sabato 15 settembre 2018

La Stampa 15.8.18
Fascismo razzista
Il giorno che gli ebrei scoprirono di essere nemici degli italiani
di Alberto Sinigaglia


Il 18 settembre 1938 a Trieste Mussolini tenne un discorso tremendo contro gli ebrei. Per la prima volta giustificava al Paese e al mondo le leggi che il re Vittorio Emanuele III aveva già firmate il 5 e il 7 settembre, preludio sinistro al 17 novembre: Regio Decreto 1728 «per la razza italiana», estremo frutto del «manifesto» dei dieci scienziati pubblicato il 14 luglio sul Giornale d’Italia.
Il duce calcolò il momento, il luogo, le parole. Avvertì importanti giornali stranieri. Scelse la città più internazionale, prossima a confini incandescenti: l’Austria invasa dal Reich, la Cecoslovacchia in pericolo, a giorni la Conferenza di Monaco. Scelse la terza comunità ebraica dopo quelle di Roma e di Milano, che contava ebrei fascisti e irredentisti. Andò a gridargli in faccia che l’ebraismo era «un nemico irreconciliabile», che si decideva per loro una «politica di separazione».
Le «soluzioni necessarie» non sarebbero tardate: via dai libri di testo quelli scritti o curati da ebrei; via i bambini dalle scuole pubbliche e gli studenti dalle università; via i padri, le madri e i nonni dalle cattedre accademiche, dai giornali, da assicurazioni, banche, notai, pubblico impiego; spogliati della divisa coloro che avevano combattuto per l’Italia e ancora la servivano in armi; vietati i matrimoni con ariani.
Il capo del fascismo lanciò due precisi messaggi a chi lo considerava emulo di Hitler e a chi difendeva gli ebrei: «Sono poveri deficienti» quanti credono «che noi abbiamo obbedito ad imitazioni o, peggio, a suggestioni»; «il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che i semiti di oltre frontiera (...) e i loro improvvisati amici (...) non ci costringano a mutare radicalmente cammino».
Un operatore cinematografico ufficiale filmò tutto. Paolo Gobetti alla fine degli Anni 70 avrebbe acquistato la pellicola da un collezionista per l’Archivio storico della Resistenza da lui fondato con Franco Antonicelli a Torino. Vi si vede e ascolta il solito Mussolini tonitruante quella mattina in una Piazza Unità d’Italia imbandierata a festa e gremita di popolo, che acconsentiva, applaudiva, urlando di entusiasmo e invocando il suo nome. Dal punto di vista della propaganda fascista, un risultato perfetto: i termini, il tono, l’attore, la scena. Perché il cinegiornale dell’Istituto Luce mostrò soltanto l’inizio del discorso e poco più? Fu il regime a censurarlo? E per quale strategia il dittatore, pur tornando spesso al tema razziale, non dedicò agli ebrei altri discorsi di quella forza, anzi evitò di nominarli?
Il silenzio di Mussolini li ingannò: furono in molti a illudersi, a non cercare riparo oltreoceano, a non poter immaginare che, comunque cittadini italiani, da altri italiani sarebbero stati consegnati ai nazisti e avviati ai Lager. Poiché quel destino fu segnato dal «discorso di Trieste», il Polo del ’900 e l’Ordine dei Giornalisti del Piemonte hanno pensato che ad aprire le manifestazioni torinesi in memoria delle leggi razziali nulla fosse più efficace di quelle immagini e di quel sonoro: un grumo di odio, disprezzo e «chiara, severa coscienza razziale», certo inattuale, ma salutare alla memoria.

La Stampa 15.9.18
“Occorre una coscienza razziale per stabilire
non solo differenze ma superiorità nettissime”
di Benito Mussolini


È questa, o Triestini e Triestine, la quarta volta che ho la ventura, l’onore e la gioia di rivolgervi la parola. La prima fu nel dicembre del 1918, quando nell’aria della vostra città e nelle vostre anime c’era ancora, visibile e sensibile, la vibrazione del grande evento che si era compiuto con la Vittoria. [...]. Dopo molti anni torno fra voi e sin dal primo sguardo ho potuto riconoscere il grande, il poderoso balzo innanzi compiuto dalla vostra, dalla nostra Trieste.
Non sono venuto tra voi per rialzare il vostro morale, così come gli stilopennivori d’oltre monte e d’oltre mare hanno scioccamente stampato. Non ne avete bisogno, perché il vostro morale fu sempre altissimo. (...) Sono venuto per vedere ciò che avete fatto e per vedere altresì come sia possibile di bruciare rapidamente le tappe per giungere alla mèta. Sono venuto per ascoltarvi e per parlarvi. (...)
Triestini!
Vi sono dei momenti nella vita dei popoli in cui gli uomini che li dirigono non devono declinare le loro responsabilità, ma devono fieramente assumerle in pieno. Quello che sto per dirvi non è soltanto dettato dalla politica dell’Asse Roma-Berlino, che trova le sue giustificazioni storiche contingenti, né soltanto dal sentimento di amicizia che ci lega ai Magiari, ai Polacchi e alle altre nazionalità di quello che si può chiamare lo Stato mosaico numero due. Quello che sto per dirvi è dettato da un senso di coscienza che vorrei chiamare, più che italiano, europeo.
Quando i problemi posti dalla storia sono giunti ad un grado di complicazione tormentosa, la soluzione che si impone è la più semplice, la più logica, la più radicale, quella che noi Fascisti chiamiamo totalitaria. Nei confronti del problema che agita in questo momento l’Europa la soluzione ha un nome solo: Plebisciti. Plebisciti per tutte le nazionalità che li domandano, per le nazionalità che furono costrette in quella che volle essere la grande Cekoslovacchia e che oggi rivela la sua inconsistenza organica. Ma un’altra cosa va detta: ed è che, ad un certo momento, gli eventi assumono il moto vorticoso della valanga, per cui occorre far presto, se si vogliono evitare disordini e complicazioni. Questo bisogno del far presto deve essere stato sentito dal Primo Ministro britannico, il quale si è spostato da Londra a Monaco, messaggero volante della pace, perché ogni ritardo non affretta la soluzione, ma determina l’urto fatale. Questa soluzione sta già, malgrado la campagna di Mosca, penetrando nel cuore dei popoli europei.
Noi ci auguriamo che in queste ultime ore si raggiunga una soluzione pacifica. Noi ci auguriamo altresì che, se questo non è possibile, il conflitto eventuale sia limitato e circoscritto. Ma se questo non avvenisse e si determinasse, pro o contro Praga, uno schieramento di carattere universale, il posto dell’Italia è già scelto.
Nei riguardi della politica interna il problema di scottante attualità è quello razziale. Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. IL perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. È in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli Imperi si conquistano con le armi, ma si tengono col prestigio. E per il prestigio occorre una chiara, severa coscienza razziale, che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime. Il problema ebraico non è dunque che un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questi incontestabili dati di fatto.
L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibili meriti militari o civili, nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. Quanto agli altri si seguirà nei loro confronti una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i semiti di oltre frontiera e quelli dell’interno, e soprattutto i loro improvvisati ed inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino. [...]
Ma per noi Fascisti la fonte di tutte le cose è l’eterna forza dello spirito, ed è per questo che rivendico a me il privilegio di realizzare quello che fu l’ideale bisecolare della vostra città, l’Università completa nei prossimi anni. Padova, che fu per secoli il solo Ateneo delle genti venete, nel suo vigilante patriottismo comprende, e sarà Padova che offrirà il gonfalone alla neo-Consorella giuliana.
Triestini e Triestine!
Dopo quanto vi ho detto io vi domando: C’è uno solo fra voi di sangue e di anima italiana che possa per un solo istante dubitare dell’avvenire della vostra città unita sotto il simbolo del Littorio, che vuol dire audacia, tenacia, espansione e potenza? Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No, Roma è qui. È qui sul vostro Colle e sul vostro Mare; è qui nei secoli che furono e in quelli che saranno; qui, con le sue leggi, con le sue armi, e col suo Re.

La Stampa 15.9.18
I giudici e “le leggi abominevoli”
molti grigi esecutori e pochi eroi
di Giuseppe Salvaggiulo


Il ruolo dei giudici nell’applicazione della legislazione razzista è scandagliato nel volume «Razza e inGiustizia», meritoriamente pubblicato dal Consiglio superiore della magistratura e dal Consiglio nazionale forense in collaborazione con l’Unione delle comunità ebraiche italiane e presentato ieri in Senato.
Dal 1923 il fascismo aveva limitato l’indipendenza dei magistrati, degradandoli a «funzionari»: il governo ne decideva promozioni e trasferimenti; nominando i capi delle corti, influiva sulle sentenze. Ai giudici di rango inferiore erano imposti camicia nera e saluto fascista. Chi dimostrava «atteggiamenti incompatibili con le generali direttive politiche del governo» era dispensato dal servizio. I reati politici erano sottratti alla magistratura e devoluti a un tribunale speciale. Il Csm era non era più eletto dai giudici, ma designato dal potere esecutivo e ridotto a organo consultivo del ministro. Nel 1941 la tessera del partito sarebbe diventata requisito per l’esercizio della professione.
In questo contesto, non stupisce che il 17 novembre 1938, quando Vittorio Emanuele III firmò il regio decreto 1728 che poneva le basi giuridiche della discriminazione cancellando il principio di eguaglianza tra i «regnicoli» sancito dall’articolo 24 dello Statuto albertino, il contagio nel mondo giuridico fosse già diffuso. Alti magistrati, avvocati di fama e accademici di prestigio contribuivano alla rivista «Il diritto razzista». In generale, la magistratura si adeguò. Prevalse - chi per paura, chi per viltà - la zona grigia, l’ossequio formale a quelle che Calamandrei definì «leggi abominevoli». I venti magistrati che aderirono fieramente al razzismo antiebraico furono posti al vertice della piramide giudiziaria, salvo riciclarsi in ranghi ancor più elevati dopo la Liberazione. Gli ebrei erano sfiduciati. Fino al 1943 solo 60 fecero ricorso contro provvedimenti discriminatori.
Ma ci fu una parte dei giudici che invece praticò, sotto diverse forme, una resistenza. L’epurazione di 18 magistrati ebrei fu immediata, all’insegna della «purezza razziale dell’intero apparato».
Una forma di resistenza fu quella di chi cercò di limitare, quando non di vanificare, gli effetti delle leggi razziali con una puntigliosa, creativa e cavillosa interpretazione del proprio ruolo. Scrive Giovanni Canzio, ex presidente della Cassazione: «Mentre in Germania i giudici applicavano le norme razziali facendosi interpreti del comune sentimento popolare e conformandosi all’ideologia nazista, in Italia almeno una parte dei giudici interpretava analoghe norme rifacendosi ai principi generali dell’ordinamento, sì da interporre un qualche argine di legalità formale al controllo assoluto messo in atto dal regime».
L’articolo 26 del regio decreto del 1938 attribuiva la competenza esclusiva e insindacabile in materia al ministro dell’Interno, che era lo stesso Mussolini; una legge del 1939 istituiva commissioni speciali, i cosiddetti «tribunali della razza» affidati ad alti magistrati fascistizzati e quindi sostanzialmente emanazione del regime.
Nonostante ciò, alcuni magistrati civili e amministrativi si ritagliarono un ruolo, operando una distinzione: al ministro la decisione «in merito a chi fosse ebreo», ai giudici quella sul godimento dei diritti civili e politici e sullo stato delle persone. Un campo assai vasto: dal lavoro alla famiglia, dal patrimonio all’impresa. Per altro verso, si sostenne un’applicazione restrittiva di leggi considerate eccezionali e si rigettò l’idea, all’epoca (solo?) diffusa, di interpretare il diritto «alla luce del comune sentimento popolare».
La dottrina più autorevole e illuminata - Calamandrei, Galante Garrone, Jemolo - teorizzò il carattere politico, più che la portata giuridica, delle leggi razziali, spiegando che «il concetto di razza è estraneo all’ordinamento italiano». Nel 1939, in una causa in materia di filiazione, la Corte d’appello di Torino (presidente Domenico Riccardo Peretti Griva) rivendicava la propria competenza «a conoscere dell’appartenenza a razza determinata» di un cittadino quando necessario a determinare i limiti della capacità giuridica.
La parte della magistratura schierata col regime non tacque. Giulio Ricci, primo presidente della Corte torinese, contestò l’orientamento con due circolari, che denunciavano l’elusione delle disciplina discriminatoria e paventavano responsabilità dei magistrati fuori linea. Ma Consiglio di Stato e Cassazione difesero i giudici dissidenti, motivando che le deroghe all’autonomia della giurisdizione non potessero essere oggetto di interpretazione estensiva.
I giudici amministrativi annullarono la revoca del nulla osta all’iscrizione universitaria disposta dal ministro degli Esteri nei confronti di un tedesco di origine ebraica. La Corte dei conti restituì la pensione a un’anziana signora.
Fu, quello giudiziario, un eroismo sottile e cocciuto che va ricordato. E coltivato.

La Stampa 15.9.18
Mai prima tanta violenza e livore in un proclama
di Amedeo Osti Guerrazzi


L’odio si crea, l’odio si insegna. A Trieste, davanti una folla immensa, Mussolini attacca per la prima volta apertamente gli ebrei italiani e «l’ebraismo internazionale». Fino a quel momento, le sue rare uscite sul tema dell’antisemitismo e del razzismo sono state dichiaratamente critiche. In un discorso del 1934, ha addirittura schernito «talune dottrine d’oltralpe» riferendosi al razzismo nazista. La svolta del regime è cominciata già dal 1937, con l’inizio della campagna di stampa antiebraica. Ma è a Trieste che Mussolini si espone personalmente con un discorso che è un violentissimo attacco, ma anche un capolavoro retorico.
Per la prima volta, «l’ebraismo mondiale» viene indicato come «un nemico inconciliabile» del fascismo. Per la prima volta l’opinione pubblica italiana scopre di avere un nemico.È un passo importantissimo, fondamentale: fino al 1938, nonostante la campagna di stampa partita l’anno precedente, gli ebrei sono stati insultati ed attaccati, anche in maniera pesante, ma mai con questa virulenza e livore, e soprattutto mai da figure di primo piano del regime. Inoltre Mussolini qui non spiega in alcun modo perché gli ebrei sono dei nemici e suggerisce, invece, che il regime è «costretto» a difendersi da un nemico pericoloso e aggressivo. Il fascismo è giusto e generoso, ma nonostante ciò è attaccato dall’interno (gli ebrei italiani) e dall’esterno (l’ebraismo internazionale). Come tutte le dittature, il fascismo ha bisogno di presentare al «popolo» dei «nemici» contro i quali mobilitarsi, e le conseguenze funeste di questa politica si vedranno durante l’occupazione nazista, quando i fascisti più radicali aiuteranno le SS nelle deportazioni. Il percorso dell’esclusione e della persecuzione, e la retorica dell’odio contro il «nemico» ebreo, voluto da Mussolini con un cinismo rivoltante, comincia da questo discorso.

Corriere 15.8.18
Sul caso Diciotti il 61% si schiera col leader leghista
di Nando Pagnoncelli


Favorevole anche quasi un quarto
degli elettori di centrosinistra
I l tema dell’immigrazione è centrale nel dibattito politico. Per quanto, con evidenza, sovrastimato, visto il calo degli afflussi che tutte le statistiche registrano, esso rimane cruciale. In primo luogo perché riguarda alcuni aspetti politici rilevantissimi sui quali si definiranno i rapporti di forza del prossimo Parlamento europeo, che a loro volta determineranno le caratteristiche dell’Unione e addirittura le condizioni della sua stessa sopravvivenza. In secondo luogo, perché il tema parla alla «pancia» del Paese.
Quest’estate il caso della Diciotti — la nave della Guardia costiera italiana che aveva raccolto 177 migranti ma cui era stata negata la possibilità di sbarcarli — è stato emblematico della linea del ministro dell’Interno Matteo Salvini.
L’importanza del caso è già evidente nella «audience» che ha avuto: poco meno del 90% dei nostri intervistati ne è al corrente e il 60% ha seguito la vicenda nei dettagli, con la punta massima di attenzione tra gli elettori del centrosinistra, dove si arriva circa all’80% di informati.
La linea di Salvini e la sua conduzione del caso sono condivise dalla larga maggioranza: oltre il 60% apprezza le scelte, solo un quarto degli elettori è critico. Si tratta di un consenso diffuso, che si massimizza tra gli elettori leghisti (86%), ma rimane elevatissimo anche tra i pentastellati (74% in accordo, 20% critico), e maggioritario anche tra chi ha scelto Forza Italia e FdI (72%). Elevata invece la contrarietà degli elettori di centrosinistra (70%), anche se quasi un quarto apprezza il ministro. È interessante sottolineare che anche tra gli elettori cattolici il sostegno a Salvini rimane prevalente: tra coloro che frequentano le funzioni religiose almeno una volta alla settimana, i critici arrivano al 33% ma i consensi sono al 57%, solo 4 punti in meno della media.
Alla notizia dell’apertura di un’indagine sul suo operato, Salvini ha reagito in maniera sprezzante appellandosi alla sua legittimità di eletto. In questo molti hanno visto toni eccessivi e rischiosi, anche perché utilizzati da un rappresentante istituzionale. Cionondimeno la maggioranza sta dalla sua parte: il 56% condivide, mentre la critica sale al 31%. Ancora una volta compatti gli elettori leghisti, seguiti dai 5 Stelle; in questo caso gli elettori di FI e FdI sono più tiepidi, anche se la larga maggioranza (58%) approva. Anche in questo caso tra gli elettori di centrosinistra permane una quota non irrilevante (quasi un quinto) che si schiera con Salvini. Così anche il 55% degli elettori cattolici.
All’interno del M5S sul caso Diciotti si era levata la voce contraria del presidente della Camera Roberto Fico. Abbiamo quindi chiesto se questa vicenda possa avere ripercussioni sul governo. Le risposte sono meno nette delle precedenti: il 48% pensa che non ci saranno ricadute, quasi il 30% al contrario ritiene che possano esservi conseguenze. Solo gli elettori di centrosinistra si attendono (o auspicano) ricadute, ma è da rilevare che circa un quarto sia di leghisti che di pentastellati pensa che l’episodio possa incrinare l’unità dell’esecutivo.
I dati confermano quindi il diffuso consenso per Salvini su questi temi, ma registrano anche la presenza di elementi critici negli elettorati dei partiti di maggioranza. È tuttavia evidente che, ancora una volta, è il leader leghista a essere premiato rispetto all’altro vicepremier Di Maio. Contraddizione che abbiamo già visto e che può rafforzare le tensioni, soprattutto alla vigilia della definizione del bilancio preventivo.

Repubblica 15.9.18
Il sondaggio Demos
Lega primo partito, M5S in calo fiducia record nel governo
Il Carroccio oltre il 30%, mentre i grillini perdono tre punti rispetto alle politiche. Ma Di Maio cresce in popolarità. Esecutivo promosso dal 62%. Il Pd fermo al 17%. Bene Gentiloni, male Renzi
di Ilvo Diamanti


La Lega di Matteo Salvini oggi è il primo partito in Italia, per grado di consensi. Secondo il sondaggio di Demos, condotto negli scorsi giorni, ha superato, di poco, il 30%. Mentre il M5S è sceso al 29,4%. Ha, dunque, perduto più di 3 punti, rispetto alle elezioni del 4 marzo. E poco meno di 2, negli ultimi 4 mesi. LdS e M5S, insieme, sfiorano il 60%. Gran parte degli elettori italiani, dunque, è dalla loro parte. E sostiene il governo, guidato da Giuseppe Conte: 62%.
Il livello di consenso più elevato registrato da un governo negli ultimi due anni. Tutti gli altri partiti seguono a distanza.
Il PD scende ancora, per quanto di poco. Si attesta intorno al 17%. Circa il doppio rispetto a Forza Italia. Oggi è “ridotta” all’8,7%. Ha, dunque, perduto 4 punti e mezzo in pochi mesi.
Tutti gli altri sono ancora più lontani. Più indietro. A partire da LeU, che non arriva al 3%. Ma anche i Fd’I scendono notevolmente. Al 2,7%. L’indice di popolarità dei leader riflette fedelmente questi orientamenti. E i rapporti di forza che delineano. Il premier, Giuseppe Conte, è, infatti, apprezzato dal 61% degli italiani (intervistati da Demos). Appena sopra a Matteo Salvini. Il ministro degli Interni, e capo della Lega, raggiunge, a sua volta, il 60%: 8 punti in più negli ultimi 4 mesi. Ma la progressione più rilevante viene espressa da Luigi Di Maio.
La sua popolarità, infatti, durante l’estate, è salita di 15 punti. Oggi ha raggiunto il 57%.
Così il M5s non appare più un soggetto politico “im-personale”, in mezzo a tanti partiti “personalizzati”.
Evidentemente, la coabitazione, talora “conflittuale”, con Salvini e la Lega gli ha dato visibilità.
Proprio perché “conflittuale”.
Per distinguersi e, talora, reagire alle tensioni esterne. Per rispondere alle polemiche con gli altri partiti e con gli altri leader. In particolare sulla questione degli sbarchi e della chiusura dei porti alle navi che trasportano emigranti. Come rilevano Biorcio e Bordignon nel testo pubblicato in questa stessa pagina. Si tratta, infatti, di un evento che ha incrementato il consenso alle forze di governo.
Accentuandone il distacco rispetto ai partiti di opposizione. Soprattutto al PD. I due partiti di maggioranza sono accomunati, soprattutto, dal distacco verso gli altri. E dalla necessità di governare “insieme”. Il sostegno al governo, infatti, è pressoché unanime fra gli elettori del M5s e della Lega. Allo stesso tempo, la fiducia “personale” nei confronti del premier appare altrettanto ampia. Favorita, in una certa misura, dal suo limitato grado di protagonismo.
Conte, infatti, “appare” poco “appariscente”. Sempre “in mezzo” ai due vice-premier.
Quasi accompagnato, per mano, da loro. Eppure, proprio questo basso profilo gli permette di intercettare i consensi in tempo di dissensi aspri. Conte non entusiasma e non emoziona. Ma non provoca neppure fratture e divergenze. In tempi nei quali le divergenze e le fratture attraversano l’intero campo della politica. E dividono, in qualche misura, gli stessi soci di maggioranza. Lega e M5s, Salvini e Di Maio. “Quasi amici”.
Per necessità. Fino a quando non si sa. In vista delle elezioni Europee. Che solleveranno la questione che, probabilmente, li “unisce” maggiormente. Cioè: la “divisione” dalla UE. Dalla prospettiva europea. Mentre l’Europa appare sempre più debole e incerta. A maggior ragione di fronte alle tensioni e alle sfide provocate dall’Italia.
Per prima e in primo luogo, l’immigrazione. Gli sbarchi dall’Africa. Appunto.
Tuttavia, la graduatoria dei leader fornisce due ulteriori motivi di riflessione. Meglio: due varianti di una stessa tendenza. La crisi del Centro-sinistra. Il primo motivo degno di attenzione è costituito dal grado di fiducia verso Gentiloni. Ancora elevato, per quanto in lieve calo. Utile a chiarire la popolarità di Conte.
Paolo Gentiloni, infatti, era e resta un leader “popolare” perché “impopulista”. Mentre Conte emerge perché risulta il “meno populista” in una compagine e in mezzo a leader “populisti”. Va segnalato, peraltro, il buon livello di fiducia verso Emma Bonino, nonostante l’insuccesso elettorale. E verso Giorgia Meloni. Nonostante il limitato grado di consensi al suo partito.
Tuttavia, se scendiamo lungo la graduatoria dei leader, in fondo, incontriamo i “capi” dei partiti di Sinistra e di Centro-sinistra.
Per primo, meglio, per ultimo, Matteo Renzi. Il “capo” del PdR.
Il suo “partito personale”. Il declino dei consensi nei suoi confronti è evidente. Direi: eclatante. Ridotto al 23%.
Superato, perfino, dall’inventore del “partito personale”. Silvio Berlusconi. La disaffezione verso Renzi si ripercuote, inevitabilmente, sul “suo” partito. Nel quale, peraltro, nessuno sembra in grado di raccoglierne l’eredità.
O meglio: di andare oltre i limiti del presente. Cioè: oltre Renzi.
Maurizio Martina, attuale segretario dell’Assemblea Nazionale PD, non dis-piace. Ma non ha il piglio del Capo. Nicola Zingaretti, governatore del Lazio e (auto)candidato alla leadership del PD, supera di poco il 30%. E non pare in grado di imporsi all’attenzione popolare. Almeno per ora.
Mentre Pietro Grasso conferma come sia difficile attrarre consensi alla sinistra di un soggetto politico di Centro-sinistra in crisi di consensi.
Insomma, i dati di questo Atlante Politico di Demos confermano l’immagine di un Paese dove il consenso si alimenta del dissenso. Verso tutti. Dove la sindrome dell’assedio spinge la società a guardare gli altri con sospetto.
Con Paura. Dove l’Europa e il mondo incombono su di noi.
Come una minaccia. Un Paese dove l’anti-politica e gli anti-politici prevalgono. Perché è più facile affermarsi agitando la sfiducia e la paura piuttosto che alimentando fiducia e ben-essere.
Ma sulla sfiducia, sulla paura, sull’anti-politica non è possibile costruire, almeno: immaginare, il futuro. Ci resta solo il passato, da esorcizzare. E un eterno presente. Da cui difendersi.

il manifesto 15.9.18
Nuovo stock di bombe italiane verso lo Yemen
Export bellico. 10 milioni di euro di «armamenti» esportati a giugno dalla Sardegna all’Arabia saudita, in barba agli impegni presi e ripetuti dal Movimento Cinquestelle
di Giorgio Beretta

*Osservatorio permanente sulle armi leggere e sulle politiche di sicurezza e difesa di Brescia

Più di 10 milioni di euro. Per l’esattezza 10.453.696 euro di «armi e munizionamento» esportate lo scorso giugno dalla Sardegna, destinazione Arabia Saudita. È la laconica cifra apparsa nel lungo elenco del database dell’Istat che riporta le esportazioni mensili di ogni prodotto dall’Italia nel mondo. Un dato come un altro, si direbbe. Se non fosse che il primo giugno scorso è entrato in carica il governo Conte, nato dal contratto tra Lega e Movimento 5 Stelle. Gli stessi Cinque Stelle che negli anni scorsi avevano accusato Renzi e Gentiloni di avere «le mani sporche di sangue» per le continue forniture di bombe aeree all’Arabia Saudita.
I micidiali ordigni della serie MK da 500 a 2000 libbre, prodotti a Domusnovas in Sardegna dall’azienda tedesca Rwm Italia, vengono utilizzati dalla Royal Saudi Air Force per bombardare indiscriminatamente lo Yemen. Dal database dell’Istat non è possibile sapere il numero di ordigni esportati a giugno, ma una cosa è certa: sono dello stesso tipo dei quasi 26 milioni spediti lo scorso aprile quando il governo Gentiloni era in carica solo per gli affari correnti. Un bel biglietto da visita per il sedicente il «governo del cambiamento», non c’è che dire.
Forniture già autorizzate in precedenza sulle quali sarebbe stato difficile intervenire? Può darsi. Ma non aspettiamoci che i sauditi vengano a proporre all’Italia nuovi contratti per bombe aeree. Innanzitutto perché il governo Renzi nel 2016 ne ha autorizzato la fornitura per 411 milioni di euro, cioè per 19.675 ordigni. Si tratta di un record storico nell’export di munizionamento militare e l’azienda Rwm non è certo in grado di realizzarlo in un solo anno: è infatti di un contratto pluriennale. Ma soprattutto perché nel frattempo la multinazionale tedesca, attraverso la sua controllata sudafricana Rheinmetall Denel Munition (Rdm) ha aperto, in joint-venture con la Samic, a sud di Riyad uno stabilimento per la produzione non solo di bombe da artiglieria, ma anche di bombe aeree da 500 a 2.000 libbre. Le stesse che la Rheinmetall produce a Domusnovas attraverso la sua controllata.
Ecco perché se il leader del M5S, Luigi Di Maio vuole essere credibile quando annuncia, come ha fatto nei giorni scorsi, di non voler continuare ad esportare armi verso Paesi in guerra, dovrebbe innanzitutto chiarire se intende sospendere i contratti di forniture già autorizzati dai governi precedenti o se si riferisce solo a nuovi futuri contratti. Se, come ha dichiarato ad Avvenire il capogruppo M5S in commissione Esteri, senatore Stefano Lucidi, il Movimento ritiene davvero che «i precedenti governi abbiano violato la legge 185 del 1990 sull’export bellico e ignorato ben tre risoluzioni del Parlamento europeo continuando a vedere bombe all’Arabia Saudita accusata da Onu e Ue di crimini di guerra in Yemen», la prima cosa da fare è sospendere le forniture di bombe a Riyad. Il governo spagnolo nei giorni scorsi aveva annunciato una decisione in questa direzione, per poi fare un clamoroso dietrofront.
Sospendere una fornitura non è indolore. Non tanto per le possibili ritorsioni legali da parte dell’azienda. Soprattutto perché può mettere a rischio nuovi e ben più lucrosi contatti nel settore degli armamenti. Non a caso i governi dei Paesi più autoritari del mondo da alcuni anni chiedono che i contratti militari più rilevanti – che devono sempre essere autorizzati dai governi dei Paesi produttori – vengano stipulati come contratti G2G, cioè direttamente tra governi. Una modalità che tende a favorire soprattutto l’acquirente se il produttore non è in grado di mettere clausole, non solo di tipo economico ma di rispetto dei trattati internazionali in materia di armamenti, che possano permettergli di sospendere o rescindere quel contratto.
C’è però un altro aspetto. Se il governo Conte decidesse anche solo di non autorizzare nuovi contratti con i sauditi sarebbe già un passo rilevante. Perché li bloccherebbe non solo per il nostro Paese ma per tutti i Paesi dell’Ue, ai sensi della Posizione comune 944 del 2008.

Corriere 15.9.18
Preti e coristi.
La festa a New York e i selfie con le star Ecco come è nata l’inchiesta sul Coro
L’imbarazzo del Vaticano. Accuse al maestro
di Fiorenza Sarzanini


Roma A tradire il maestro del coro della cappella Sistina Massimo Palombella sono state le foto inviate nelle chat WhatsApp di numerosi preti e coristi. Perché quando hanno visto come si era trasformato l’evento organizzato nel maggio scorso presso il Metropolitan Museum di New York, molti genitori dei «pueri» hanno deciso di scrivere alla segreteria di Stato del Vaticano per protestare. E pochi giorni dopo papa Francesco ha autorizzato l’avvio dell’indagine contro lo stesso Palombella e il direttore amministrativo Michelangelo Nardella, poi sospeso dal servizio.
Nelle immagini si vedono i preti sorridenti che scattano foto e selfie con la cantante di fama mondiale Rihanna, con la sua collega Jennifer Lopez e con l’attrice Salma Hayek, tutte con abiti di scena molto succinti. E poi altre attrici vestite da suore in un tripudio di musica e balli che all’interno delle Mura deve essere apparso eccessivo per un appuntamento che era stato presentato in maniera del tutto diversa.
Alla fine di febbraio è monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ad annunciare la scelta di partecipare alla manifestazione. «Parafrasando un filosofo materialista dell’800 che diceva “L’uomo è ciò che mangia” — aveva detto Ravasi — io dico che l’uomo è ciò che veste. Già dalla Bibbia si capisce che è Dio il più grande sarto: capitolo terzo versetto 20, Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelle e li vestì». Il programma prevede la partecipazione del coro, ma evidentemente nessuno immagina che cosa accadrà negli Stati Uniti. E invece quando cominciano a circolare le foto della festa con i religiosi in abito liturgico rosso, i genitori dei piccoli coristi si allarmano. E non sono gli unici.
Le mamme scrivono a monsignor Georg Gänswein, prefetto della casa pontificia, e al segretario di Stato Pietro Parolin. Protestano per l’evento, ma denunciano anche il comportamento del maestro Palombella con i coristi. Si parla di maltrattamenti. E monta il caso. L’indagine autorizzata dallo stesso pontefice viene affidata al nunzio apostolico Mario Giordana. Nella prima relazione — ancora segreta — si parla di abusi, ma le verifiche sono ancora in corso per stabilire se siano state compiute anche molestie.
Quanto è stato scoperto ha comunque creato molto scalpore e all’interno della Santa Sede c’è già chi dà per scontato che il maestro Palombella possa essere a breve sospeso dall’incarico, anche tenendo conto che con Nardella è accusato anche di aver gestito in maniera illecita i soldi della cappella musicale ed è indagato dalle autorità vaticane per riciclaggio, peculato e truffa.

il manifesto 15.9.18
Kierkegaard, un intreccio fra umano e divino
Filosofia. «Ogni cosa ha il suo tempo», a cura di Giulia Longo, per Mimesis
di Alberto Giovanni Biuso

In un appunto del 1846 – per la prima volta tradotto in italiano da Giulia Longo in Ogni cosa ha il suo tempo: il ‘nodo dialettico’ kierkegaardiano tra ‘edificante’ e ‘ripresa’ (Mimesis, pp. 287, euro 26, presentazione di Eugenio Mazzarella, con scritti inediti del filosofo) – Kierkegaard afferma che «da molto tempo ho pigramente rinunciato all’umanità sebbene o proprio perché l’ho studiata a fondo». Si può forse partire da questo filo per seguire il modo in cui l’autrice conduce il suo percorso cronologico e teologico dentro il complesso gomitolo che la persona e il pensiero di Kierkegaard sono stati.
SE QUESTO SCRITTORE è in qualche modo un unicum dentro il pensare cristiano è anche perché il suo essere «autore religioso dal principio alla fine» non ha a che fare con rigorosità luterane o clemenze cattoliche ma con l’«onestà» da lui più volte rivendicata.
Onestà che lo conduce al nucleo teoretico rappresentato dal tempo come questione inestricabilmente umana e divina. Kierkegaard si chiede infatti sino a che punto dei mortali possano parlare dell’eterno, possono averne un’idea. Per noi infatti «ogni cosa ha il suo tempo». Questa formula del Qohélet è per Kierkegaard la sentenza fondante che edifica il mondo poiché «contiene al suo interno tanto il rimando alla temporalità (Timelighed) quanto l’accenno alla e della eternità (Evighed) posta nel cuore di ciascuna stessa cosa».
LA TEMPORALITÀ edificante diventa in se stessa ripresa in quanto movimento che procede in avanti sul fondamento di un ricordare che incide assai più sul futuro di quanto possa fare nei confronti del passato. L’apertura heideggeriana all’avvenire, inteso come scaturigine del presente e dell’essere stato, ha qui uno dei suoi fondamenti. Allo stesso modo, una delle fonti della concezione dell’esistenza quale ‘essere alla morte’ è la meditazione kierkegaardiana che vede nella morte «il più grande pensatore», la cui eloquenza non ha concorrenti nell’evidenza ogni volta ripetuta della propria verità. La radicalità di questo pensare rischia in Kierkegaard di diventare paradossale. In suo nome, infatti, il filosofo cristiano si allontana sia dalla Chiesa sia dalla filosofia.
LA CHIESA DI STATO danese viene accusata in modo netto e ripetuto di costituire una «cristianità» che sarebbe l’esatto contrario del «cristianesimo», tanto da giungere alla constatazione che «il Cristianesimo del Nuovo Testamento non esiste più». Affermazione analoga e insieme diversa rispetto alla constatazione nietzscheana per la quale «in fondo è esistito un solo cristiano, e questi morì sulla croce. Il ‘Vangelo’ morì sulla croce. Ciò che da quel momento è chiamato ‘Vangelo’ era già l’antitesi di quel che lui aveva vissuto» (L’anticristo, § 39). A che cosa è servita la critica kierkegaardiana? Longo riconosce che «oggi in Danimarca le chiese sono pressoché deserte. Viene da chiedersi se le kierkegaardiane «acrobazie con la camicia di forza» siano valse a qualcosa, o se non si siano rivelate, anch’esse, vanità e fatica inutile».
PER QUANTO RIGUARDA la filosofia, secondo Kierkegaard la «Verità» è troppo esaltata dal pensiero moderno, sino a diventare qualcosa di gelido. E tuttavia domandiamoci che cosa potrebbe sostituire la filosofia: l’onestà, un testo sacro, un pensiero interamente religioso?
A Kierkegaard è forse lecito chiedere soltanto frammenti di risposta. Di questi frammenti sono parte l’«educazione al distacco» che lo scrittore esercitò in particolare, ma non solo, con la fidanzata Regine; il riconoscimento rivolto al paganesimo di essere stato – nonostante tutto – «l’unica grande evoluzione della storia universale» e ai Greci di essere sempre rimasti la sua «consolazione»; l’esatta intuizione per la quale «il tempo proprio dell’eterno è essenzialmente differente rispetto al tempo del mutevole, del corruttibile, piagato dall’annosa ‘saggezza degli anni’. Ove questo, e ogni cosa in esso, ha il suo tempo, l’eterno ha sempre tempo».
Una complessità paradossale, edificante e ripetuta intesse di sé anche l’andamento teoretico e lo stile di questo libro, nel quale sembra davvero di sentire l’«euritmia argomentativa» di Kierkegaard.

Repubblica 15.9.18
Wittgenstein una Mary Poppins a Cambridge
di Marco Belpoliti


In un libro del 1991, ora introvabile, Ray Monk ricostruisce la biografia del filosofo austriaco, i suoi rapporti con Keynes e con Sraffa, con Turing e con Popper, la sua travolgente personalità di pensatore puro
Dio è arrivato. L’ho incontrato sul treno delle 5.15». Così scrive John Maynard Keynes alla moglie Lydia Lopokova il 18 gennaio 1929. Dio è Ludwig Wittgenstein che torna dopo quindici anni di assenza a Cambridge dai suoi vecchi amici e sostenitori. Keynes, il maggior economista del XX secolo, se lo porta a casa e apprende che Dio vuole stabilirsi nella città universitaria per continuare a scrivere. Si ritira nello studio e confida a Lydia: «Penso che la fatica sarà terribile. Ma non debbo in alcun modo consentire che mi parli per più di due o tre ore al giorno». La stessa cosa scriverà un altro genio di Cambridge, Piero Sraffa, in una lettera a Dio: non ce la faccio più a discutere con te, smettiamo di vederci.
Con il ritorno di Wittgenstein nella città universitaria – c’era stato dal 1911 fino all’arruolamento nella Prima guerra mondiale nell’esercito austriaco – siamo a pagina 255 di una biografia del filosofo, uno degli uomini più affascinanti, geniali e sconcertanti del Novecento, opera di Ray Monk, Wittgenstein. Il dovere del genio, pubblicata da Bompiani nel 1991, ristampata in edizione economica e poi scomparsa. Si tratta della più completa biografia del filosofo, perché l’altra grande biografia, opera di Brian McGuinness, Wittgenstein. Il giovane Ludwig 1989- 1921, apparsa dal Saggiatore nel 1991, si ferma a quell’anno, ed è pure lei scomparsa dalle librerie da decenni. Perché dovremmo leggere il libro di Monk dedicato a questo difficile autore delle cui opere molti hanno sentito parlare ( Tractatus logico- philosophicus e Ricerche filosofiche) ma pochissimi davvero letto? Primo perché è il maggior filosofo del XX secolo. Secondo, perché la sua vita è un esempio straordinario di cosa sia l’esistenza di un pensatore nell’età in cui il pensiero filosofico ha affrontato problemi in apparenza insolubili.
Terzo, perché si capisce cosa è un genio seguendo passo a passo esperienze umane e d’amicizia che non hanno alcuna eccezionalità, eppure sono assolutamente straordinarie.
Tutto in Wittgenstein è fuori dal normale, come avevano capito Frege, Russell, G. E. Moore, Keynes, i professori di Cambridge e la pletora dei discepoli e amici di un’intera vita. La parte più affascinante, come vedrà chi riuscirà a reperire in biblioteca questo volume, o a farselo prestare da amici, è l’ultima, poco prima della morte.
Certo gli anni in cui Wittgenstein, rampollo di una delle più ricche famiglie d’Europa, dopo aver studiato ingegneria aeronautica, si fionda a Cambridge per parlare con Russell, di cui ha letto i Principia Mathematica scritti insieme a Alfred North Whitehead, o quelli in cui partecipa alla guerra e, dopo aver riparato macchine chiede di andare in prima linea e finisce prigioniero degli italiani a Cassino, oppure gli anni in cui diventa il geniale professor Wittgenstein, che fa lezione a pochi allievi a casa di uno di loro, sono raccontati tutti in modo affabulante da Monk, giovane laureato a Oxford con una tesi sulla matematica del suo personaggio.
Ma sono proprio gli ultimi due anni della vita del filosodo a dare il segno di una totale libertà di pensiero e a farne un "cittadino del mondo", anni in cui Wittgenstein non ha più dimora, ha perso il gusto per la solitudine e l’indipendenza che l’avevano portato a costruire una casa in un fiordo norvegese, e in cui vive ospite dei suoi giovani allievi tra gli Stati Uniti, Cambridge e Oxford, per poi morire nella residenza del suo medico curante. In quel periodo, scrive Monk, Wittgenstein ripaga i suoi ospiti con la moneta più preziosa che possiede: il talento filosofico. Fino a quel punto era stato imbarazzante, pesante e insopportabile per coloro che erano stati i suoi interlocutori abituali o occasionali. Li estenuava con discussioni interminabili su tutto.
Era bizzarro, litigioso, imprevedibile. S’innamorava degli allievi giovani e cercava amicizie che lo potessero sostenere nel dialogo filosofico con se stesso. Ci sono pagine sul rapporto con Moore, a sua volta un grande filosofo, o con Frank Ramsey, giovanissimo traduttore in inglese del Tractatus, morto molto presto, che lo mostrano. E poi Drury, talentuoso aspirante filosofo, che lui convince a diventare medico; si laurea e fa lo psichiatra, uno dei pochi con cui l’amicizia è durata nel tempo e che lo ha capito, come si comprende dalle pagine che ha scritto in proposito. Tutto ruota intorno al rapporto tra etica e pensiero. Il passaggio dal Tractatus – opera mitica che per capirla serve un seminario e vari libri di commento – alle ultime opere, tutte scritte in modo frammentario, pensoso e instabile, in cui i temi principali sono "la certezza", i "giochi linguistici", "il colore", è raccontato da Monk in maniera straordinaria, passando dalla vita al pensiero, e viceversa. Misticismo e teoria logica sono solo in apparenza inconciliabili: in Wittgenstein si uniscono e si fondono.
Omosessuale, ama una donna, Marguerite, e le propone di sposarsi. Geloso nelle sue amicizie, lascia la filosofia per fare il maestro di scuola nelle montagne dell’Austria e fallisce la missione pedagogica.
Sempre sull’orlo del suicidio, alterna la filosofia alla lettura di riviste poliziesche. Ama andare al cinema e odia l’ambiente accademico di Cambridge. Nessun filosofo del XX secolo, salvo forse Walter Benjamin, è stato come lui. Tuttavia Benjamin era prima di tutto uno scrittore, Wittgenstein un pensatore puro (e insieme impuro). Il racconto di come il suo pensiero si sia formato tra viaggi avanti e indietro per l’Europa, incontri e liti (clamorosa quella con Alain Turing, terribile quella con Karl Popper) è ipnotico.
Wittgenstein è stato il pensatore più antiaccademico che sia esistito.
Ricchissimo, rinuncia all’eredità e vive di borse di studio senza avere nessuna cattedra prima dell’ultima parte della vita. Voleva solo pensare. Non scrivere libri o articoli su riviste. Pensare, perché la sua ambizione era di essere perfetto sotto tutti i punti di vista. Segno d’un egocentrismo che farà poi scuola.
Uno così c’è solo in una fiaba, ed è una donna: Mary Poppins.
Wittgenstein era solo Dio, come lo chiamava con ironia Keynes.

il manifesto 15.9.18
A Gaza dimenticata si continua a morire, ieri tre palestinesi uccisi
Territori palestinesi occupati. Proseguono le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno ma i media internazionali non danno più attenzione alla campagna contro il blocco israeliano di Gaza. Cariche della polizia a Khan al Ahmar
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Gaza dimenticata, di nuovo. Sono bastate un po’ di indiscrezioni su un accordo di ‎tregua tra Israele e il movimento islamico Hamas ‎«ormai fatto‎» per far richiudere in ‎un cassetto il voluminoso dossier di Gaza e della condizione della sua gente: oltre ‎due milioni di palestinesi che vivono da prigionieri in meno di 400 chilometri ‎quadrati. Ma quell’accordo resta incerto, non se ne parla più. Anzi, si sono ‎complicati ancora una volta i rapporti tra i mediatori egiziani e la leadership ‎islamista e il Cairo ha richiuso il valico di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo ‎arabo. In questo quadro i palestinesi uccisi continuano a non fare notizia. Eppure ‎ogni venerdì proseguono le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno ‎cominciata a fine marzo. E il bilancio anche ieri è stato drammatico. Diecimila forse ‎più palestinesi hanno raggiunto le linee di demarcazione con Israele per chiedere la ‎fine del blocco di Gaza e tre dimostranti – Shadi Abdel Aal, 12 anni, Hani Afana, 30 ‎e Mohammed Chakoura, 20 – sono stati uccisi dai colpi sparati dai tiratori scelti ‎sulla folla a Jabaliya e Khan Yunis. I feriti sono stati almeno 248, 15 dei quali ‎colpiti da proiettili. Israele ha denunciato il lancio di due granate contro una jeep e il ‎ferimento di un soldato per lo scoppio di un ordigno. La sua artiglieria ha fatto ‎fuoco su presunte postazioni di Hamas in particolare a Khouza.
 Qualche ora prima in Cisgiordania, alle porte di Gerusalemme Est, reparti della ‎polizia israeliana avevano chiuso gli accessi per Khan al Ahmar scatenando le ‎proteste degli abitanti e degli attivisti che provano a proteggere, con la loro ‎presenza, il villaggio beduino di cui la Corte suprema israeliana ha decretato la ‎demolizione oltre allo sgombero della comunità beduina che vive in quella località ‎da decine di anni. Almeno cinque manifestanti sono stati arrestati, diversi i contusi. ‎Due giorni fa, poco prima dell’alba, la polizia aveva rimosso e smantellato cinque ‎container portati dai palestinesi con l’intenzione di dare vita a un nuovo villaggio, ‎Wadi al Ahmar, accanto a Khan al Ahmar.
 Si aggrava lo scontro tra la leadership palestinese e l’Amministrazione Trump. ‎Jared Kushner, inviato speciale in Medio oriente e genero del presidente americano, ‎giovedì in un’intervista aveva affermato che il riconoscimento Usa di Gerusalemme ‎come capitale di Israele, il taglio di finanziamenti americani per centinaia di milioni ‎di dollari ai palestinesi e all’agenzia dell’Onu per i profughi Unrwa e la chiusura ‎dell’ufficio dell’Olp a Washington, non hanno diminuito le possibilità di ‎raggiungere un accordo, anzi, a suo dire le hanno accresciute. Ieri Nabil Abu ‎Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen ha replicato che Kushner ‎conferma ‎«la sua totale ignoranza» del Medio oriente. ‎«Il popolo palestinese – ha ‎avvertito Abu Rudeinah – non accetterà pressioni, sanzioni o politiche di ricatto…le ‎mosse americane sono la prova di un pregiudizio cieco‎».
 In queste ore si riaccendono anche i riflettori sulla salute precaria dell’83enne Abu ‎Mazen. Il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ieri in un’intervista ha rivelato ‎che a maggio il presidente palestinese si è trovato in condizioni molto critiche e ‎durante il suo ricovero per una polmonite a Ramallah il suo entourage aveva perso ‎ogni speranza.‎

il manifesto 15.9.18
A Gaza dimenticata si continua a morire, ieri tre palestinesi uccisi
Territori palestinesi occupati. Proseguono le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno ma i media internazionali non danno più attenzione alla campagna contro il blocco israeliano di Gaza. Cariche della polizia a Khan al Ahmar
di Michele Giorgio


GERUSALEMME Gaza dimenticata, di nuovo. Sono bastate un po’ di indiscrezioni su un accordo di ‎tregua tra Israele e il movimento islamico Hamas ‎«ormai fatto‎» per far richiudere in ‎un cassetto il voluminoso dossier di Gaza e della condizione della sua gente: oltre ‎due milioni di palestinesi che vivono da prigionieri in meno di 400 chilometri ‎quadrati. Ma quell’accordo resta incerto, non se ne parla più. Anzi, si sono ‎complicati ancora una volta i rapporti tra i mediatori egiziani e la leadership ‎islamista e il Cairo ha richiuso il valico di Rafah, l’unica porta di Gaza sul mondo ‎arabo. In questo quadro i palestinesi uccisi continuano a non fare notizia. Eppure ‎ogni venerdì proseguono le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno ‎cominciata a fine marzo. E il bilancio anche ieri è stato drammatico. Diecimila forse ‎più palestinesi hanno raggiunto le linee di demarcazione con Israele per chiedere la ‎fine del blocco di Gaza e tre dimostranti – Shadi Abdel Aal, 12 anni, Hani Afana, 30 ‎e Mohammed Chakoura, 20 – sono stati uccisi dai colpi sparati dai tiratori scelti ‎sulla folla a Jabaliya e Khan Yunis. I feriti sono stati almeno 248, 15 dei quali ‎colpiti da proiettili. Israele ha denunciato il lancio di due granate contro una jeep e il ‎ferimento di un soldato per lo scoppio di un ordigno. La sua artiglieria ha fatto ‎fuoco su presunte postazioni di Hamas in particolare a Khouza.
 Qualche ora prima in Cisgiordania, alle porte di Gerusalemme Est, reparti della ‎polizia israeliana avevano chiuso gli accessi per Khan al Ahmar scatenando le ‎proteste degli abitanti e degli attivisti che provano a proteggere, con la loro ‎presenza, il villaggio beduino di cui la Corte suprema israeliana ha decretato la ‎demolizione oltre allo sgombero della comunità beduina che vive in quella località ‎da decine di anni. Almeno cinque manifestanti sono stati arrestati, diversi i contusi. ‎Due giorni fa, poco prima dell’alba, la polizia aveva rimosso e smantellato cinque ‎container portati dai palestinesi con l’intenzione di dare vita a un nuovo villaggio, ‎Wadi al Ahmar, accanto a Khan al Ahmar.
 Si aggrava lo scontro tra la leadership palestinese e l’Amministrazione Trump. ‎Jared Kushner, inviato speciale in Medio oriente e genero del presidente americano, ‎giovedì in un’intervista aveva affermato che il riconoscimento Usa di Gerusalemme ‎come capitale di Israele, il taglio di finanziamenti americani per centinaia di milioni ‎di dollari ai palestinesi e all’agenzia dell’Onu per i profughi Unrwa e la chiusura ‎dell’ufficio dell’Olp a Washington, non hanno diminuito le possibilità di ‎raggiungere un accordo, anzi, a suo dire le hanno accresciute. Ieri Nabil Abu ‎Rudeinah, portavoce del presidente palestinese Abu Mazen ha replicato che Kushner ‎conferma ‎«la sua totale ignoranza» del Medio oriente. ‎«Il popolo palestinese – ha ‎avvertito Abu Rudeinah – non accetterà pressioni, sanzioni o politiche di ricatto…le ‎mosse americane sono la prova di un pregiudizio cieco‎».
 In queste ore si riaccendono anche i riflettori sulla salute precaria dell’83enne Abu ‎Mazen. Il segretario generale dell’Olp, Saeb Erekat, ieri in un’intervista ha rivelato ‎che a maggio il presidente palestinese si è trovato in condizioni molto critiche e ‎durante il suo ricovero per una polmonite a Ramallah il suo entourage aveva perso ‎ogni speranza.‎

La Stampa 15.9.18
La Cina ora è pronta:
“Andiamo sulla Luna”
di Francesco Radicioni


Non è un mistero che sviluppo economico e crescente peso geopolitico stiano trasformando la Cina in una delle potenze più ambiziose nell’esplorazione del cosmo: secondo gli analisti, la Repubblica popolare potrebbe ritagliarsi un ruolo di primo piano nella prossima corsa allo spazio. «Il nostro obiettivo - diceva Wu Yanhua, vicedirettore della China National Space Administration - è far diventare intorno al 2030 la Cina una delle più grandi potenze al mondo nel settore spaziale».
Nei prossimi mesi il rover della Chang’e-4 esplorerà «il lato oscuro della Luna». Una missione che consentirà a Pechino di raccogliere informazioni sulla parte più antica e profonda della crosta lunare, ma soprattutto di stabilire un primato: fino a oggi nessuno ha fatto ricerca sul lato della Luna più lontano dalla Terra. Oltre ai dettagli tecnici, la spedizione consentirà alla Cina di dimostrare di sapersi muovere liberamente nello spazio compreso tra la Terra e la Luna: una regione strategica dove si trovano satelliti civili, commerciali e militari. Non c’è solo la Luna al centro del programma della Repubblica popolare. Tra gli obiettivi scritti nel Libro Bianco del 2016 c’è anche lanciare una missione di esplorazione di Marte entro il 2020, proseguire la ricerca sugli asteroidi, sul sistema di Giove, sulle forme di vita extra-terrestre e sulle comunicazioni quantistiche, un settore - fondamentale per la sicurezza delle transazioni - in cui Pechino ha già un ruolo di leadership mondiale. Gli sviluppi del programma spaziale cinese dicono molto sulla direzione della Cina di Xi Jinping.
Nell’ultimo piano quinquennale, Pechino ha promesso di entrare nel club delle «grandi potenze spaziali», mentre la stampa cinese non perde occasione di celebrare i taikonauti come esempi di sviluppo scientifico e di orgoglio nazionale. Come durante la Guerra Fredda, sono proprio gli astronauti a incarnare il sogno di Pechino sullo spazio: qualche anno fa Wang Yaping - seconda donna a far parte di una missione della Cnsa - tenne una lezione in collegamento video dalla Shenzhou-10 con le scuole di tutta la Cina. «Due bombe, un satellite», prometteva Mao Zedong negli Anni 50.
È stato però solo nel 2003 - quattro decenni dopo Stati Uniti e Unione Sovietica - che la Repubblica popolare è riuscita a mandare per la prima volta un proprio astronauta, Yang Liwei, in orbita intorno alla terra. Nonostante il ritardo, anche in questo settore la Cina si muove velocemente. Dopo gli esperimenti nei laboratori spaziali Tiangong - banco di prova del know-how tecnico per le missioni - Pechino ora punta a creare una propria Stazione spaziale permanente. Secondo i piani, dovrebbe essere pronta a ospitare i taikonauti entro il 2022, quasi contemporaneamente a quando sarà smantellata la Stazione spaziale internazionale: uno dei simboli della fine della Guerra Fredda e della cooperazione tra Nasa, Esa, la Roscosmos russa, le agenzie spaziali di Giappone e Canada. «Ciò che non riescono a sviluppare da soli - ed è ancora molto - lo comprano in giro per il mondo», dice uno scienziato europeo che ha collaborato al programma spaziale cinese. In un settore in cui difesa, scienza e geopolitica si intrecciano, era inevitabile che le ambizioni di Pechino sullo spazio destassero preoccupazione a Washington.
Dal 2011 il Congresso ha fermato ogni collaborazione tra la Nasa e l’agenzia spaziale cinese. Dopo aver annunciato lo scorso dicembre l’intenzione di riportare gli astronauti americani sulla Luna, recentemente Donald Trump è tornato a spingere per la creazione della Us Space Force all’interno delle forze armate americane. Il messaggio dell’amministrazione è chiaro: lo spazio sarà sempre più un possibile campo di battaglia. «L’ambiente spaziale è profondamente cambiato nell’ultima generazione - ha detto ad agosto il vice presidente degli Stati Uniti Mike Pence - quello che era un luogo pacifico e incontrastato, è ora affollato e conflittuale».

Repubblica 15.9.18
La strana alleanza
Perché a Xi serve Putin
di Paolo Garimberti


Due carissimi nemici difficilmente possono diventare carissimi amici. Ma possono diventare complici per allearsi contro un avversario comune. Soprattutto quando condividono interessi economici, strategie militari e fondano il loro potere sulla stessa visione ideologica.
È quanto sta accadendo tra Vladimir Putin e Xi Jinping sotto gli occhi negligenti dell’Occidente e il disinteresse dell’America trumpiana, convinta di potere bacchettare il mondo nella più totale impunità. La minaccia di tariffe commerciali alla Cina e di nuove sanzioni alla Russia è stata anzi il motore che ha accelerato enormemente un processo che era in corso, sottotraccia, da cinque anni: la prima visita di Xi a Mosca è stata nel 2013, da allora si sono susseguiti ben 26 incontri tra i due leader. Nei giorni scorsi, a Vladivostok, l’avamposto più orientale del risorto impero russo, Putin e Xi hanno suggellato l’alleanza con un vertice economico, che si proponeva chiaramente lo scopo di lanciare un messaggio forte all’Occidente, arrivando perfino a prevedere l’uso delle monete locali per scambi commerciali transfrontalieri. E non a caso negli stessi giorni 300mila soldati dei due eserciti prendevano parte a un’esercitazione militare congiunta, la più grande tenuta dalla Russia dal 1981 a oggi. Xi ha spiegato questa spettacolare riconciliazione tra due arcinemici, che ancora dieci anni fa facevano prove di guerra l’uno contro l’altro armato, con una sorta di parabola incrociata: «In Cina diciamo che gli amici si vedono nella sfortuna. E in Russia dicono che l’amico non è quello che viene nei giorni di festa, ma quello che ti aiuta nei giorni del disastro». Sembrano davvero remoti come un’era geologica i giorni in cui l’Occidente sobbalzò al suono delle cannonate che russi e cinesi si scambiarono lungo le rive del fiume Ussuri. Molti giornali titolarono sulla «guerra cino-sovietica». In realtà non fu vera guerra. I cinesi erano troppo deboli militarmente per confrontarsi con la superpotenza sovietica. Scelsero piuttosto la via delle scaramucce e perfino della derisione: sulla riva cinese dell’Ussuri i soldati di Mao si calavano i pantaloni e mostravano il sedere ai militari di Breznev. Ma tutto il mondo capì finalmente che il divorzio tra i due giganti del comunismo mondiale era totale e apparentemente irreversibile. L’ambasciata cinese a Mosca divenne un avamposto dell’antisovietismo: neppure il cibo veniva comperato nei mercati moscoviti, ma arrivava per corriere diplomatico da Pechino per non essere " contaminato". È stato Putin a guardare a Oriente quando l’Occidente ha cominciato a voltargli le spalle per la sua tracotanza internazionale e il suo autoritarismo antidemocratico in patria. Il punto di svolta fu il vertice del G20 a Brisbane, quando il presidente russo si sentì un paria, platealmente rimbrottato da Angela Merkel, tanto da ripartire in anticipo. Era l’anno seguente alla prima visita di Xi a Mosca. Da allora il percorso per ricucire il grande scisma del secolo scorso è diventato sempre più definito. Anche se le parti si sono invertite: oggi è la Cina il "grande fratello", mentre una volta era il contrario. Ma Xi ha avuto la sensibilità, o l’astuzia, di non far sentire la Russia il "piccolo fratello", il grande complesso di inferiorità che l’ex colonnello del Kgb si porta dietro da quando cominciò la carriera politica. Anche perché la Cina ha bisogno della Russia sul piano industriale ( è il più grande importatore al mondo del petrolio russo), sul piano militare e infine anche sul piano politico-ideologico. Oggi anche Xi, come Putin nel 2014, si sente isolato, specie dopo il forum trilaterale ( Usa, Ue e Giappone) sul commercio tenutosi a Washington in agosto. Ora l’Occidente rischia di fare l’errore uguale e contrario a quello che fece negli anni ’ 50 e ’ 60: non dare importanza all’alleanza russo-cinese, come allora non credette alla possibità dello scisma. Non a caso Henry Kissinger, che nel 1972 fu l’architetto del grande disgelo con la Cina in funzione anti-Urss, ha raccomandato a Trump di seguire " il rovescio della strategia Nixon- Cina": riavvicinarsi alla Russia per contenere la Cina. Ma Trump, si sa, non ascolta i buoni consigli. Neppure quelli di un Grande Vecchio come Kissinger.

Repubblica 15.9.18
La svolta
Disgelo tra Cina e Vaticano attesa entro fine mese la firma di un’intesa storica
Il regime di Pechino dovrebbe riconoscere Papa Francesco come capo legittimo della Chiesa cattolica locale
di Paolo Rodari


Città del Vaticano Il Vaticano e la Cina sono pronti a firmare lo storico accordo entro fine mese allo scopo di mettere insieme la Chiesa patriottica sostenuta da Pechino e le comunità cattoliche non autorizzate. « Il dialogo tra la Santa Sede e la Repubblica popolare cinese continua. Non c’è nient’altro da aggiungere al momento», fa sapere il direttore della sala stampa vaticana, Greg Burke. Ma le voci sono insistenti e sembrano confermare una soffiata diffusa dal Wall Street Journal. Da tempo si parla di una strada in discesa per un accordo che avrebbe una portata storica.
L’intesa, infatti, significherebbe il primo riconoscimento ufficiale da parte del governo cinese del Pontefice come capo della Chiesa cattolica in Cina. Francesco riconoscerebbe, invece, i sette vescovi cinesi scomunicati dopo la nomina del governo comunista senza il via libera del Vaticano. In sostanza, dopo anni di controversie, Chiesa ufficiale e Chiesa clandestina diverrebbero la stessa cosa.
Da tempo l’accordo viene dato imminente con cadenza periodica senza che però maturi la formalizzazione. Si parla in particolare di uno stallo dovuto alle resistenze sulla posizione di due vescovi. Il via libera, tuttavia, potrebbe maturare a breve anche se di recente Pechino ha avviato una stretta sulle comunità cristiane e di altre religioni.
Nonostante vi sia chi sottolinei una divergenza di vedute fra Jorge Mario Bergoglio e Joseph Ratzinger in proposito, fu in verità già quest’ultimo a mettere nero su bianco, nella Lettera inviata ai cattolici cinesi nel 2007, che la soluzione dei problemi esistenti «non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili » . Per lui, tuttavia, la cesura che introducevano i vescovi illegittimi era reale. Anche se nei loro confronti non cercava lo scontro. Il Papa tedesco non sempre ebbe il supporto di scelte lungimiranti operate dai suoi collaboratori, tanto che sovente con Pechino i rapporti furono a un passo dallo stallo, a causa anche di un pontificato che per la prima volta in tempi recenti non vedeva né il vescovo di Roma né il segretario di Stato provenienti dal servizio diplomatico. Francesco ha rimesso in questo senso le cose a posto. L’arrivo del cardinale Pietro Parolin, allievo di Casaroli e membro della scuola di piazza Minerva, al posto di Tarcisio Bertone, ha riposizionato le relazioni con Pechino sui canali di un’apertura desiderata che dopo anni sta dando risultati insperati.

Repubblica 15.9.18
Febbre gialla
La difficile trasformazione industriale
Frena l’economia cinese investimenti ai minimi
Il dilemma di Xi Jinping: più debito pubblico o tensioni sociali? I dazi di Trump mettono a dura prova il governo di Pechino
di Filippo Santelli


PECHINO Accettare una frenata dell’economia, con il rischio di vedere crescere le tensioni sociali? Oppure riaprire il rubinetto degli stimoli, gonfiando ancora una bolla di debito già alla massima pressione? Non ha soluzioni indolori il dilemma che Xi Jinping si trova di fronte. Il più importante per chi basa il proprio potere sulla promessa di benessere. Dopo vent’anni di corsa forsennata, la Cina ha messo in conto un rallentamento: per il 2018 l’obiettivo di crescita è fissato al 6,5%, due decimi in meno dello scorso anno. Mese dopo mese però la decelerazione appare sempre più decisa, e quindi più esposta all’offensiva tariffaria di Donald Trump. L’ultimo presagio nefasto, ieri, è stato il dato sugli investimenti, pubblici e privati, vero carburante della locomotiva. Tra gennaio e agosto sono cresciuti del 5,3%, cifra che farebbe invidia a qualsiasi altra economia, ma che qui vale il minimo da un quarto di secolo.
Sulla carta è proprio quello che Xi voleva. Il contenimento del rischio finanziario, con un debito complessivo al 260% del Pil, è una delle tre battaglie prioritarie del presidente eterno, insieme alle lotte contro povertà e inquinamento. Gran parte di quell’esposizione è imboscata nei bilanci di banche, imprese o enti locali, effetto di un decennio di politiche espansive e ricerca matta e disperatissima dello sviluppo. Per questo alla fine del 2016 la Cina ha lanciato una campagna di "deleveraging", con l’idea di disintossicarsi dalla droga del denaro facile. Non certo una decrescita, qui suonerebbe blasfemo, ma uno spostamento di risorse dai settori maturi, come industria pesante e immobiliare, verso quelli più produttivi e tecnologici.
Solo che la pulizia è un processo doloroso, fatto di fabbriche da chiudere, investimenti persi e bond in default, mai così alti come in questi mesi. Senza contare Trump, le cui minacce ora stanno diventando dazi.
Ancora non si misurano effetti sull’export cinese, la voce del Pil che continua a tirare di più, ma si notano eccome sul clima di fiducia dentro la Cina: da due mesi le vendite di automobili nel Paese registrano un inaudito segno meno, mentre dall’inizio dell’anno la Borsa di Shanghai ha perso oltre il 20%, ai minimi dal 2014. Così nelle ultime settimane il pendolo delle politiche comuniste è tornato a oscillare decisamente dal lato dell’espansione. La Banca centrale ha adottato delle misure per incoraggiare gli istituti a fare credito, mentre il governo ha varato un pacchetto di stimolo fiscale, sollecitando gli enti locali ad emettere speciali bond per finanziare ferrovie e altre grandi infrastrutture.
Per questo il brutto dato di ieri sugli investimenti ha sorpreso in negativo, facendo passare in secondo piano quelli più incoraggianti su consumi e produzione industriale. «La politica espansiva finora ha fallito», scrivono gli analisti di Capital Economics, anche perché nel frattempo sta proseguendo la stretta su altri settori, per esempio l’immobiliare, creando una situazione contraddittoria. «Se gli investimenti non riprendono a settembre il rischio per la crescita sarà molto grande», dice Standard Chartered. E per evitare quella che allora potrebbe davvero diventare una brusca frenata, Ing si aspetta che Pechino prema ancora di più sull’acceleratore, iniettando risorse per 700 miliardi di dollari quest’anno e altrettanti il prossimo, stimolo di fatto pari a quello varato all’indomani della grande crisi. Xi si affida all’antica medicina, credito e infrastrutture, per guadagnare tempo verso la grande transizione tecnologica. La stessa medicina da cui la Cina è diventata dipendente.

il manifesto 15.9.18
Il Sessantotto che non si vede
L'intervento. A margine del movimento tante sono state le istanze di cambiamento
di Luigi Manconi


«La festa appena cominciata è già finita. / Il cielo non è più con noi». Sergio Endrigo, 1968
Nell’autunno del 2017 ho fatto un fioretto: non parlerò mai del cinquantennale del Sessantotto. Ciò per una elementare forma di verecondia e per un residuale senso del limite, oltre che per una patologica insofferenza verso il reducismo come categoria culturale e postura emotiva. Poi, anche quello, come tutti i fioretti, si è rivelato assai difficile da rispettare. Ho fatto ricorso, così, a un patetico stratagemma: e parlerò, di conseguenza, del «loro Sessantotto», non del nostro e tantomeno del mio. Infatti, la mia partecipazione ai movimenti degli studenti della fine degli anni Sessanta non si distinse in alcun modo da quella di tanti. Non merita, dunque, alcuna particolare e personale memorialistica, dal momento che quella mia militanza si confuse con la mobilitazione di un segmento significativo della generazione tra i 18 e i 25 anni. Un «segmento», ho scritto, e non «un’intera generazione» – come usa dirsi e come una retorica irresistibile perpetua – perché questo è il dato storico e statistico inconfutabile. Quello politico è parzialmente diverso, dal momento che un movimento numericamente minoritario ebbe la capacità, per le più diverse ragioni, di produrre effetti (talvolta persino rilevanti) sull’opinione pubblica, sul senso comune e su componenti assai ampie dell’organizzazione sociale: e su quanti ne erano parte. È questo che chiamo il «loro Sessantotto». È quanto mi è venuto in mente leggendo, su suggerimento di Nicola Lagioia, un articolo molto bello pubblicato su Doppiozero.com. Qui, lo scrittore Andrea Pomella parla del «Sessantotto di mia madre», come lei stessa lo ha raccontato al figlio. La donna era un’operaia confettatrice in un’industria farmaceutica: ovvero una delle addette alla «colorazione» delle pastiglie tramite l’immersione di esse prima in acqua e zucchero e poi nel colore.
CONFETTI
Questo il racconto: «Eravamo una cinquantina di operaie, tutte donne. Ci avevano scelto sulla base di un unico criterio: dovevamo essere vedove o nubili, lo stipendio che ci passavano a fine mese doveva essere la nostra unica ragione di vita». Ancora: «In fabbrica non c’era il sindacato, quando cinque di noi presero la tessera della CGIL, ci licenziarono. Facemmo causa e la vincemmo, il giudice ci reintegrò. Ma a quel punto ci rinchiusero tutte e cinque in una stanza, lontano dai laboratori». Tutto ciò in quegli anni tra la fine dei sessanta e l’inizio dei settanta: «Noi volevamo aderire al Sessantotto ma incontravamo l’ostruzionismo delle più anziane che temevano di perdere il lavoro. Una volta partecipammo a una manifestazione a Roma, ci sentivamo come se ci avessero invitato a una festa a cui mai avremmo immaginato di partecipare. Che il Sessantotto fosse un anno eccezionale lo abbiamo capito dopo.» Quella donna, la mamma di Andrea Pomella, non verrà mai considerata una militante del sessantotto da alcun testo di sociologia o di storia contemporanea, eppure si può dire che lo è stata, fino a rappresentarne l’anima più autentica, pur se – vale la pena ribadirlo – in una posizione pressoché isolata all’interno del proprio gruppo sociale. Ecco, in questa relazione tra perifericità e innovazione, tra nuove forme di vita e crescita della soggettività, si dipana un movimento sotterraneo che, pur conservando la sua minorità, scava, contamina, si diffonde.
CHIESA
Un tale processo fu capace di penetrare anche all’interno di organizzazioni della società in apparenza le più refrattarie e le più compatte, anche se, in realtà, già profondamente incrinate, come la Chiesa cattolica. Mentre tutto questo accadeva, in un giorno di febbraio di quell’anno, io mi trovavo nei locali della Segreteria degli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, quando squillò il telefono. Era, così mi pare di ricordare, Gianni. Iscrittosi a filosofia alla Cattolica qualche anno prima, era dovuto tornare precipitosamente nel suo paese dell’Alta Murgia, in Puglia, per ragioni di salute o di famiglia, non so. Cresciuto, come tanti di noi, in un ambiente di rigorosa osservanza cattolica e trovatosi, all’improvviso, in una difficile situazione economica, aveva accettato il primo lavoro offertogli: sagrestano (o sacrestano, a seconda delle diverse aree geografiche) in una delle tre chiese del paese. Col procedere degli eventi che a partire dalla seconda metà del 1967 avevano mobilitato molti atenei italiani (e non solo italiani), uno spirito di contestazione – particolarmente di natura anti-autoritaria – aveva lambito periferie geografiche e sociali, territori lontani e organizzazioni irrigidite, corporazioni chiuse e rapporti obsoleti. Magari solo superficialmente, ma li lambì. E, a ben vedere, il risultato più duraturo e fertile di quei movimenti consistette propriamente nella critica delle strutture gerarchiche – di tutte le strutture gerarchiche – spesso ispirate a un autoritarismo non motivato in termini di logica e di ragione. L’altro esito particolarmente significativo riguardò l’innovazione negli stili di vita e nelle forme di relazione, nei rapporti intra-familiari e in quelli tra le generazioni e i sessi. Non c’è da stupirsi, quindi, del fatto che lo spirito antiautoritario arrivasse fin dentro quella parrocchia di quel paesotto pugliese: e lì trovasse Gianni pronto ad accoglierla, quella contestazione anti-gerarchica, e a farla propria. In realtà, Gianni non era così isolato e quando un altro sagrestano di un’altra chiesa dello stesso paese gli sembrò condividere le stesse idee, il comitato di lotta dei sagrestani d’Italia era già pronto a nascere. Gianni al telefono mi lesse il Manifesto di fondazione e promise di informarmi dei successivi sviluppi. E così, quando mi comunicò di aver trovato nella regione – e persino aldilà della regione – una dozzina di colleghi «disponibili alla lotta», io ne comunicai l’esistenza, l’attività e il probabile luminoso futuro all’Assemblea Generale degli studenti della Cattolica. La notizia fu accolta da un boato. La cosa non deve stupire: tra quegli studenti ribelli, le radici cattoliche erano non solo robuste, ma anche assai vitali; e alcuni tra i più colti dirigenti erano scout e, allo stesso tempo, simpatizzavano per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (Psiup). Poi, ahimè, per motivi che non so e sui quali non indagai, Gianni non telefonò più. Passato qualche mese, provai a mettermi in contatto con quel paese e con quella parrocchia, ma i miei tentativi risultarono vani. E ignoro, di conseguenza, cosa sia accaduto a quel piccolo embrione di un conflitto possibile all’interno della struttura di base dell’organizzazione ecclesiale. Ma, da qualche parte, ne sono fermamente convinto, esiste e resiste un volantino, traccia inconsunta e inossidabile della breve vita di quel comitato di lotta dei sagrestani rivoluzionari. Così come, nel giacimento cartaceo che, contro la sua stessa volontà, si è accumulato nella casa di Lanfranco Bolis a Pavia, rimangono reperti della mobilitazione che portò, oltre alle più diverse e imprevedibili conseguenze, all’occupazione della Cattedrale di Parma, nel settembre del 1968.
OCCUPAZIONE
Il 15 di quel mese, intorno alle cinque del pomeriggio, a Parma, un gruppo di persone provenienti da varie città si unirono a numerosi studenti e ai «cattolici del dissenso» (tra essi il cattolicissimo Francesco Schianchi) e, insieme, entrarono nel duomo durante la messa. Innalzavano un grande striscione con la scritta «cattedrale occupata» e chiedevano di poter dibattere con il vescovo Francesco Rossolini intorno a temi ecclesiali e sociali di attualità. Vogliamo, dicevano, che il Vangelo sia rivolto ai poveri e non sia «finanziato dai ricchi». La contestazione nasceva dal fatto che il vescovo aveva deciso di costruire una nuova chiesa con i contributi offerti dalla locale Cassa di Risparmio. E da altre vicende, tra le quali la rimozione di don Pino Setti a causa della sua attività non conformista (compresa la cosiddetta «messa beat» con il complesso de I Corvi). Nel comunicato degli occupanti, tra l’altro, si leggeva: «è ora che la gerarchia ecclesiastica abbia il coraggio di fare una scelta discriminante a favore dei poveri contro il sistema capitalistico». Si trattava, credo, della prima occupazione di una chiesa cattolica a opera dei suoi stessi fedeli (o, meglio, di una parte di essi). Dopo una serie di tentativi falliti di mediazione, la risposta del vescovo fu la richiesta alla polizia di intervenire all’interno della cattedrale per allontanare i «profanatori del tempio». E così avvenne, a sera inoltrata.
L’ISOLOTTO
Tuttavia, la cosa non finì lì. Un esempio solo. A Firenze, da anni, la parrocchia di un quartiere popolare, l’Isolotto, guidata da don Enzo Mazzi, era molto attiva sulle grandi questioni sociali e sui temi della pace e dell’antimilitarismo. Tutto ciò nonostante la dichiarata riprovazione da parte dell’arcivescovo, il cardinale Florit. Il 22 settembre viene distribuito un volantino di solidarietà con gli occupanti della cattedrale di Parma e di aspra critica nei confronti di una «chiesa che ammette indiscriminatamente alla mensa eucaristica sfruttati e sfruttatori». A seguito di ciò, il cardinale chiede a Don Mazzi di ritrattare pubblicamente le proprie opinioni o di dimettersi. La questione del piccolo Isolotto periferico diventa, a questo punto, un problema generale che interpella le gerarchie ecclesiastiche e le autorità del Vaticano e, si dice, lo stesso Pontefice. Dalla sua parrocchia, Don Mazzi afferma che «ubbidire alla gerarchia cattolica significa quasi sempre disubbidire alle esigenze più profonde, vere ed evangeliche del popolo. Non voglio una Chiesa legata a un potere politico ed economico, ma legata al popolo dei disoccupati, dei rifiutati, degli analfabeti, degli operai». Gran parte dei parrocchiani si schiera apertamente contro il cardinale, dichiarando di essere «una cosa sola col parroco». La replica di Florit è la rimozione di Don Mazzi ma il nuovo parroco, chiamato a sostituirlo, troverà la chiesa completamente vuota. Intanto novantatré sacerdoti della diocesi di Firenze e una parte significativa della città dichiarano la propria solidarietà con l’Isolotto. Il 30 agosto del 1969, dopo che don Mazzi e due viceparroci erano stati sospesi a divinis e la chiesa era stata chiusa, il cardinale Florit vi si recò per celebrare la messa, ma il rito potè avvenire solo alla presenza delle forze di polizia. Nacque, allora, il primo Coordinamento delle comunità di base, che cominciavano a diffondersi in più città italiane. Intanto, altri movimenti poco visibili e tuttavia destinati a irrobustirsi, si sviluppavano all’interno di zone particolarmente opache dell’organizzazione sociale. Persino in quelle più conservatrici e chiuse.
SCONTRI
Nella primavera del 1968, a Milano, vi furono numerose manifestazioni non tutte e non sempre pacifiche. Dopo alcuni degli scontri più violenti, all’interno della caserma Sant’Ambrogio (poi caserma Annarumma), a due passi della Basilica e dall’Università Cattolica, avvenne una sorta di «sommossa»: molti tra gli agenti chiedevano di potersi recare all’interno dell’università per darle di santa ragione agli studenti. Eppure, in quella situazione tanto tesa, si levarono anche voci di poliziotti che denunciavano le condizioni di «sfruttamento» cui erano sottoposti e indicavano come «nemico» non lo studente bensì il «sistema di potere». Erano pochi, ma anche loro gridavano forte. Qualche tempo dopo, sarà stata la fine di aprile, io mi trovavo a parlare col megafono davanti al cancello principale dell’università Cattolica, mentre frotte di studenti vi entravano. Poco distanti da me, sulla sinistra, accanto a un’aiuola ben curata, si trovavano due poliziotti (probabilmente provenienti dalla vicinissima caserma) «vestiti da poliziotti in borghese» che mi lanciavano sguardi di sottecchi e confabulavano tra loro. Quando, esausto dal gran concionare, interruppi il mio comizio, prendendo fiato e appoggiandomi alle mura imponenti dell’ateneo, quei due lasciarono trascorrere qualche minuto e, poi, mi avvicinarono cautamente. Quindi, tra molti sottointesi e altrettanti imbarazzi, mi fecero intendere di essere interessati a parlare con me e con miei compagni. Considerata l’inequivocabile identità sbirresca degli interlocutori, faticammo – io e gli studenti successivamente avvertiti – a respingere l’idea che ci trovassimo di fronte a una vera e propria provocazione. Di conseguenza glissammo, traccheggiammo, rinviammo, ma quei due poliziotti riproposero più volte la richiesta di un incontro, offrendo tutte le garanzie possibili e immaginabili. E così, passato ancora qualche tempo, cedemmo e infine ci fu l’incontro. Scegliemmo noi il campo: ovvero il sottopiano del grande bar Magenta, occupato da due tavoli da biliardo e, in quella circostanza, dalle due delegazioni, mentre al piano di sopra l’intera clientela era costituita esclusivamente da militanti del movimento studentesco, pronti a intervenire e a fare muro in caso di necessità. Tutto questo in presenza di un signor Vigna, il titolare, profondamente perplesso. E così, sentendoci al riparo da qualunque rischio, potemmo liberamente parlare tra noi. In sostanza, quei poliziotti chiedevano suggerimenti su come muoversi per porre le basi di una qualche organizzazione sindacale, allora totalmente fuori legge. Noi eravamo, va detto, palesemente sprovveduti. Tanto più che l’idea di una organizzazione sindacale dei poliziotti non rientrava, certo, tra i nostri obiettivi e, soprattutto, era incondizionatamente estranea ai nostri pensieri. Ma per un soprassalto di fierezza (non ammettere la nostra insipienza) o per un autentico senso del dovere rivoluzionario (non rinunciare a un possibile alleato) non chiudemmo lì la discussione. Al secondo incontro, svoltosi nello stesso luogo e con le stesse modalità, arrivammo con qualche ulteriore informazione. In altre città italiane, già si parlava di certe «proteste dei poliziotti» e, soprattutto, noi disponevamo di un indirizzo particolarmente interessante. Avevamo appreso, infatti, che un funzionario della CGIL era stato delegato a seguire la questione che, silenziosamente, cominciava a emergere. E, così, potemmo indicare il nome di quel funzionario sindacale e la sede della Camera del Lavoro in Corso di Porta Vittoria come la persona e il luogo più adatti a raccogliere le loro esigenze.
BARRICATA
Ci ringraziarono, un po’ stupiti e un po’ emozionati, così calorosamente che ne fummo tutti colpiti. Si chiudeva, in tal modo, un breve ma significativo ciclo della protesta. Un ciclo iniziato quando, come si è detto, qualche mese prima, proprio una manifestazione dagli esiti particolarmente violenti consentì di porre le basi di una possibile relazione tra esponenti delle due forze in campo sui lati opposti della barricata (qui intesa non solo in senso metaforico): gli studenti, in particolare quelli dell’università Cattolica, e alcuni poliziotti della caserma Sant’Ambrogio. Non c’è da stupirsi. In generale va ricordato come nella storia, ma anche nella cronaca quotidiana, possa accadere che siano proprio i conflitti più aspri a rivelare agli opposti contendenti l’esistenza di interessi comuni.
PASOLINI
Il che consente una lettura meno stereotipata, di quella diventata ormai dozzinale luogo comune, della poesia Il Pci ai giovani di Pier Paolo Pasolini (pubblicata da Nuovi Argomenti e anticipata dall’Espresso del 16 giugno del 1968). A dar retta alla versione pressoché unanime, in quella poesia Pasolini avrebbe preso le parti dei poliziotti, in odio ai contestatori, secondo una grossolana distinzione tra i primi (proletari e sottoproletari, «figli dei poveri») e i secondi (borghesi e piccoloborghesi, «figli di papà»). Fu lo stesso Pasolini a chiarire: «Nessuno (…) si è accorto» che i versi iniziali erano «solo una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore (…) su ciò che veniva dopo (…) dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescio, in quanto il potere (…) ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti» (Il Tempo, 17 maggio 1969). Le caserme dei poliziotti erano dunque viste come «ghetti particolari, in cui la qualità di vita è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università. Nessuno dei consumatori di quella poesia si è soffermato su questo e tutti si sono fermati al paradosso introduttivo» (Ivi). Dunque, secondo Pasolini, il senso di quella poesia sarebbe stato ribaltato da letture ideologicamente interessate. Il «paradosso introduttivo» («io simpatizzavo coi poliziotti») era in realtà – parole dell’autore – «una piccola furberia oratoria», destinata a «richiamare l’attenzione del lettore». Ma il tema vero e la sostanza poetica e politica consistevano nell’affermazione che «il potere ha la possibilità di fare di questi poveri degli strumenti». Dunque, nonostante l’interpretazione autentica offerta dal suo stesso autore, quei versi sono stati ridotti alla falsa rappresentazione di un conflitto insuperabile tra la piccola e media borghesia privilegiata e consumista, che si riconosceva nel movimento detto «del ’68», da una parte; e, dall’altra, il proletariato e il sottoproletariato identificati nell’immigrato meridionale, fattosi poliziotto per sopravvivere. E la lettura più coerente, proposta – tra gli altri – dal regista Davide Ferrario, è stata costantemente ignorata, a favore di quella interpretazione definita dallo stesso poeta «paradossale». Resta ancora una considerazione: quella versione deformata in senso «antistudentesco» (e, alla lettera, reazionario) conteneva, tuttavia, un piccolo grumo di verità. In altri termini, il poeta Pasolini richiamava quella costante dimensione «fratricida» della lotta italiana per il potere, come già aveva fatto nel ’45 il poeta Umberto Saba: «gli italiani non sono parricidi: sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda), un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione». Ma questa è davvero un’altra storia e un’altra analisi.
ASSOCIAZIONE CALCIATORI
Infine. Nel luglio del 1968 venne costituita, a Milano, l’Associazione Italiana Calciatori ovvero, nei fatti, il primo embrione di sindacato dei giocatori di calcio: ribattezzato dalla stampa, con un certo disprezzo, «il sindacato dei piedi» o «dei milionari». A fondarlo fu l’avvocato Sergio Campana, già calciatore di buon livello nelle squadre del Lanerossi Vicenza e del Bologna e – rarità dell’epoca e non solo – uno dei pochi laureati. L’ipotesi di un’associazione di rappresentanza della categoria, pur presente da tempo, si era arenata sempre di fronte all’ostilità granitica della Lega, delle società di serie A e dei rispettivi presidenti, i veri padroni del calcio. E all’assenza di consapevolezza dei propri diritti di gran parte degli stessi giocatori. Eppure, è in quell’anno che alcuni dei più grandi calciatori italiani (Mazzola, Rivera e De Sisti, reduci dalla vittoria della nazionale nei campionati europei: il primo successo azzurro dai tempi di Pozzo) scrivono a Campana, chiedendogli di guidare il «primo sindacato dei calciatori di serie A e B».
L’idea era quella di creare un organo che potesse funzionare da intermediario o anche controparte con Leghe e Federazione e che potesse rappresentare gli interessi dei calciatori. Ciò avveniva in una fase in cui si incrociavano tre diversi fattori: il calcio diventava massiccio fenomeno sociale al quale la televisione assegnava un ruolo pubblico sempre più ampio; aumentavano gli investimenti economici e finanziari nelle squadre di calcio, considerate ormai come imprese capaci di produrre utili; la tendenza a contestare i tradizionali sistemi di potere e le loro gerarchie interne raggiungeva tutti gli ambiti della società, compresi quelli più distanti e separati (come, appunto, il calcio). Tra scioperi minacciati e mai realizzati, cresceva un fenomeno che, tuttavia era destinato ad avere vita non troppo lunga, perché quegli stessi tre fattori innovativi avrebbero prodotto una «commercializzazione» e una «finanziarizzazione» tali da travolgere l’intero sistema. E tali da impedire che l’Associazione italiana calciatori svolgesse un vero ruolo conflittuale-sindacale e, ancor meno, una funzione di tutela di coloro che, tra i giocatori, occupavano i ranghi meno garantiti e più precari. Ne è prova il fatto che l’associazione dei calciatori si apre ai dilettanti solo nel 2000 e che c’è voluta una sentenza europea (quella cosiddetta «Bosman», dal nome di un modesto calciatore belga) per liberalizzare le leggi sui trasferimenti dei calciatori. In altre parole, è come se quelli che «hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro al bar» (Francesco De Gregori) – i giocatori, cioè, più appassionati ma spesso meno dotati, più esposti agli infortuni e alle crisi del mercato, più soggetti ai ricatti di procuratori e presidenti – abbiano dovuto fare una ulteriore maledetta fatica. E hanno penato molto prima di ottenere quel riconoscimento che qualificava la loro attività come un lavoro meritevole di tutela sindacale. Insomma, ce ne ha messo il Sessantotto per arrivare fino a loro.
Ha collaborato Valentina Moro

La Stampa 15.9.18
La Chiesa ortodossa verso lo scisma sull’Ucraina
di Giuseppe Agliastro


Uno scisma rischia di spezzare in due la comunità ortodossa mondiale e dividere i suoi 300 milioni di fedeli. L’aspro duello politico-religioso sull’Ucraina potrebbe provocare una frattura insanabile tra il patriarcato di Mosca e quello ecumenico di Costantinopoli. Uno storico passo verso il divorzio lo ha compiuto ieri la Chiesa russa che, di fronte alla minaccia di una Chiesa ucraina indipendente e non più a lei sottoposta, ha deciso di «sospendere temporaneamente ogni contatto» con Costantinopoli, che invece caldeggia l’autonomia. Si tratta di un segnale molto forte.
«Equivale alla rottura dei rapporti diplomatici», ha spiegato il metropolita Ilarion, «ministro degli Esteri» della Chiesa russa. Tanto per cominciare, d’ora in poi il Patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, non sarà più nominato nelle preghiere in Russia e la Chiesa di Mosca non parteciperà più a concili e incontri presieduti da pastori «rivali». Dietro lo scontro ecclesiastico si cela la politica internazionale. Russia e Ucraina sono ai ferri corti per l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbass. Per questo, il governo di Kiev preme da tempo per il riconoscimento di una Chiesa ucraina autonoma da quella di Mosca, che è invece legata a doppio filo al Cremlino e il cui patriarca, Kirill, è un fedelissimo di Putin. In Ucraina ci sono ben tre Chiese ortodosse: una sottoposta a Mosca, un’altra con a capo il patriarca Filarete, che contesta Mosca e si dichiara autonoma, e una terza, la piccola Chiesa autocefala ucraina, su posizioni proprie. Le distinzioni si riflettono in ambito politico. La chiesa subordinata a Mosca auspica forti legami con la Russia. Le altre due guardano invece verso Occidente, ma non sono riconosciute dalla comunità ortodossa internazionale.
La resa alle pressioni di Kiev
Alla fine, il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ha ceduto alle pressioni di Kiev e, in qualità di primus inter pares tra i capi della Chiese ortodosse di tutto il mondo, ha avviato l’iter per concedere all’Ucraina il «tomos», cioè la tanto agognata autonomia. Lui sostiene che l’unione che nel 1686 assegnò quelle terre all’autorità ecclesiastica di Mosca avesse un carattere «provvisorio». La Chiesa russa però non ne vuole sapere ed è andata su tutte le furie dopo l’invio a Kiev di due vescovi di Costantinopoli per «preparare l’autocefalia». «Si tratta di un’invasione brutale del nostro territorio canonico», ha tuonato il portavoce Vladimir Legoyda. Ilarion ha invece lanciato un vero ultimatum: o Bartolomeo torna sui suoi passi o la scissione sarà inevitabile e addio status di primo tra i pari.

Repubblica 15.9.18
Nicole Kidman "Nei ruoli da madre trovo verità e coraggio"
Al festival di Toronto l’attrice ha presentato due film in cui interpreta donne complicate. E per il personaggio da dura in "Destroyer" è in odore di Oscar
Intervista di Filippo Brunamonti


TORONTO La semplicità la trova «nei 45 ettari di proprietà nel Nuovo Galles del Sud, tra i miei amici contadini». E l’amore passa «per sei esemplari di alpaca, una mandria di mucche nere e le galline che ho in casa», insieme al suo animale totem, l’insospettabile "lontra marina". E una foto del gatto d’infanzia, Gregory. Nicole Kidman, giacca nera attillata, la treccia bionda col riflesso del fuoco (è rossa naturale), passerà un altro anno senza spifferi: «Di certo non mi annoio» sorride. «Faccio la parte della mamma in tre film in uscita. Sono donne calorose, adorabili. Ho interpretato diverse madri in passato ma queste sono per me una fonte di sorprese inesauribili». È la regina Atlanna, madre del "Protettore degli oceani" nel film-fumetto Aquaman, la moglie di un pastore battista (Russell Crowe) che spedisce il figlio gay in terapia di conversione ( Boy erased) ma torna a salvarlo, e ha appena girato a Monterey County i nuovi episodi di Big little lies, accanto a Meryl Streep. Nella prima stagione della serie HBO, il suo personaggio, Celeste, diceva: «Mi vergogno. Essere una madre non basta. Non basta proprio». In lei — due figli con Tom Cruise, due con Keith Urban, il suo attuale marito — convivono tante mamme del cinema, confessa: «È come se, all’improvviso, avessero tutte voglia di alzarsi in piedi e presentarsi al grande pubblico». 51 anni, Kidman è "la donna dei ritorni", l’attrice con il più alto quoziente intellettivo di Hollywood (fascia 130-139).
Cannes le ha dedicato un doppio hashtag — #Nicolefest e #Nicolepalooza — con quattro film sulla Croisette; le sue terre sono Honolulu e Australia, «mio padre era un biochimico, da mia madre ho preso il pugno chiuso e il no contro la violenza sulle donne; oggi sono ambasciatrice di buona volontà per le Nazioni Unite». L’Oscar lo ha vinto sotto il segno di Virginia Woolf ( The hours). Dal festival di Telluride, Colorado, a quello di Toronto: il toto-Academy punta su un titolo in particolare, Destroyer.
«Faccio la parte di Erin Bell, una donna con la testa a metà tra detective e cowboy» racconta.
«Si risveglia in auto, a Los Angeles, va sulla scena di un crimine e scopre che un vecchio avversario è tornato in azione.
Erin è una donna tormentata, tosta, imperfetta. Se mi sono posta il problema di girare con un make-up che mi avrebbe imbruttito il viso? Da quando ho cominciato a recitare ho un motto: lasciati andare. In effetti, non so mai cosa aspettarmi da me stessa, come artista. Posso avere un piano di riserva, un’idea in testa, alla fine è sempre meglio abbandonarsi.
Questo vale anche nella vita. È una lezione che ho imparato nel corso della mia carriera. E quando sul set trovi una regista come Karyn Kusama senti che il cinema a un tratto diventa casa.
Sei protetta». Di protezione ha avuto bisogno quando per un bel pezzo, dopo i successi di Giorni di tuono, Da morire e Eyes wide shut, il purgatorio di Hollywood le ha fatto scontare una battuta d’arresto. Un thriller con Nicolas Cage ( Trespass) uscito direttamente in home video in Italia, la commedia con Adam Sandler ( Mia moglie per finta) e le accuse di Alberto II di Monaco e le sue sorelle, che hanno definito "inutilmente glamour" la sua Grace Kelly, obbligando Harvey Weinstein, distributore americano, a minacciare il ritiro della versione europea di Grace of Monaco. Poi il riscatto: altra nomination all’Oscar ( Lion), i film diretti da Yorgos Lanthimos e Sofia Coppola, un blockbuster DC Comics ( Aquaman) in sala a dicembre, due film a Toronto ( Boy erased e Destroyer) per i quali si è spesa, tra promozione e red carpet, come nessun’altra diva nei circuiti da festival. I figli, prosegue l’attrice, sono ciò che più le sta a cuore: «In Lion il protagonista ha due madri, una adottiva e una biologica. Due, non una. Una lo ha messo al mondo, l’altra lo ha allevato. È la mia visione della maternità. Ci trovo verità e coraggio». Un velo di mistero circonda Kidman sul suo rapporto con i figli adottivi da quando il matrimonio con Cruise è finito e hanno scelto di crescere col padre nella chiesa di Scientology. «Io e mio marito abbiamo due figlie che chiedono attenzione. Sono Faith Margaret, 7, e Sunday Rose, 10 anni. Dicono che siamo sempre impegnati, soprattutto io. Mi chiamano "mamma pazza". Ma credo che in fondo a loro piaccia vedere le mie trasformazioni, i personaggi, le storie. In casa usiamo tanta immaginazione e guardiamo parecchia tv. Anzi, mi sento quasi una drogata di serie televisive. Se comincio, non riesco più a mettere via il computer. Pazienza: vorrà dire che il prossimo anno resto chiusa in casa». Con le bambine e la fattoria-Kidman, nel cuore dell’Australia. A meno che l’Academy non chiami.