipazione, ma la discussione sulle primarie è diventata una gabbia più che un’opportunità. Era una novità, ora non lo è più». Fumo negli occhi per i renziani. «Le idee devono camminare sulle gambe di una leadership legittimata dal popolo», dice ancora Guerini.
Martina risponde di no all’ipotesi del cambio di nome al partito – «l’esperienza del Pd non è conclusa» – che invece Zingaretti non esclude. Ma dice che «dobbiamo mettere in discussione tutto del nostro impianto ideale». A partire dalla carta dei valori: «Quella della fondazione del Pd è vecchia». Per il segretario in carica la stagione maggioritaria può dirsi archiviata, del resto i numeri del partito sono quelli che sono. Parla la di alleanze, non solo a livello di formula, «centrosinistra», ma anche spiegando che «dobbiamo lanciare messaggi a una condivisione del lavoro nel campo progressista più largo». Soprattutto «la questione fondamentale è ricostruire i caratteri della prossimità, i problemi delle persone. Anche fisicamente, perché è tornata di attualità la necessità della presenza fisica». Perché su una cosa le varie anime del Pd sono d’accordo: se non ci fossero i social sarebbe tutto più facile. Se a Cortona si sono incontrati, su twitter hanno continuato a scontrarsi.

Repubblica 2.9.18
Un fronte democratico per battere i populisti
Razzisti contro antirazzisti, populisti contro antipopulisti. Ma in realtà non è così, né in Italia né in Europa
di Eugenio Scalfari


Razzisti contro antirazzisti, populisti contro antipopulisti. Ma in realtà non è così, né in Italia né in Europa.
I problemi e la loro soluzione sembrano diversi a seconda dei due campi in cui si gioca, ma di fatto sono gli stessi, almeno per quanto riguarda noi italiani e il nostro governo gialloverde: i partiti che compongono l’esecutivo vogliono che l’Ue ci aiuti economicamente, sperano che in Europa vincano quelle forze che hanno deciso di alzare i muri contro l’immigrazione, vogliono che si rafforzi il sovranismo delle singole nazioni e puntano sull’alleanza dei nazionalisti con chi condivide queste finalità. E qui, per esempio, sta l’alleanza di Matteo Salvini con Viktor Orbán, con la Polonia e con tutti i Paesi che desiderano essere liberi di scegliere la moneta che più torna utile ai loro interessi.
Allo stato dei fatti queste finalità cominciano a essere realizzate dal nostro Salvini, il quale ha dimenticato di essere ministro dell’Interno in Italia e sta diventando una sorta di ministro degli Esteri in Europa. Il capo della Lega ignora o addirittura disprezza Bruxelles come sede dell’Unione. Lui vede l’Europa in tutt’altro modo e l’esempio più recente e più probante è la sua alleanza con il leader ungherese Orbán. Ce ne sono più d’uno come lui, a cominciare dalla Polonia e in tutti quei Paesi che hanno rifiutato la moneta comune europea e hanno preferito tenersi la propria. Potenzialmente Salvini tende a realizzare un’alleanza generale con tutti questi Stati, i quali a loro volta sentono una evidente simpatia per il nuovo zar della Russia, Vladimir Putin.
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segue dalla prima pagina
Il suo rapporto è particolarmente intenso con Salvini e la ragione è chiara: a differenza degli altri Orbán, Salvini dispone in questo momento dell’Italia. È lui che la governa, sia pure con l’alleanza, oscillante come consistenza e come intenzioni, guidata all’altro capo da Luigi Di Maio. Il governo italiano attuale conta su quasi il 70 per cento delle intenzioni di voto, come rilevato dai sondaggi. Questo può interessare molto a Putin, che sta cercando di ampliare i confini dell’impero russo al Sud, appoggiandosi soprattutto ad Assad e avendo messo basi militari che arrivano alle coste orientali del Mediterraneo.
Se il suo accordo con Salvini supera le questioni generali europee e si concentra anche in quelle mediterranee, un’alleanza tra loro porterebbe la Russia al centro del Mediterraneo, facendo di Salvini il suo appoggio più efficace. Naturalmente il potere del leader del Carroccio a questo punto sarebbe decuplicato: non solo una forte presenza in Europa, ma una sorta di delega da parte della Russia nel Mediterraneo. L’Italia razzista e populista diventerebbe molto più forte diplomaticamente e politicamente, a livello di Macron e Merkel. Che Dio l’abbia in gloria. Ma gli italiani la pensano tutti così?
***
In Italia ci sono molti elettori assenteisti. Fino a qualche tempo fa votavano spesso per il Pd. Adesso non lo votano più, ma fanno una scelta tra i partiti esistenti e molti di loro hanno dato la preferenza ai pentastellati di Di Maio. Altri ancora, il giorno del voto, hanno deciso di far vacanza.
E il Pd? Fino al 3 marzo — prima del voto — credeva di essersi assestato intorno al 40 per cento. Il 4 marzo ha invece incassato non più del 19 per cento. Da qualche esame approfondito risulta che questo dimezzamento del Pd è andato in parte a favore del partito di Di Maio e in parte anche maggiore è finito nell’astensione.
Nei giorni scorsi Walter Veltroni ha scritto su questo giornale un articolo molto ampio, che esamina la situazione italiana con grande attenzione tenendo presente la storia del passato, la situazione del presente e la speranza del futuro. Veltroni vede le difficoltà e le ha ampiamente denunciate, ma vede anche la possibilità di superarle e lo spiega. Per quanto mi riguarda, ho scritto il giorno dopo sul nostro giornale un articolo in cui dicevo di essere totalmente d’accordo con l’amico Walter. Sarà bene a questo punto esaminare nel modo più approfondito possibile questa situazione.
I cittadini italiani sono, almeno a partire dal 1948, un popolo democratico. Avevano subito una dittatura, una guerra, una sconfitta, un Paese semidistrutto. Ma poi ci furono sentimenti di risveglio e un popolo che si scopriva, appunto, decisamente democratico. Una massa con sentimenti religiosi uniti alla libertà politica e un’altra massa di comunisti e socialisti, animati anch’essi dall’amore per la libertà e l’eguaglianza. Questa umanità politicamente duplice ma sostanzialmente alleata sugli stessi valori vedeva un’Europa con la quale confrontarsi e in futuro unirsi. Naturalmente ciascuno viveva nella propria famiglia, nel proprio territorio, con la propria occupazione (quando c’era).
Nelle fasi di economia debole il fenomeno della disoccupazione era molto rilevante e arrivava a due milioni di persone, soprattutto nei latifondi meridionali. Quando invece l’economia tirava, la disoccupazione si attestava su livelli modestissimi.
Guido Carli, governatore proprio in quegli anni della Banca d’Italia, parlò del «miracolo italiano » . Era il 1955 quando quel miracolo ebbe inizio, con un’ondata di emigrazione dal Sud al Nord, dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria. I fenomeni successivi sono ben noti: il triangolo industriale inizialmente fondato su Torino-Genova-Milano, che poi si spostò. Siamo così agli ultimi trent’anni del Novecento e nacque allora il " Sessantottismo", una generazione nuova che diventò un fenomeno di massa dei giovani studenti e degli operai. Questo movimento dette anche luogo a una minoranza estremamente violenta che culminò con le Brigate rosse e l’assassinio di Aldo Moro. Insanguinarono il Paese per oltre dieci anni, ma poi per fortuna scomparvero. Il "Sessantottismo" diventò l’Italia moderna, europeista, divorzista, filo-americana. Da allora, dopo infiniti cambiamenti, il nostro è diventato un Paese diviso in due spazi: la destra razzista, in un mondo dove i popoli poveri tentano di trasferirsi nei Paesi più ricchi e i razzisti che fanno di tutto per ributtarli a mare; la sinistra democratica che vuole investire le proprie attività per fugare l’estrema povertà in casa e fuori casa, nell’Est europeo e in Africa. Questa era la sinistra.
Ma il Partito democratico nel frattempo è molto decaduto. Ora sta cercando di riprendersi. Se ci riuscirà, nelle prossime occasioni elettorali potrà guadagnare tra il 3 e il 4 per cento, arrivando nel caso migliore al 25 per cento: una discreta minoranza, ma senza alcuna vera funzione di fronte al governo gialloverde, che arriva nella sua completezza quasi al 70 per cento delle intenzioni di voto. È questa la consistenza dei democratici italiani? Un ipotetico 70 per cento che governa contro un 25 che sta a guardare?
In realtà i democratici sono molti di più. La democrazia italiana ha come padri fondatori De Gasperi, Nenni, Berlinguer. Bastano questi tre nomi a definire quella che è stata l’Italia moderna e laica. Rifacendosi a quel passato prossimo, i democratici italiani non valgono meno del 40 per cento, ma bisogna svegliarli, mobilitarli indipendentemente dal fatto che rientrino nel Pd. Possono creare un movimento che comprenda anche il partito ma vada oltre, che si estenda a tutti coloro che hanno scelto i valori di libertà e di eguaglianza. Con il conseguente indebolimento dei Cinque Stelle, che hanno a loro tempo pescato molto in quella parte degli elettori disgustati dal proprio partito d’origine. Un movimento che mobiliti percentuali simili di elettori può rappresentare addirittura la maggioranza del Paese.
Mi rendo conto che sono valutazioni opinabili, ma certamente non prive d’un principio di realtà storica. Un Paese come l’Italia, l’esperienza del suo passato, l’attività nel suo presente e la speranza del suo futuro le rendono valutazioni attendibili. Mi vengono in mente — e con questo concludo — i versi iniziali d’un canto che aprì le porte al futuro della democrazia: la Marsigliese.
«Allons enfants de la Patrie Le jour de gloire est arrivé!
Contre nous de la tyrannie L’étendard sanglant est levé!» È un canto antico, ma è un canto anche nostro.

Repubblica 2.9.18
Cambiare nome, psicopatologia della politica
La tentazione dem e il dramma del 1989
Dal vecchio Pci al nuovo Pd quando cambiare nome è la scorciatoia della politica
di Filippo Ceccarelli


Nella ricorrente, furba e illusoria psicopatologia del cambio di nome, una roba tutta italiana che va avanti ormai da trent’anni, non è tanto importante procedere all’effettivo mutamento di denominazione, ma stare lì a discuterne per quanto più tempo è possibile nel giro stretto delle oligarchie di partito, che in genere sono morte, ma così almeno si sentono di vivacchiare. La commedia serve solo a rinviare il senso della fine di un ciclo, di un’epoca, di un sistema.
Perché i nomi dei partiti non nascono come un ghiribizzo della storia, tantomeno come un prodotto del marketing o una pensatona di qualche aspirante leader: venivano dal basso, passavano di bocca in bocca, liberavano energie producendo credenze, simboli, sentimenti, rituali, parole, musiche e cultura. Ma ora?
Il Pd vuole cambiare nome. Ah, ancora una volta? E infatti nessuno dei vari novatori ribattesimali si azzarda a dire come dovrebbe chiamarsi l’ex Pd per paura che inizi il tiro al piccione, comunque rinviato alla fase 2, quella appunto inevitabile del dileggio (deformazione delle sigle, cacofonie, storpiamenti, barzellette). Mentre la fase 3 vede di norma consegnare l’iter al dominio terminale della confusione, i nomi di oggi, di ieri e dell’altroieri aggrovigliandosi e mischiandosi fino a quando nessuno capisce più niente.
Il guaio, come al solito, è che l’esperienza e la memoria non insegnano nulla ai protagonisti, col risultato che dall’esterno tutto appare più misero, degradato, al limite più buffo, ma anche più pericoloso perché quando i processi si ripetono e si ripetono e si ripetono prendendo questa piega straniante, è sintomo di spappolamento.
Nel 1989 (novembre) cominciò a cambiare nome il Pci, l’antenato del Pd, ma erano anni che alle Botteghe oscure ci giravano intorno. Dalla Bolognina in poi Occhetto riuscì a essere insieme confuso e determinato e dopo aver sottovalutato l’impatto della faccenda con l’aggravante di non avere soluzioni pronte (gli sarebbe piaciuto qualcosa come Comunione e liberazione, ma purtroppo esisteva già), si rifugiò nell’argomento: "Prima la Cosa e poi il nome".
Mal gliene incolse. Per un tempo interminabile quella doppia e vuota genericità si riempì prima di rabbia e sfiducia e odio, poi di lazzi, frizzi e cachinni, dall’evocazione francofona dell’organo sessuale femminile, la "Chose", fino al film horror "The Thing", di Carpenter, uscito un paio d’anni prima della Svolta. Ciò nonostante, fu l’ultima grande e vera narrazione corale nella vicenda politica italiana, centinaia di migliaia di persone che dal basso si misurarono con se stessi e con i compagni ancora convinti di poter cambiare, con la realtà, ciò che la connotava.
E comunque nacque il Pds. Dopo di che, primavera-autunno 1998, D’Alema lanciò "la Cosa 2", e con tale promettente reiterazione nacquero i Ds, Democratici di sinistra, "o come si chiama", così Veltroni salutò la nuova formazione pochi giorni prima di assumerne la guida.
Già a quel punto, onestamente, era difficile prendere sul serio la questione del nome, anzi dei nomi. Dalla Dc erano germinati il Ppi e altri impronunciabili partitini, Cicidì, Cidiù cui la fantasia di Cossiga e Mastella vollero aggiungere l’Udr e l’Udeur, e Sua Maestà il tempo l’Udc. Dal big bang del Psi vennero fuori, sibilanti, Si e Sdi, poi certi laburisti, un qualche Ps riformista e un nuovo Psi. Senza troppo cambiare, il Msi si fece An. E Rifondazione si sdoppiò in Pcdi, e molto dopo in Sel. Fra vendette a vuoto, congiunzioni improvvide e scorciatoie per l’inferno a un dato momento vennero fuori anche i Democratici e poi la Margherita.
Sull’Italia dei Valori di Di Pietro e i recenti impicci che spingono la Lega nel club dei nomi posticci, sarà bene imporre al racconto un salutare stop.
La friabile materia, del resto, e le sue peripezie parlano da sé e in buona sostanza dicono che la Seconda Repubblica - al culmine della quale Berlusconi per scherzo ma fino a un certo punto ondeggiava tra "Forza Silvio" e "Forza Gnocca" - si affollò di sigle, nomi e partiti bislacchi, arronzati e bastardelli per non dire figli di nessuno, ma con Pantheon strepitosi.
In tale contesto e in tale temperie, l’anno è il 2007, venne al mondo il Pd. Era ormai troppo tardi, ma tutti fecero finta di niente. Tutti-tutti per la verità, no. Fra le eccezioni, i reverendi Padri de La Civiltà cattolica, che notoriamente vedono lungo; e poi uno scrittore per nulla addetto ai lavori, Guido Ceronetti: "Di per sé, partito democratico ha la consistenza di un enorme vento di chiacchiere in astratto, che la realtà sta a guardare stupefatta da tanta capacità italiana di emetterne ragionandoci sopra all’infinito, ma ‘sotto la maschera un vuoto’.
Lo stesso nome, partito democratico, denuncia assenza cronica d’immaginazione: nell’evolversi del linguaggio non regge più partito, ancor meno regge democratico, un barile di Nutella...".
Non sarà il cambio di nome, adesso, a ridare vita e sapore al Nutellone.

Repubblica2.9.18
Verso il congresso del Pd
Gli anti-Renzi frenano Martina "Un errore se sfida Zingaretti"
A Cortona Franceschini tesse la candidatura unitaria: "Per vincere serve buonsenso"
Consensi al corteo del 29, il segretario replica alle ironie dei 5S: "Nervosi e arroganti"
di Giovanna Casadio


Roma Vorrebbe vederli insieme, Dario Franceschini. Perché « il candidato alla segreteria deve essere uno, questione di buonsenso, senza divisioni nella stessa area » . Nicola Zingaretti e Maurizio Martina non devono quindi correre l’uno contro l’altro alle primarie del Pd che decideranonuovo leader. Se i Dem non si vogliono perdere e morire, se puntano a costruire una alternativa e ad archiviare Renzi, allora per l’ex ministro dei Beni culturali la strada è una: «Stiamo insieme».
Proprio ieri Dario Franceschini a Cortona ha cercato di dissuadere Zingaretti e Martina dal candidarsi entrambi alle primarie per la segreteria dem in una disfida che avrebbe come unico effetto di fare vincere il candidato renziano. Candidato che per la verità i renziani ancora non hanno trovato. Ma sperano sempre in Graziano Delrio, la figura più popolare nelle loro file. Nel complicato puzzle del Pd, oltre alle fibrillazioni sul nome del partito– cambiarlo oppure no – è già sfida tra i leader.
In campo per ora, annunciando la sua candidatura, c’è soltanto Zingaretti, il governatore del Lazio, con una sua piattaforma alternativa al renzismo. Però Martina, il segretario dem, scalda i motori. A Cortona, dove, dopo anni, ha riunito la sua corrente Areadem, Franceschini ha invitato a pranzo entrambi, Zingaretti e Martina insieme con Piero Fassino. L’ex ministro cerca di compattare un fronte non-renziano e di accelerare congresso e primarie.
La preoccupazione tra i Dem è forte per l’egemonia delle destre. Marco Minniti, ex ministro dell’Interno, avverte che c’è uno « slittamento democratico » : « Noi abbiamo avuto una discussione molto impegnativa dopo il 4 marzo, forse andava fatta un po’ più stringente sulle ragioni della sconfitta. La sconfitta è stata durissima forse la più drammatica, per me è una sconfitta persino più dura di quella del 1948».
Tra i franceschiniani molte simpatie vanno a Zingaretti. Lo sostiene chiaramente Luigi Zanda: «Coraggiosa la candidatura di Zingaretti va apprezzata ». Altri hanno qualche remora, punterebbero piuttosto su Paolo Gentiloni, come il siciliano Giuseppe Lupo. Martina rivendica il lavoro che sta facendo. Difende il nome del Pd («Non partiamo dal cambio del nome»), ma propone un nuovo statuto del partito e un dibattito sulle primarie che « erano una opportunità ora sono diventate una gabbia». Il segretario dem ha lanciato una manifestazione « contro il governo dell’odio» il 29 in piazza del Popolo a Roma. Arrivano le adesioni delle associazioni, con qualche perplessità dentro il partito e lo scherno dei 5Stelle per i quali « sarà una manifestazione per pochi intimi » . « Sono arroganti, forse sono agitati » , reagisce Martina. I leader dem ci saranno tutti, Renzi incluso. Walter Veltroni boccia il dibattito sul nome: «È surreale».
Lo scontro nel Pd è acceso. Lorenzo Guerini, ex coordinatore del Pd di Renzi, ora presidente del Copasir , ironizza: « Dobbiamo fare un congresso anche per trovare un punto di equilibrio tra Pepe Mujica e Emmanuel Macron. È vero che abbiamo l’ambizione di costruire un’area larga, ma insomma non dobbiamo esagerare». Il riferimento è alla polemica aspra dei renziani contro Zingaretti. Il governatore aveva detto che Macron e il suo partito non sono il modello del Pd che vuole, anche se un’alleanza in Europa con Macron per battere i sovranisti è indispensabile. Apre tuttavia sul cambio del nome. Che è però l’ultimo dei problemi per il Pd, secondo Gianni Cuperlo. Si rincorrono nomi di altri possibili candidati, dal renziano Roberto Giachetti a Simona Bonafè e Teresa Bellanova.

Repubblica 2.9.18
Spike Lee
"Oggi sembra di leggere il libro dell’odio È la parte sbagliata della Storia”
“La destra sta risorgendo, e non solo negli Usa”
intervista di Arianna Finos


«God bless you». A 61 anni Spike Lee si è fatto meno spigoloso e più sorridente, almeno fuori dallo schermo. Il suo BlacKkKlansman, poliziottesco anni Settanta che racconta il razzismo dell’America di Trump, ha incassato il Grand Prix a Cannes e arriva in sala il 27 settembre. Alla Mostra di Venezia ha tenuto una masterclass ed è stato protagonista di un botta («non andrei a cena con Salvini») e risposta (su Twitter) del ministro: «è arrogante e non ha niente di meglio da fare che parlare di me».
La polemica non gli guasta l’appetito, durante l’intervista al piano terra dell’hotel Excelsior il cineasta divora due coppe giganti di tiramisù. Se si torna sull’argomento prima dice che «non è una cosa personale contro di lui, è un ragionamento», spiega che parlare del potere è il compito di un regista: «È questo il tema del mio film, BlacKkKlansman non parla solo del Ku Klux Klan. Ciò che succede non solo in Usa e in molti altri paesi è il risorgere globale della destra: lo vediamo in Francia, in Gran Bretagna con la Brexit, in Usa con Agent Orange (Trump, ndr). Ovunque. Lo slogan , il mantra comune è "colpa degli immigrati". C’è criminalità?
Non trovi lavoro? La cultura non è quella di una volta? Colpa degli immigrati. Prendiamo gli Usa e questa idea di costruire il muro.
Ma come si può dire al Messico costruisci il muro? Va a quel paese, questo può risponderti il Messico. E oltre al muro: separare le famiglie, strappare i figli dal seno della propria madre, non consentire di tenere traccia di dove vanno a finire dando loro la possibilità di ricongiungersi. Tutte queste manovre sono una tattica, la stessa usata dalla Germania di Hitler contro gli ebrei. È come leggere capitoli dello stesso libro, che poi è il libro dell’odio. Le persone che hanno avviato questo percorso, una volta concluso, si ritroveranno dalla parte sbagliata della storia».
Non era facile raccontare il Ku Klux Klan facendo anche ridere.
«Ci sono illustri precedenti, penso a Stanley Kubrick e Stranamore: cosa c’è di più serio di un olocausto nucleare? Eppure ecco Peter Sellers con i due ruoli assurdi che ti fa morire dal ridere (qui mima la scena con Sellers che cerca invano di reprimere il saluto nazista, ndr). L’importante è trovare l’equilibrio tra gli elementi e in questo mi aiuta il montatore, lo stesso di Fa’ la cosa giusta e
Malcolm X. È come un piatto di cucina, devi mescolare bene gli ingredienti, se eccedi in qualcosa te lo rimandano indietro: serve l’equilibrio giusto. E poi io non amo i film lineari, mi piace deviare, metterci tante cose dentro. Sennò mi annoio».
Lei è considerato un punto di riferimento della new wave di registi afroamericani, da Ryan Coogler a Ava DuVernay...
«Sono felice che ci sia una nuova generazione, che questi registi abbiano modo di raccontare le loro storie. Fino a non molto tempo fa noi afroamericani venivamo visti come un insieme indistinto, come se non avessimo personalità e talenti diversi. Ci mettevano nella scatola del pensiero unico black. La verità sta venendo fuori. Black Panther, Moonlight, Get out hanno cambiato la percezione del mondo. Non farò mai un film sui supereroi ma ho visto tre volte Black Panther. E il successo di quel film cambia le regole: prima c’erano budget piccoli perché, ci dicevano, "gli afroamericani non incassano oltreoceano". C’era il successo di Denzel Washington e Samuel L. Jackson "ma i soldi si fanno solo quando c’è la star". Il film di Ryan Coogler ha azzerato tutto questo: ora, miei cari, le vecchie regole potete buttarle nella spazzatura, tutto cambia».
Dopo il discorso di Asia Argento a Cannes lei fu l’unico a ringraziarla. Pensa che le ultime vicende cambieranno il destino del movimento MeToo?
«Non sono in grado di commentare i fatti recenti, non so se Asia sia colpevole. La cosa non aiuta il movimento, ma so che andrà avanti. Perché non cambia il fatto che le donne sono sempre state cittadini di serie b. Quel suo discorso a Cannes sembrava uscito dal cuore, e mi ha commosso. Ha avuto fegato, Asia, e a fine della cerimonia l’ho cercata per dirle: "Grazie, sei stata coraggiosa"».
La sua fiamma creativa e politica è sempre viva.
«Perché amo quel che faccio».
Anche da ragazzino aveva questa personalità e la voglia di fare il regista?
«Mi dia il suo notebook e la penna.
(Si mette a scrivere ndr). A scuola invece di badare a quel che si diceva in classe facevo pratica di autografi, non sapevo ancora perché, ma ero sicuro che un giorno mi sarei ritrovato a firmarli. Se non avessi fatto il cinema forse avrei fatto il giocatore di baseball.
Comunque ricordo questi interi quaderni che in classe riempivo di firme facendo pratica (ride)».
Una bella sicurezza di sé.
Com’era il rapporto con sua madre?
«È morta che avevo 26 anni. Era un’insegnante. Una cinefila. Mio padre invece amava lo sport e odiava il cinema. L’amore per lo sport l’ho ereditato da papà, quello per il cinema da mamma.
Ogni volta che vedo Scorsese gli dico: "Martin, il primo film che mia madre mi ha portato a vedere al cinema è stato Mean Streets. E lui risponde "ma perché cavolo ti ha portato a vedere proprio quello?…Me lo ricordo come fosse oggi». – Ari. Fi.

La Stampa 2.9.18
“In Libia non ci sono le condizioni di sicurezza
Le elezioni di dicembre devono essere rinviate”
di Paolo Mastrolilli


«In Libia non ci sono le condizioni per tenere le elezioni a dicembre. Il momento verrà, ma dovranno deciderlo i libici. La conferenza che stiamo organizzando avrà proprio lo scopo di creare il contesto più inclusivo possibile».
La nuova ambasciatrice italiana all’Onu Mariangela Zappia, prima donna a ricoprire questo incarico, arriva al Palazzo di Vetro dopo essere stata rappresentante alla Nato, e consigliera diplomatica di tre premier, Renzi, Gentiloni e Conte. Poche persone hanno una conoscenza profonda e diretta dei dossier più delicati come lei.
Perché dicembre è troppo presto per votare in Libia?
«L’Italia, come l’Onu, condivide un percorso che porta alle elezioni. C’è una data, il 10 dicembre, stabilita a Parigi in un contesto particolare. L’Italia sarebbe felicissima di rispettarla, ma preferiamo considerarla un obiettivo, certamente non in maniera prescrittiva. Se non ci sono le condizioni è difficile tenere il voto. Gli eventi degli ultimi giorni mostrano quanto complesso sia il quadro libico. Per fare le elezioni ci vuole un impianto legislativo e un contesto, cioè la sicurezza di chi vota e chi fa campagna. Queste condizioni per ora non mi pare ci siano».
Le urne le vuole la Francia per rafforzare Haftar?
«Forse c’è un modo diverso di vedere le cose, magari perché noi conosciamo la Libia più approfonditamente, e pensiamo che sia necessario dare ai libici il tempo per strutturarsi. Una spinta da fuori per mettere insieme gli attori, come ha fatto la Francia a Parigi, può essere utile, però alla fine sono i libici che devono decidere. E tutti. A Parigi ce n’erano quattro rilevanti, ma non completamente rappresentativi del contesto libico».
Perché avete deciso di organizzare una conferenza in Italia?
«Alcuni chiedono se si tratta di Parigi 2. A me piacerebbe uscire da questa idea che Roma e Parigi sono assolutamente contrapposte sulla Libia. La nostra conferenza sarà un altro passo, che vogliamo più inclusivo, tanto delle componenti libiche, quanto dei Paesi interessati a livello regionale e internazionale. Speriamo serva a creare le condizioni per il voto. L’obiettivo finale sono elezioni libere in cui i libici scelgano il governo che vogliono».
Qual è il percorso per arrivarci?
«Parliamo con tutti i libici, da sempre una nostra prerogativa. C’è un governo legittimo, e lo sosteniamo, ma discutiamo con tutti gli attori locali e regionali. Abbiamo ripreso un dialogo serio con l’Egitto, e con chiunque abbia una voce in Libia, come Iran, Qatar, Turchia. Poi parliamo con Russia, Usa e partner europei. Cerchiamo di essere più inclusivi possibile per creare il contesto, ma il nodo di tutto questo sforzo resta il piano Onu».
Fonti del Consiglio di Sicurezza ci hanno detto che il voto a dicembre serve solo ad Haftar, e provocherebbe nuove violenze.
«In questo momento è difficile considerare la Libia come un posto dove puoi tenere elezioni pacifiche e libere. Non voglio dare l’impressione che l’Italia sia contraria a priori. Il momento deve venire, ma devono sceglierlo i libici. Devono esserci un contesto di sicurezza, e un quadro giuridico e legislativo, che permettano il voto. Al momento secondo noi non ci sono».
Il 30 luglio scorso lei era alla Casa Bianca con il premier Conte. Perché Trump, che è stato invitato alla nostra conferenza, ha riconosciuto la leadership italiana sulla Libia?
«Penso che abbia riconosciuto il ruolo storico dell’Italia e la conoscenza del Paese, ma anche un equilibrio nel trattare la questione, sulla quale alcuni pensano che siano stati commessi errori gravi nel recente passato. Ma è molto importante che abbia riconosciuto Roma come interlocutore privilegiato nell’intera regione. La Libia è una situazione complicata, in un contesto già complesso, dove la cooperazione con l’Italia è importante per gli Usa sotto vari aspetti, dai traffici degli esseri umani alla lotta al terrorismo. C’è un concetto più esteso di stabilità».
Quindi gli Usa temono che la Libia diventi la nuova base dell’Isis, del terrorismo, e del traffico di esseri umani?
«Penso di sì. Ma aldilà di queste sfide specifiche, che esistono, c’è il riconoscimento che bisogna creare zone di stabilità diffusa. La collaborazione nella lotta all’Isis è già forte, ma finché hai un buco nero come la Libia è difficile creare stabilità».
L’offensiva su Idlib provocherà una nuova ondata di rifugiati?
«Non so se i numeri sono i tre milioni di cui si è parlato, e se si dirigeranno tutti dalla Turchia in Europa, ma il rischio c’è. Lo abbiamo già vissuto nel 2015, bisogna fare molta attenzione».

il manifesto 2.9.18
Prova di forza dei neonazisti In migliaia alla contro-demo
La contromanifestazione antifascista a Chemnitz
di Sebastiano Canetta


BERLINO La seconda «calata» dei filonazisti a Chemnitz sette giorni dopo la caccia allo straniero che ha sconvolto la città sassone. Con l’argine delle forze dell’ordine, stavolta concentrate in forze, e il «cordone sanitario» di 3.500 antirazzisti scesi in strada per impedire la replica del pogrom contro i migranti. Due cortei contrapposti tenuti a debita distanza: l’unico contatto è coinciso con la breve scaramuccia tra uno spezzone di militanti antifa e la polizia cui è stato gridato: «Dove eravate la settimana scorsa?».
TUTTO DOPO CHE LA SASSONIA si era risvegliava con la fotografia più scioccante dal 1945: nel sondaggio Insa di ieri, Alternative für Deutschland si è confermata come il secondo partito del Land con il 25% dei consensi: appena tre punti in meno della Cdu di governo, ben sette sopra la Linke, la maggiore forza politica dell’opposizione. Non va meglio a livello federale: qui Afd viaggia stabilmente a quota 17%, lo stesso livello dei socialdemocratici sempre inchiodati al 18% come conferma la più recente rilevazione Zdf.
Un trauma politico, e un incubo sociale misurabile dalle forze messe in campo per contrastare l’onda nera che ha assunto le dimensioni di un vero e proprio tsunami. Autentica emergenza sotto il profilo dell’ordine pubblico, al punto che la partita di calcio della Bundesliga tra Dynamo Dresda e Amburgo ieri è stata annullata per permettere di dirottare a Chemnitz tutti gli agenti disponibili. Mentre la paura per il nuovo raid neofascista ha già superato i confini tedeschi come dimostra il clamoroso «avviso di viaggio» diramato dal governo svizzero a beneficio dei propri cittadini: «prudenza alle manifestazioni in Germania a causa dei possibili atti di violenza» scandisce l’appello ufficiale del Dipartimento federale affari esteri di Berna.
Fa quasi più rumore della cronaca di Chemnitz, ieri seguita in diretta nella cancelleria di Berlino come al ministero dell’Interno guidato da Horst Seehofer. Lì, dalle 17 alle 19.30, sono rimbalzati i video del Volk imbandierato nel tricolore nero-rosso-oro, con la rosa bianca infilata nel bavero della giacca e la maxi-foto di Daniel H., la vittima dell’omicidio che ha innescato la caccia allo straniero di sette giorni fa.
CIRCA 4.500 MILITANTI inquadrati dietro al capo di Afd della Turingia, Björn Höcke, inneggianti alla «stampa bugiarda» oltre ai soliti slogan contro la cancelliera Angela Merkel, accusata – tra l’altro – di essere la vera responsabile della morte del 35 enne accoltellato sabato scorso. In prima linea insieme ad Afd e agli islamofobici di Pegida anche i razzisti del cartello «Pro-Chemnitz» che aggirando il divieto della polizia si sono fusi nel corteo principale.
In parallelo, nel parcheggio della chiesa di San Giovanni si svolgeva la contro-demo delle 70 sigle riunite dal motto «Cuore invece di persecuzione» cui hanno partecipato la sindaca Spd Barbara Ludwig, la deputata Verde Annalena Baerbock, il co-leader della Linke Dietmar Bartsch, il segretario generale dei socialdemocratici Lars Klingbeil e la numero due della Spd Manuela Schwesig. «Chemnitz non è grigia né bruna» è stata la parola d’ordine scritta anche sul cartello messo intorno al collo alla mega-statua di Marx sulla Brückenstrasse, proprio sotto il «naso» dei neonazi lì concentrati prima della partenza del corteo.
Sullo sfondo, ma neppure troppo, ancora l’eco delle violenze consumate per tutta la settimana oltre il recinto nero della Sassonia. Mercoledì a Wismar (Mecleburgo-Pomerania) un ventenne di origine straniera è stato circondato da tre neofascisti e picchiato a sangue con una pesante catena di ferro. Il referto del pronto soccorso ha certificato la rottura del setto nasale, eppure la denuncia, come accade ormai troppo spesso, risulta ancora contro ignoti dato che gli aggressori si sono dati alla fuga.
DI PARI PASSO (DELL’OCA) l’inquietante episodio registrato giovedì sera a Rosenheim, in Alta Baviera. In un pub del centro una decina di persone si è platealmente esibita in cori xenofobi e canti del Terzo Reich sfoggiando il consueto «saluto a Hitler». Tra loro sono stati identificati i due poliziotti federali di 44 e 45 anni attualmente accusati di incitamento all’odio e utilizzo di «simboli anticostituzionali».

Corriere 2.9.18
il dibattito artisti e politica
La musica si divide (ancora) su Israele
Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni
Lana Del Rey rinuncia: «Verrò quando potrò cantare anche in Palestina»
Come lei Waters e Costello. I sì di molti altri, dai Rolling Stones a Rihanna
di Davide Frattini


Già l’estate di quattro anni fa Lana Del Rey aveva cancellato all’ultimo momento il concerto previsto a Tel Aviv. Allora la scusa erano stati i cinquantuno giorni di guerra tra Israele e Hamas, la paura che le sirene antimissile risuonassero durante il suo spettacolo. Questa volta la cantante americana ha dato ascolto alle sirene che l’hanno supplicata di annullare la partecipazione al festival musicale organizzato da un kibbutz in Galilea, dove avrebbe dovuto esibirsi il 7 settembre.
Anche se assicura che la decisione non è politica – «verrò quando potrò salire sul palco sia in Israele sia in Palestina» – ha finito con il dare ascolto ai propagandisti del movimento BDS (Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni). Roger Waters da ex bassista dei Pink Floyd è tra i volti più celebri della campagna internazionale contro lo Stato ebraico e ha lanciato un appello a Lana Del Rey attraverso Facebook. Le sue pressioni e quelle dei gruppi pro-palestinesi in passato hanno convinto a cassare gli show anche Lorde, Elvis Costello, Natalie Imbruglia, Gil Scott-Heron. Spesso la giustificazione fornita è tecnica, a volte le date annunciate e sparite sono il risultato di incomprensioni, pochi sfruttano l’incidente per dichiarazioni politiche. In ogni caso il movimento BDS dichiara vittoria.
Quello che irrita di più i fan israeliani sono le esitazioni. O come l’ha messa John Lydon in stile Sex Pistols prima di un concerto a Tel Aviv: «Promettere lo spettacolo e poi scappare è disgustoso. Israeliani vi amiamo, quanto al vostro governo che vada...». Come lui altre star non hanno mai fatto marcia indietro – malgrado gli avvertimenti, le petizioni e per qualcuno le minacce di morte: tra gli altri Paul McCartney, Madonna, i Rolling Stones, i Radiohead, Elton John, Rihanna, Britney Spears, Justin Bieber, i Depeche Mode, i Chainsmokers.

il manifesto 2.9.18
E se provassimo a ricostruire il silenzio di Genova?
Dopo il crollo. Renzo Piano, senatore a vita oltre che straordinario architetto, ha pensato bene di allargare il discorso. Va benissimo ricostruire il ponte, ma gettiamo lo sguardo sul fatto che si dovrà mettere mano alla trasformazione di un pezzo di città, fatto di case, di attività spesso dismesse, di relazioni umane
di Paolo Berdini


C’è uno strano silenzio nelle due zone abitate a sud e nord del ponte crollato. Genova non è certo una città silenziosa, il porto, le industrie, un flusso automobilistico insostenibile. Echi lontani del traffico arrivano ancora dalla via Aurelia e dalla strada parallela, ma nulla a che vedere con l’infernale frastuono che avvolgeva la valle del Polcevera per l’intera durata dei giorno. Ventiquattro ore di rumori e di inquinamento atmosferico che si ripete per 365 giorni causato da un traffico ingovernato.
Quello che avvolge il quartiere è un silenzio pieno di dolore per la tragedia dei numerosi morti, per i feriti ancora ricoverati nelle strutture sanitarie, per coloro che porteranno per sempre i segni di una catastrofe, per le famiglie che perderanno la propria abitazione ospitata fin qui nei palazzi con i cornicioni demoliti per far posto al mostro di cemento che rappresentava il «progresso». Persone in carne e d ossa che hanno sopportato in tanti decenni -come ha ben scritto Norma Rangeri – un tributo disumano. La modernità è crudele con chi non può evitarla.
Il temporaneo e doloroso silenzio pieno di incognite per il futuro sembra non interessare più. I cantori della modernità vogliono ricostruire in tempi rapidissimi il ponte così com’era. Esigenza giusta per una città che rischia altrimenti di bloccarsi, ma sorprende che a parlare finora siano stati solo i dirigenti di Autostrade per l’Italia o tecnici di varia provenienza, uomini in un modo o in un altro implicati o responsabili della grande tragedia. Vogliono forse strappare l’assenso della popolazione che ha ben altre priorità in questi giorni. Solo uno tra questi tecnici ha azzardato a dire che occorrerebbe una -peraltro inefficace, data l’altezza del ponte – barriera antirumore.
Renzo Piano, senatore a vita oltre che straordinario architetto, ha pensato bene di allargare il discorso. Va benissimo ricostruire il ponte, ma gettiamo lo sguardo sul fatto che si dovrà mettere mano alla trasformazione di un pezzo di città, fatto di case, di attività spesso dismesse, di relazioni umane. E allora perché non provare a ribaltare l’ottica fin qui veicolata come unica e indiscutibile e mettere sul piatto della bilancia della ricostruzione del ponte anche l’esigenza di aprire una nuova fase della vita della città, che sia in grado di mantenere, garantire, santificare si potrebbe dire, quel silenzio per la vita di ogni giorno di tanti adulti, giovani e bambini.
Pensare ad una città che rispetta i diritti di tutti, a prescindere dalla loro capacità economica di potersi scegliere un’abitazione in un’area meno inquinata, impone di ricostruire non un nuovo ponte, ma una galleria artificiale che impedisca al rumore di riappropriarsi della valle del Polcevera. Ce ne sono molte ormai nelle nostre città, ma sono per lo più brevi e discontinue. Genova potrebbe aprire una nuova fase. Sarebbe un’opera che costerebbe molto di più di un ponte normale per il peso maggiore e gli oneri di sicurezza. Ma si potrebbe coniugare per la prima volta la realizzazione di una grande infrastruttura con un’altra ben più grande opera, quella di costruire una città a misura delle persone che la vivono, con un ponte del silenzio in rispetto delle vittime innocenti del crollo.
Lo scarso rispetto per la dignità dell’uomo dimostrato dai due vicepresidenti del Consiglio nella vicenda dell’immigrazione dimostra che non è da quelle due parti politiche che possono venire segnali nuovi. Questi segnali possono invece emergere dalla popolazione che vive da decenni disagi insostenibili. A patto che la politica ricominci ad interessarsi dei loro destini.

Il Fatto 2.9.18
“Basta artigli Usa, l’Europa appartiene alla Russia”
Lo scrittore: “L’Occidente ci minaccia, le mega esercitazioni come Vostok 2018 sono necessarie: è quel che ci rimane”
di Michela G. Iaccarino


A metà settembre ci saranno le esercitazioni militari più vaste dalla Guerra Fredda: le Vostok 2018 (Oriente 2018). È un dispiegamento di muscoli militari necessario, un allenamento utile o entrambi?
Ci hanno circondato di basi militari Nato! Perché ora? Per la retorica ostile di Trump! L’incomprensione dell’Europa rende la Russia spaventata verso l’Occidente. Vediamo che il Regno Unito è nemico, gli Usa sono ostili, la Francia ci guarda male, la Germania dipende dal nostro gas, ma comunque ci guarda storto. Facciamo queste esercitazioni perché è la cosa giusta: abbiamo perso troppi milioni di persone nell’ultima guerra. Negli anni 90, con Eltsin e company, ci hanno praticamente disarmato. Dopo quello che è successo in Ucraina, dove sono arrivati ufficiali americani, francesi, europei a fomentare una guerra con la Russia, ci siamo svegliati. Tutta la popolazione ha la sensazione che vogliono farci obbedire ai dettami americani e a quelli della banda dei paesi europei. In Russia aspettiamo una napadenia, un attacco da parte dell’Occidente, magari non diretto, ma che arriverà dal confine ucraino.
300 mila soldati, mille aerei, 36 mila corazzati verranno dispiegati contemporaneamente.
Fosse stato per me, sarei stato ancora più duro di Putin. Avrei ricostruito con l’intelligence una guerra segreta. Le esercitazioni vanno fatte più spesso, è necessario: l’occidente ci minaccia, questo è quello che ci rimane.
Ci saranno unità militari mongole e cinesi. Vecchi alleati, nuove strategie.
Lo sento per la prima volta. Se è così, sono felice.
È nuova Guerra Fredda tra Europa e Russia?
Geograficamente l’Europa appartiene alla Russia, più di quanto la Russia appartenga all’Europa. Nella parte europea della Russia ci sono 118 milioni di persone. Scusateci: allora la popolazione europea più popolosa siamo noi. Non è necessario che diventiamo paesi fratelli, nemmeno amici: basta il rispetto reciproco e gli europei, per cominciare, potrebbero liberarsi degli artigli degli Stati Uniti.
Per la Nato è una sfida aperta. E per i russi in patria?
Il nostro popolo è vicino al Cremlino, le esercitazioni le osserva con grande entusiasmo. Tutto ciò che dimostra la nostra forza piace. I russi si sono svegliati dal letargo dei valori occidentali, sono tornati alla strategia sovietica della forza. Hanno capito che ci hanno ingannato, e ora inganniamo noi. Poi perché la Nato non ha partecipato alle operazioni contro l’Isis? Ma in generale, perché ammassa truppe ai nostri confini?
La Russia conduce una guerra parallela con gli hacker, dicono a Washington. La Russia è intervenuta nelle elezioni americane del 2016?
Senti da che pulpito arriva la predica. L’America è intervenuta in tutto il mondo, compra ministri, agenti della Cia diventano capi di stato. Dopo la guerra è intervenuta in Italia, in Francia, corrompendo sindacati, forze politiche. Tutto questo lamento per l’intervento russo nelle elezioni Usa è una lotta interna dell’establishment americano. La Russia ha monitorato le elezioni, ma quello che dicono negli Stati Uniti è demagogia.
Il Cremlino è accusato di fare propaganda con i suoi canali di stato all’Ovest. Ma che influenza ha la propaganda sui russi?
Abbiamo la stessa vostra propaganda. L’unica cosa che si può sottolineare del nostro regime è un fatto: abbiamo lo stesso capo di stato dal marzo 2000. Un capo a cui imputo numerosi difetti, come l’indecisione psicologica verso l’Ovest. Ma se si cambia leader ogni 4 anni lo Stato viene gestito meglio? Per il momento Putin funziona abbastanza bene, ma la Russia è piccola per lui. I russi vogliono le città del Kazakistan del nord, le città russe in Ucraina: Charkov e Odessa. L’Italia, se avesse potuto, non avrebbe rifiutato Nizza.
Politica interna: la riforma delle pensioni ha generato malcontento, Putin non ha mai perso tanti punti nei sondaggi e sono in programma proteste per le strade.
Si sta esagerando con ‘l’insoddisfazione generale’ in Russia. Nel 2004 c’è stata la monetizzazione del debito ed è stato occupato il ministero dello sviluppo economico. Ora non ci sono questi gesti eclatanti di malcontento. Sì, i pigri comunisti si sono un pochino risvegliati, l’opportunista Navalny tenta di guadagnare punti alle manifestazioni contro la riforma. Ma i gruppi che lo sostengono come l’Alfa Group, Fridman, il banchiere Lebedev, non hanno abbastanza forze per esaltarlo politicamente. Se qualcuno prenderà davvero il posto di Putin sarà un suo fedele:, Medvedev o la donna di ferro, Valentina Ivanova Matvienko. Ma, attenzione, Putin è solo il frontman di un gruppo che gestisce il Paese. Si tratta di 30 clan, composti da servizi segreti, potenze economiche, personalità emblematiche influenti, banche. Putin è solo il più convincente, quello che parla meglio. Ma è stupido pensare, come ritiene l’Ovest, che sia onnipotente. È solo “uno dei”.
Torniamo alla riforma e ai cortei.
La riforma: noi di Altra Russia vorremmo ridurre il periodo dei giovani nelle scuole e non aumentare quello degli anziani a lavoro. Vogliamo dare il diritto al lavoro, al matrimonio, la possibilità di voto ai ragazzi di 14 anni, questo ringiovanirà il Paese.
In Europa tornano i nazisti?
Sul tema migranti in Europa i cittadini chiedono ai governi di essere più rigidi. È una richiesta che si palesa sempre più chiaramente in Germania, Italia, Ungheria, nei Baltici e negli altri ex Paesi alleati di Hitler. I nazisti mascherati ci sono sempre stati in Europa, ma credo che prenderà piede più il razzismo del nazismo.

Corriere Salute 2.9.18
Psichiatria
la depressione bipolare può esordire nell’adolescenza? e può essere ereditaria?
risponde Claudio Mencacci


Abbiamo un figlio di 16 anni che negli ultimi mesi è diventato irascibile e irritabile. Ha momenti di ansia intensa e di calo dell’umore, accompagnati da pensieri di inadeguatezza, e altri in cui è fin troppo attivo e sembra un po’ sopra le righe. Abbiamo anche l’impressione che dorma meno. Sappiamo che queste sono spesso fasi dell’adolescenza, ma siamo preoccupati anche perché un nostro parente soffre di disturbo bipolare.
Anni di ricerche cliniche hanno permesso di comprendere il complesso rapporto tra fattori biologici, ambientali e della personalità che contribuiscono all’insorgenza, e alla progressione, del disturbo bipolare. È stato ampiamente osservato come questo disturbo manifesti, forse più di qualunque altra patologia psichiatrica maggiore, un andamento familiare, ripresentandosi nel corso delle generazioni nella stessa famiglia. Anche se non si eredita la malattia, ma piuttosto una «biologica predisposizione ad ammalarsi» e quindi avere un genitore con questo disturbo non significa necessariamente svilupparlo. L’esposizione a sostanze d’abuso, cattive abitudini di vita, soprattutto relativamente al sonno, contribuiscono in modo determinante allo sviluppo e alla progressione della malattia. I figli con entrambi i genitori bipolari hanno un rischio di soffrire di questa patologia 5,7 volte maggiore rispetto a chi ha un solo genitore malato, mentre rispetto alla popolazione generale il rischio è di 51,9 volte più elevato. Spesso l’insorgenza è precoce e non di rado la malattia si manifesta proprio in adolescenza. Si tratta di una patologia che in oltre 7 casi su 10 non viene riconosciuta, in molti casi mal diagnosticata e inadeguatamente trattata. Viene confusa con la depressione o con i disturbi di ansia, persino con la schizofrenia o i disturbi di personalità borderline. E l’abuso di alcol e sostanze stupefacenti, cui sono più esposti gli adolescenti, diventa un ulteriore fenomeno «confondente». Il disturbo bipolare non esordisce con un episodio maniacale, ma è solitamente preceduto da disturbi di ansia, da anni di episodi di depressione anche in adolescenza e disturbi del sonno.
Se il disturbo bipolare non viene curato in modo adeguato, l’alternarsi di fasi maniacali e depressive produce una continua interruzione nel percorso vitale, impendo il raggiungimento di obiettivi formativi, lavorativi e relazionali. Si interrompono gli studi, le carriere e le relazioni affettive. L’individuo alterna periodi di euforia e iper progettualità a fasi di solitudine e disperazione e se la prima condizione mette a dura prova il sistema di affetti e relazioni con comportamenti disinibiti, rischiosi o aggressivi; la seconda è accompagnata da sentimenti di colpa, sensazione di disfatta e da elevato rischio suicidario. Il sonno è un elemento guida nella cura. Ridotto marcatamente nelle fasi che precedono l’euforia, con una sensazione soggettiva di benessere, è alterato e insoddisfacente nelle fasi depressive.
Gli interventi farmacologici puntano alla stabilizzazione dell’umore e al miglioramento del ciclo del sonno, mentre gli interventi sugli stili di vita, di tipo educativo e cognitivo, mirano a permettere a paziente e familiari il riconoscimento precoce dei segnali di una prossima ricaduta. La cura del disturbo bipolare in età adolescenziale e giovanile si avvale degli stessi strumenti a disposizione per l’adulto. Ci sono però maggiori difficoltà nel far accettare le modifiche degli stili di vita necessarie alla stabilizzazione clinica. Ad esempio, è difficile motivare un adolescente a mantenere un buon ciclo sonno-veglia , con almeno otto ore di sonno per notte. Ancor più importante, rispetto all’adulto, è il sostegno, volto ad aiutare il ragazzo ad accettare la presenza della patologia e a tollerare la regolare assunzione dei farmaci. Lo psichiatra deve valutare attentamente gli effetti indesiderati associati alle varie molecole, prima di operare una scelta. Perciò l’utilizzo di antipsicotici atipici di seconda generazione, con limitati effetti sedativi e sul peso, è una valida alternativa ai trattamenti con sali di litio. Un monitoraggio attento dei figli di genitori con bipolarità o con forte famigliarità potrebbe essere un elemento di svolta per un riconoscimento precoce della patologia che permetterebbe cure adeguate, rendendo così possibile cambiare le traiettorie di vita edi questi giovani.

Corriere La Lettura 2.9.18
Preistoria
A caccia degli avi
Più meticci che vichinghi
Un genoma scandinavo
di Telmo Pievani


Karin Bojs è una giornalista scientifica svedese in cerca delle proprie radici. Alla morte della madre, osservando al funerale i resti della sua famiglia frantumata, si mise sulle tracce degli antenati, non solo di quelli prossimi, anche di quelli remoti, paleolitici. In Scandinavia i registri familiari sono accurati, ma le sue indagini genealogiche divennero inevitabilmente nebulose quando si spinse indietro oltre il Settecento. Oggi però esistono le analisi del Dna, che ci danno informazioni sulla nostra salute, ma anche sul nostro albero di discendenza.
Così la Bojs sottopose sé stessa e alcuni familiari ai test genetici e iniziò un viaggio a ritroso nel tempo. Nel libro che lo racconta, I miei primi 54.000 anni (Utet), la storia della sua famiglia si intreccia con quella dell’Europa preistorica. Tutto comincia sul lago di Tiberiade con un incontro ravvicinato tra un Neanderthal e una sapiens, avvenuto 54 mila anni fa, con nascita di un bambino di robusta costituzione. Il piccolo ibrido è visto con sospetto dagli altri, ma ha un gran futuro davanti a sé. Gli accoppiamenti tra specie umane sono diventati ormai un topos letterario, al limite della morbosità: quanto erano consensuali i loro rapporti sessuali? Dove sono avvenuti? Ma la fantasia in questo caso trova conferma nella scienza: la rivista «Nature» il 23 agosto ha pubblicato la scoperta del genoma di una ragazza, vissuta 90 mila anni fa sui Monti Altai, che ebbe madre neanderthaliana e padre sapiens.
Non fidatevi troppo però dei test che vi dicono quanto Dna neanderthaliano avete nel vostro genoma. La Bojs mescola in modo un po’ disinvolto dati scientifici, opinioni personali e speculazioni, ma la scrittura, pur tra molte digressioni, fluisce inarrestabile come le linee genetiche che insegue. Il responso è significativo: lei, come ognuno di noi, ha migliaia di antenati, provenienti dai posti più diversi. Ha ereditato per parte materna alcuni tratti degli antichi cacciatori di renne e di foche paleolitici (con i loro capelli neri, pelle scura e occhi chiari) arrivati nel nord 10 mila anni fa da Spagna e Francia, e a loro volta discendenti di quelli che avevano incontrato i Neanderthal. Questi pionieri attraversarono il Doggerland, la terra rigogliosa, ora sommersa dal mare del Nord, che univa la Svezia alla Scozia.
La linea materna del padre della Bojs si ricollega invece ai primi agricoltori, arrivati in ondate successive dal Medio Oriente attraverso Anatolia, Balcani ed Europa centrale, e approdati in Svezia 6 mila anni fa con la loro pelle chiara. A queste due grandi migrazioni si aggiunse a partire da 4.800 anni fa una terza, che l’autrice ritiene di aver trovato nella sua linea paterna grazie all’analisi del cromosoma Y dello zio paterno. È quella dei pastori nomadi che a cavallo irruppero dalle steppe asiatiche, alti e di carnagione scura, il cui idioma fu forse l’antenato di tutte le lingue indoeuropee. Infine il suo Dna rivela qualche traccia genetica siberiana e una lieve vicinanza con i lapponi.
Karin Bojs scopre insomma su di sé un’evidenza che ultimamente mette d’accordo archeologi e genetisti: tutte le culture sono fusioni di gruppi umani, di idee e di lingue. Ogni europeo è un mosaico genetico a sé. La preistoria dell’Europa si riassume in tre grandi ondate migratorie, scandite dai cambiamenti climatici, e negli esiti delle loro convivenze e mescolanze. Tutti gli svedesi quindi, come tutti gli italiani, sono discendenti di immigrati arrivati da est e da sud. Eppure ancora oggi qualcuno cerca invano nel Dna una conferma dei propri pregiudizi razziali: in Ungheria non molto tempo fa vendevano falsi test genetici che garantivano al richiedente l’assenza di ebrei e rom tra gli antenati.

Il Sole Domenica 2.9.18
Filosofia. Il sapere antico passò per arabo, latino, ebraico e greco bizantino
La traduzione, radice dell’Occidente
di Dimitri Gutas


Fino al Rinascimento, «l’Occidente» deve essere inteso, storicamente parlando, come l’insieme delle terre e dei popoli a ovest dell’India. Alessandro Magno è arrivato fino in Battria, l’attuale Afghanistan, mentre i Romani si sono spinti fino alla Britannia, creando tra questi due estremi un regno culturale unificato, destinato a rimanere interconnesso attraverso i secoli.
La coscienza storica dei popoli nelle società occidentali contemporanee è stata formata da una storiografia asservita all’ideologia dello Stato-nazione. La narrativa dominante dell’ascesa dell’Occidente nella coscienza popolare e il modo in cui viene largamente insegnata alle scuole superiori (quasi sempre anche negli studi di livello universitario) è la seguente: la civiltà è stata creata dal «genio» dei Greci, poi è passata ai Romani, poi si è ibernata per un lungo periodo, i cosiddetti «tempi bui», per tornare col Rinascimento italiano, continuando poi nell’Europa a nord e a occidente e giungere infine all’oggi. Non è così che funziona.
Nella storia intellettuale dell’Occidente come definito sopra, dall’antichità fino al Rinascimento, nessun evento fu più significativo della trasmissione - attraverso le traduzioni - della conoscenza scientifica e filosofica della Grecia antica in arabo, del suo sviluppo – sempre in arabo - verso uno stadio più avanzato, e della successiva trasmissione di questo stadio avanzato dall’arabo in latino e in ebraico e poi di nuovo in greco bizantino. La necessità di queste traduzioni, le traduzioni stesse hanno cambiato il corso della storia occidentale e sono direttamente responsabili dello stato dello sviluppo scientifico in cui si è trovato il mondo ben prima dell’Illuminismo e della rivoluzione scientifica.
Con la conquista islamica del VII secolo, il Mediterraneo si è ritrovato unito dal punto di vista economico, politico e intellettuale con il vicino Oriente, la Persia e l’India. Questo ha permesso il libero transito non solo di materie prime e manufatti, ma anche di idee e modi di pensare e, quel che è più importante, di studiosi e scienziati. In tale contesto, la risurrezione della scienza e della filosofia greca come scienza e filosofia araba è stata intimamente connessa con il movimento di traduzione greco-arabo iniziato poco dopo l’ascesa al potere della dinastia araba degli Abbasidi, discendenti del profeta Maometto, nonché con la fondazione di Baghdad capitale nel 762: un epoca culturale durata per più di due secoli, fino al Mille. Furono tradotti in arabo - su commissione - quasi tutti i volumi filosofici e scientifici disponibili nell’impero bizantino e nel vicino Oriente, cosicché vi fu una trasmissione massiccia e senza precedenti della conoscenza da una lingua e da una cultura ad un’altra.
La filosofia araba è stata un’impresa simile alla filosofia greca prima dell’inizio del suo graduale decadimento, ma stavolta in arabo: ha reso internazionale la filosofia greca, e grazie ai suoi successi ha mostrato alla cultura occidentale che fare scienza e filosofia poteva essere un’impresa sovrannazionale. Questo ha reso storicamente possibile e intelligibile nel Medioevo il trapianto e lo sviluppo della scienza e della filosofia in altre lingue e culture.
Sebbene sia plausibile ritenere che la filosofia greca nei suoi stadi di declino si sia sottomessa alla religione cristiana e la abbia imitata in vari modi, la filosofia araba si è sviluppata in un contesto sociale in cui una religione monoteista dominante era l’ideologia per eccellenza. Perciò la filosofia araba è sorta come disciplina non in un rapporto di opposizione o subordinazione alla religione, ma indipendentemente dalla religione – da tutte le religioni – intellettualmente superiore a tutte quanto a oggetto e metodo. La filosofia araba non è nata come ancilla theologiae ma come sistema di pensiero e disciplina teoretica che trascende tutte le altre e spiega razionalmente tutto il reale, religione inclusa.
Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza e il significato per la civiltà occidentale di questi sviluppi nei primi due secoli della dominazione Abbaside. Infatti, è il movimento di traduzione greco-arabo ad aver poi incoraggiato traduzioni analoghe: dall’arabo al latino e all’ebraico e dall’arabo al greco bizantino, sebbene gli effetti non siano stati automatici o immediati.
Professore di Studi Arabi e Islamici a Yale

Il Sole Domenica 2.9.18
A Palermo
Studiosi a confronto sulla metafisica di Aristotele
di Maria Bettetini


Non è sempre stata solo guerra tra Islam e Occidente, qualunque spazio geografico-culturale con tale espressione si voglia intendere. Tra i momenti storici salienti, il ruolo dei traduttori arabi nel riportare la filosofia greca in Europa, tra VIII e XI secolo, e la convivenza tra religioni monoteiste, nonché tra filosofia pagana e teologia, nella Sicilia dominata dai Normanni prima e poi da Federico II di Svevia. Oggi la cultura occidentale passa dall’esser deprecata all’esser ritenuta superiore, così certo Islam o ideologie vicine a forme di razzismo.
Proprio nella Palermo di Federico si incontreranno il 7 e l’8 settembre – preceduti da una Summer School al Castello di Falconara (Butera – CL) – alcuni importanti studiosi attorno a «La metafisica di Aristotele ieri e oggi», chiamati dalle Università della Svizzera Italiana e di Lucerna, con il patrocinio di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018. Tra gli ideatori Kevin Mulligan (Lugano e Ginevra) e Giovanni Ventimiglia (Lucerna): l’intento è anche mostrare la fecondità della filosofia mediterranea nel più ampio contesto dei dibattiti internazionali.
Al convegno parteciperà Christof Rapp (Monaco di Baviera), autorità degli studi aristotelici, Mélika Ouelbani (Tunisi), Gilles Kepel, (École Normale Supérieure di Parigi), tra i più noti esperti al mondo di Islam contemporaneo; oltre a Sir Anthony Kenny, uno dei massimi filosofi viventi, e Dimitri Gutas (Università di Yale), specialista del pensiero filosofico musulmano, al quale abbiamo chiesto in anteprima uno stralcio della lectio magistralis che terrà a Palermo.

Il Sole Domenica 2.9.18
Nation building. Profetica la visione di uno Stato privo di una coscienza civile
L’attualità politica del Leopardi resistente
di Mauro Campus


Quanto il Leopardi politico sia utile per afferrare il fondo roccioso dei caratteri nazionali è concetto abusato. Altrettanto si può dire a proposito dell’ammirazione di cui egli godette presso i patrioti impegnati nelle guerre risorgimentali. Ma quanto le sue idee abbiano nel tempo acquisito peso e vigore indica che i problemi sollevati sono rimasti inevasi e si sono aggravati nelle fasi travolgenti della trasformazione nazionale.
Dal dialogo fra Leopardi e uno dei massimi costituzionalisti italiani è nato un libro asciutto, mai spavaldo e a tratti perfino doloroso per la lucidità con la quale il poeta e il suo interprete si confrontano. Si tratta di un’analisi del sistema d’idee leopardiano sulle cui tracce Massimo Luciani è tornato a più riprese, e che ora egli riannoda in un ragionamento che mette alla prova la tenuta della filosofia leopardiana e mostra quanto essa fosse attenta alle debolezze endemiche degli italiani anche prima che essi potessero riconoscersi in una Nazione. Una Nazione costruita attraverso una geometria internazionale che alimentò il motore della rivoluzione politica che ne fu alla base, ma che impedì il compimento della rivoluzione sociale promessa.
Le suggestioni che arrivano da una lettura leopardiana in campo largo come quella proposta da questo lavoro sono largamente tratte dallo Zibaldone, e tutte affondano nella convinzione del poeta che la lunga durata riveli l’invariabilità dello sfondo sul quale si rappresenta la vicenda nazionale. Uno sfondo, il nostro, irremovibile anche al mutare del teatro, e verso il quale ogni possibile intervento è parso inutile a scalfirne la fissità.
Opportunamente nelle prime pagine del volume Luciani propone un parallelo fra il Satta del De Profundis e alcuni passaggi del Discorso leopardiano. Sebbene scritti in snodi sideralmente diversi della vicenda nazionale, essi paiono entrambi illuminare le mancanze della nostra psicologia sociale e la fragilità del nostro ethos. Ma mai, in Leopardi o in Satta, il confronto con i caratteri costitutivi della Nazione è rubricabile a superciliosa freddezza nei confronti dei travagli italiani. In Leopardi, suggerisce Luciani, l’intersezione fra soggettività e distacco trova un punto di equilibrio ineguagliabile. Egli indaga con appassionata tenacia, cui si mescola in modo imprevedibile una sofferenza nell’elencazione dei retaggi che costruiscono i nostri caratteri. Per Leopardi tale osservazione non è mai una scorciatoia per assolvere le debolezze di un Paese che non era ancora tale. Non c’è nella tristezza rivelatrice del problema una forma di rassegnato e malinconico conservatorismo, né la necessità di marcare una differenza tra l’osservatore e l’oggetto osservato. Ci sono, invece, un invito alla lotta e l’anticonformistica presa d’atto che quei caratteri avrebbero finito per incrociarsi e, quindi, dovessero essere individuati e affrontati, perché solo così sarebbe stato possibile rettificarne l’opaca e fangosa resistenza.
«La rigenerazione» (Zib.) auspicata da Leopardi – osserva Luciani – avvenne quando, dopo la soluzione di continuità (non dello Stato, ma delle classi dirigenti) determinata dalla Seconda guerra mondiale e dalla guerra civile, il Paese fu nuovamente di fronte alle idealità del suo incompiuto Risorgimento. Quel momento fu la Costituente arrivata dopo un’intensa stagione di patria ritrovata. Rispetto all’insieme della precedente storia nazionale quella evenienza cadde nelle condizioni migliori per inverare l’auspicio della creazione di strutture capaci di correggere tare secolari. Ebbene, tale edificio fondato sulla precarietà genetica derivante dalla formazione dell’Unità sarebbe stato messo in discussione dalla rottura della dimensione nazionale nella quale poteva compiersi. La compatibilità di quel sistema con le trasformazioni della vita internazionale – e in particolare con l’accelerazione della costruzione europea – si è andata assottigliando e ha finito per far saltare o dimidiare i meccanismi solidaristici contenuti nella Costituzione. La natura dei volontari vincoli europei e la risoluta ascesa del vangelo neoliberale hanno determinato lo spostamento di una parte del complesso decisionale fuori dei confini nazionali quando ancora il processo di nation-building non aveva compiuto i suoi passi definitivi.
Ma è la blasfema caricatura in cui l’Italia contemporanea è precipitata che sembra eternare la profetica visione leopardiana, che ripudiava il cosmopolitismo come elemento costitutivo di uno Stato privo di una coscienza civile adeguata a elaborare gli impulsi esterni. «La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura colla ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte» (Zib.). Privi di tale compensazione, di un interesse comune e di una patria, è arduo pensare universalisticamente. I retrivi conati nazionalpopulisti fanno intravedere la luminosa attualità di quel geniale intuito politico.
Lo sguardo profondo.. Leopardi, la politica, l’Italia, di Massimo Luciani Mucchi Editore, Modena, pagg. 132, € 13

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