martedì 11 settembre 2018


internazionale 7.9.18
Australia-Nauru
Bambini in trappola


Un ragazzo di 14 anni in stato di depressione acuta trasferito all’ospedale di Brisbane; un bambino di 12 anni ricoverato dopo aver rifiutato cibo e liquidi per venti giorni; una bambina portata in ospedale dopo che aveva provato a darsi fuoco. “Nelle ultime settimane sono aumentati i casi di minori gravemente malati che hanno dovuto lasciare d’urgenza il centro di detenzione per rifugiati gestito dall’Australia sull’isola stato di Nauru”, scrive The Age. Nella struttura, aperta più di cinque anni fa e da sempre al centro delle critiche delle Nazioni Unite e degli attivisti per i diritti umani, ci sono circa 1.100 persone, tra cui 117 minorenni, alcuni dei quali sono nati nel centro di detenzione. Le politiche migratorie australiane prevedono che chi cerca di arrivare via mare sia trasferito in centri di detenzione offshore. Alla fine del 2017 la corte suprema della Papua Nuova Guinea ha ordinato la chiusura della struttura dell’isola di Manus.

internazionale 7.9.18
La guerra sui banchi
Di Enab Baladi, Siria
Negli ultimi anni le autorità che si contendono il dominio della Siria hanno imposto diversi programmi scolastici nelle aree sotto il loro controllo. Aumentando le divisioni e l’ignoranza


“Mi chiamo Ali, ho 18 anni, e sono uno studente di prima superiore ”. Questo è un pezzetto della trama. L’ambientazione è definita dalla guerra. I protagonisti sono i milioni di studenti siriani passati attraverso una lunga serie di drammi. Ali al Adel, originario delle campagne a nord di Aleppo, aveva appena finito le elementari quando è scoppiata la rivoluzione contro il presidente Bashar al Assad. Da quel momento la sua vita è cambiata e il territorio siriano è stato diviso in zone controllate da diverse autorità militari, che negli ultimi anni si sono contese il paese. “Prima della rivoluzione alle elementari s’insegnavano arabo, inglese e altre materie come scienze e matematica. Io andavo piuttosto bene”, racconta Ali. In molte zone del paese l’istruzione ha pagato le conseguenze del conflitto, a causa della mancanza di sicurezza, della fuga degli insegnanti e dell’abbandono degli studenti. Secondo le statistiche dell’Unicef, nei primi due anni della rivoluzione sono stati uccisi 222 insegnanti in tutta la Siria e circa tremila scuole sono state distrutte. Negli anni successivi queste cifre si sono moltiplicate. Dal 2014 nelle aree controllate dal regime il sistema scolastico è piombato nel caos, mentre nelle zone in mano ai gruppi dell’opposizione è arrivato quasi al collasso totale. Una volta instaurato un governo ad interim, la Coalizione nazionale siriana delle forze dell’opposizione e della rivoluzione (che riunisce la maggior parte delle fazioni ostili al presidente Bashar al Assad) ha cercato di gestire le scuole nelle aree sottratte al regime attraverso il suo ministero dell’istruzione, che ha cambiato i programmi scolastici. Durante il terzo anno della rivoluzione, inoltre, i curdi siriani hanno istituito un governo autonomo nella provincia di Al Hasaka, nel nordest del paese, mentre il gruppo Stato islamico (Is) si è radicato in altri territori. Questi due nuovi poteri militari hanno creato una serie di istituzioni per gestire i settori della pubblica amministrazione, compresa la scuola. Per imporre la loro ideologia hanno creato due sistemi scolastici, radicalmente diversi da quelli del regime e delle forze d’opposizione. “Il governo ad interim aveva cominciato a ricostruire un sistema scolastico, ma l’avanzata dei jihadisti l’ha fermato”, ricorda Ali. Sotto il gruppo Stato islamico Ali ha dovuto lasciare la scuola per un anno, poi si è iscritto a una delle scuole ispirate alla sharia, la legge islamica, dove oltre al Corano e agli insegnamenti del profeta si apprendevano i fondamenti del pensiero jihadista. “Il professore era marocchino e tutte le lezioni erano basate sulla sharia e sulla negazione di alcuni racconti della vita del Profeta”, spiega Ali. “Dopo un po’ mi sono trasferito in Turchia”. In alcune aree il gruppo Stato islamico ha imposto nuovi programmi e libri di testo adattati alla sua ideologia jihadista. Invece nelle zone sotto il controllo delle fazioni dell’opposizione l’offerta formativa segue i vecchi programmi del regime, con alcune modifiche. Nella provincia di Al Hasaka, infine, le lezioni sono per lo più in lingua curda e tendono a riflettere l’ideologia del Partito dell’unione democratica (Pyd). Questi piani di studio incarnano i vari progetti politici che hanno provato a radicarsi in Siria. A pagare le spese della frammentazione sono i tre milioni di siriani in età scolastica che, secondo le stime dell’Unicef, sono esclusi dal sistema educativo. Il rischio è che si crei una generazione in gran parte analfabeta. Tornato in Siria, Ali al Adel si è iscritto in un istituto gestito dal ministero dell’istruzione turco. Ha 18 anni e frequenta la scuola media. Anche se in alcuni casi sembrano seguire criteri obiettivi, in realtà i programmi scolastici sono stati creati ex novo o sono stati modificati dalle forze che controllano il paese, in base alla loro linea politica e alla loro ideologia.
Nulla è cambiato
Nel 2017 e nel 2018 il regime non ha inserito modifiche significative rispetto agli anni precedenti. Il ministero dell’istruzione del governo di Damasco si è concentrato soprattutto sulle materie scientifiche, in particolare la matematica. Per le materie umanistiche non ci sono stati grandi cambiamenti, nonostante le implicazioni politiche. Questa scelta riflette l’intenzione del regime di rappresentare una Siria in cui negli ultimi sette anni non è cambiato niente, un’intenzione che appare evidente osservando i programmi di alcune materie, in particolare storia, geografia e nazionalismo. Nel 2017 il governo di Damasco ha modificato cinquanta libri di testo. Questi cambiamenti interessano milioni di studenti siriani iscritti alle scuole primarie e secondarie. I libri di geografia stampati per l’anno scolastico 2017-2018 includono statistiche risalenti al massimo al 2008, che fanno riferimento a risorse economiche, indici demografici, distribuzione della popolazione e flussi migratori. ma tutti gli indicatori sull’economia e sulla popolazione sono cambiati drasticamente dall’inizio della rivoluzione a oggi. È evidente che usare statistiche vecchie di dieci anni pregiudica l’attendibilità dei programmi. Nei libri di geografia per il primo anno di scuola superiore, sulla base delle statistiche pubblicate nel 2008, si legge che l’emigrazione giovanile dai paesi arabi è diminuita grazie al “miglioramento della situazione interna”, e che i siriani all’estero sono un milione. Il testo ignora totalmente il fatto che il numero dei siriani che hanno lasciato le loro case dopo la rivoluzione ha superato i sette milioni, e che centinaia di migliaia di cittadini arabi hanno abbandonato i loro paesi per le rivoluzioni, le guerre e i conflitti interni scoppiati nella regione dal 2011. Il programma del regime siriano dà ampio spazio alla storia del sangiaccato di Alessandretta, un territorio annesso dalla Turchia nel 1939, e alle alture del Golan, occupate da Israele nel 1967. L’obiettivo è trasmettere un messaggio antiturco: le mappe definiscono la Turchia uno “stato occupante”, evidenziando l’ostilità nata dal sostegno di Ankara ai ribelli siriani. Il ministro dell’istruzione Hezwan al Wiz ha annunciato anche una riforma dell’insegnamento della religione a tutti i livelli, con lo scopo di “superare l’ignoranza e l’estremismo”. Alcune persone vicine al regime hanno proposto di eliminare la materia “nazionalismo arabo” e sostituirla con “educazione patriottica”. Così è stato fatto, ma il nuovo curriculum continua a esaltare il valore dell’arabismo e del nazionalismo, sottolineando il “ruolo chiave” della Siria nel mondo arabo. I programmi di educazione patriottica per il primo e il quarto anno di scuola superiore contengono diverse imprecisioni. Per esempio esaltano il progetto della Lega araba e il ruolo della Siria nell’organizzazione, anche se la partecipazione di Damasco è sospesa dal 2011. L’orientamento politico dei programmi scolastici del regime è evidente quando si parla di “resistenza”. Il libro di testo per la prima superiore descrive la “cultura della resistenza”, dando ampio spazio ai mezzi d’informazione e al loro “ruolo nel combattere il terrorismo”. Secondo il ministero dell’istruzione 7.533 siriani studiano russo a scuola. A partire dalla seconda media gli studenti possono scegliere di studiare una seconda lingua straniera, oltre all’inglese, a scelta tra il francese e il russo. Anche se il ministero sostiene che il russo serva ad ampliare la conoscenza, il suo inserimento nei programmi scolastici è cominciato nel 2015, cioè dopo l’intervento militare russo a favore del regime. mosca è considerata la principale alleata di Damasco, e l’insegnamento del russo a scuola rilette il tentativo di presentare l’alleato come un paese amico, legittimando un’eventuale sua presenza a lungo termine. In alcune aree del nord in mano a ribelli fedeli ad Ankara, invece, si studia il turco. Tra i fedeli del regime si è diffusa una forte cultura del militarismo, e alcuni vorrebbero che l’educazione militare fosse reintrodotta nei programmi scolastici. Hilal Hilal, sottosegretario del partito di regime Baath, ha dichiarato che si sta discutendo di questa ipotesi, “per adeguarsi all’attuale situazione e allo sviluppo culturale”. In alcuni casi le aule scolastiche sono diventate un palcoscenico per la glorificazione di politici e militari legati al regime. Dopo l’uccisione del comandante dell’esercito Issam Zahreddine sono circolate immagini di un insegnante che citava l’ufficiale come esempio di “eroismo” durante una lezione in una zona rurale intorno a Hama. molti genitori probabilmente non sono in grado di limitare l’influenza di queste idee, per paura o perché non vogliono rischiare che i igli siano accusati di poco “patriottismo” e poca “lealtà” e abbiano per questo problemi con le forze di sicurezza. Una lettura revisionista Nel 2012 nelle scuole delle aree in mano ai ribelli si studiava ancora su libri che contenevano le immagini di Assad e le parole del “leader immortale”. È stato così fino al 2013, quando sono stati stampati tre milioni di manuali in cui era stato eliminato qualsiasi riferimento a figure associate al regime o al partito Baath. L’anno successivo è stato creato il ministero dell’istruzione del governo ad interim legato all’opposizione, che ha riformulato i piani di studio togliendo i simboli politici che avevano permeato i programmi scolastici per quarant’anni. Il documento sulle modifiche apportate dal ministero sottolinea la necessità di contrastare il regime dal punto di vista culturale, per sradicare l’ignoranza e la corruzione generati dai programmi scolastici tradizionali. ma in realtà anche i programmi rivisti contengono spesso falsificazioni politiche, espressione di una lettura in chiave revisionista della storia, della geograia e del nazionalismo. fino a maggio 2018 il ministero dell’istruzione del governo ad interim ha gestito circa duemila scuole in varie aree controllate dall’opposizione, che in totale contavano quasi 600mila allievi. La situazione instabile pesa sulla qualità dell’insegnamento: molti bambini e ragazzi non frequentano regolarmente, soprattutto gli sfollati e quelli che vivono nei campi profughi; nelle classi ci sono studenti di età diverse, e molti restano indietro; gli insegnanti se ne vanno, e quelli che li sostituiscono spesso non hanno esperienza. Il documento sottolinea anche che le modifiche del ministero includono omissioni, aggiunte, revisioni e sostituzioni, mentre i programmi delle materie scientiiche (fisica, matematica, scienze naturali e chimica) e delle lingue straniere (inglese e francese) sono stati lasciati com’erano. I cambiamenti introdotti riguardano la storia, la geografia e il panarabismo, materia completamente rimossa dall’offerta formativa. I programmi di storia sono stati rivisti “perché contenevano molte imprecisioni, falsiicazioni e mistiicazioni” che, secondo il rapporto, “contraddicevano la realtà storica dei fatti”. Queste “imprecisioni” riguardano soprattutto il periodo ottomano. Ogni riferimento all’“occupazione ottomana” è stato sostituito con l’espressione “dominazione ottomana”. Questa scelta dipende dal fatto che il governo ad interim ha sede in Turchia, dove sono stampati i libri di testo, usati anche in alcune scuole siriane in territorio turco. Il ministero dell’istruzione del governo dell’opposizione non si è preoccupato di “aggiornare e sviluppare” i piani di studio. Per esempio i libri di geografia si basano sulle stesse analisi usate dal regime per spiegare le cause delle migrazioni, associate alla ricerca di lavoro, senza alcun riferimento all’enorme crisi dei profughi in corso nel paese. Allo stesso modo, non è stato fatto alcuno sforzo per aggiornare i dati sulla demografia, sull’agricoltura e sull’industria, che si basano sulle stesse statistiche vecchie di anni citate dal regime. Questi limiti possono dipendere da problemi logistici e dalla diicoltà di trovare risorse, di fare ricerche e di assumere personale specializzato. ma non sembra esserci l’intenzione di intervenire per migliorare la situazione. La Turchia ha il pieno controllo dell’istruzione nelle zone che sono sotto la sua diretta inluenza nel nord della Siria, comprese Jarabulus e Azaz, nella provincia settentrionale di Aleppo. In queste aree è stato adottato lo stesso programma del governo ad interim, ma alcuni contenuti sono stati modiicati. Ankara sta cercando di imporre il sistema scolastico turco in questa regione, dove, secondo il ministero dell’istruzione turco, ci sono circa cinquecento scuole e 150mila allievi. Nel 2017 gli uffici scolastici del governatorato di Aleppo hanno deciso di introdurre l’insegnamento del turco a partire dalle elementari. molte scuole sono state perfino ribattezzate con nomi di militari turchi uccisi durante Scudo dell’Eufrate, l’operazione condotta quell’anno per conquistare l’area. Sulle copertine dei registri scolastici compaiono insieme la bandiera della rivoluzione siriana e quella turca. Raforzare il nazionalismo fin dalla sua instaurazione, il governo autonomo curdo della regione di Al Hasaka incoraggia tutti i ministeri a difondere una precisa ideologia, che legittimi la nuova autorità politica nel suo tentativo di stabilire il controllo sul territorio. Il compito del ministero dell’istruzione è stato particolarmente impegnativo. Servivano programmi alternativi, in linea con il cambio di direzione politica. Nel 2015 le regioni autonome del nord hanno introdotto la lingua curda nei primi anni di scuola elementare, per poi estenderla gradualmente agli altri anni. Anche se il curdo è la lingua più difusa nelle regioni autonome, Samira Hajj Ali, funzionaria del dipartimento dell’istruzione nella provincia, spiega che “ogni comunità usa la sua lingua”. Cioè gli arabi fanno lezione in arabo e i siriaci in siriaco. Dal 2015 il Comitato per la formazione della società democratica ha preparato “migliaia di insegnanti con lo scopo di adeguare le loro esperienze ai nuovi programmi”, dice Hajj Ali. Centinaia di insegnanti sono stati inviati in decine di scuole nelle zone controllate dal governo autonomo. ma le carenze dei nuovi programmi e il loro mancato riconoscimento internazionale hanno provocato le proteste della popolazione e ci sono state diverse manifestazioni contro il processo di “curdizzazione” in corso in queste aree. Secondo alcune fonti locali, in molti hanno preferito lasciare le zone sotto il governo autonomo e trasferirsi nelle aree controllate da Damasco, per assicurare “un futuro migliore ai igli” ed evitare la stretta delle autorità, che cercano di fare accettare i programmi scolastici curdi per raforzare il sentimento nazionale. mezzi d’informazione e organizzazioni per la difesa dei diritti umani hanno criticato questi piani di studio, segnalando errori e mancanze. Nei libri usati nelle zone sotto il governo autonomo la Siria come paese non esiste. È presente invece il Rojava, con le sue tre province, considerato parte del Grande Kurdistan. Nei libri di geografia, il Rojava (o Kurdistan occidentale) confina a nord con il Kurdistan settentrionale e a est con il Kurdistan meridionale. Inoltre l’idea di religione come fede è respinta e nei libri di storia le religioni sono presentate come filosofie dei profeti. La religione è scomparsa completamente come materia di studio, nonostante il 95 per cento dei curdi siriani siano musulmani credenti. Nei libri di storia è scritto che, anche se ha alcuni aspetti positivi, l’islam ha contribuito a indebolire il sentimento patriottico dei curdi. La Turchia è presentata come nemica del popolo curdo, e l’idea è rafforzata ricordando i massacri commessi contro i curdi dall’impero ottomano. I libri di testo sottolineano che la Turchia e gli altri paesi vicini hanno represso molte rivolte curde in Iran e in Azerbaigian. Queste rappresentazioni rilettono le storiche divergenze tra turchi e curdi e le tensioni seguite alla formazione del governo autonomo in Siria e delle Unità di protezione del popolo (ypg), le milizie curde attive nel nord della Siria. I libri di testo contengono anche attacchi a mustafa e masoud Barzani (storici leader dei curdi iracheni), accusati di essere capi tribali che pensano solo ai propri interessi a spese del popolo curdo. I Barzani sono anche accusati di essere succubi dell’Iran e di aver sprecato molte opportunità. Questa posizione dipende dallo stretto legame tra il Partito dell’unione democratica, siriano, e il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), nemico dei Barzani. Nelle scuole delle zone autonome si parla del leader del Pkk Abdullah Öcalan come del simbolo del patriottismo curdo. Öcalan viene esaltato e citato spesso e il suo pensiero è inserito nei libri di testo già dai primi anni delle elementari.
Mappe senza confini
Quando si è radicato in Siria, il gruppo Stato islamico ha azzerato tutti i programmi scolastici, accusati di difondere “l’ideologia baathista ed empia”. Le scuole dell’Is sono divise in tre livelli: uno di cinque anni, uno intermedio di due anni propedeutici e l’ultimo, che dura altri due anni. oltre al Corano, alla religione e all’arabo, in tutte le classi si fanno lezioni di “preparazione atletica”, in cui gli studenti sono addestrati al combattimento. Intorno ai tredici anni, quando sono al livello intermedio, gli alunni imparano a maneggiare le armi leggere. Sono previste anche lezioni sui diversi tipi di armi e sulla loro manutenzione e pulizia. La mappa dello Stato islamico rappresentata nei libri di testo copre una vasta area che va dalla Tanzania, nell’Africa centrale, al Kazakistan, in Asia centrale. Nei libri dell’Is la geograia riguarda solo l’estensione territoriale dello Stato islamico, e trascura le caratteristiche topograiche: nelle mappe infatti non ci sono confini tra gli stati. L’unica distinzione è quella tra “zone abitate in maggioranza da musulmani e zone abitate in maggioranza da infedeli”. L’insegnamento della storia comincia al quarto anno e si concentra sulla vita del profeta maometto e sulla nascita dell’islam, presentate come “la storia dello Stato islamico in Iraq e in Siria”, tralasciando qualunque altro evento storico. I programmi di fisica e chimica non si allontanano molto da quelli delle altre zone del paese, probabilmente per la diicoltà di modificare i contenuti scientifici. Sono stati aggiunti dei versetti coranici, che dovrebbero indicare il legame tra la religione e le altre materie. Anche il programma di matematica ha mantenuto i contenuti invariati. Le diferenze riguardano soprattutto il modo in cui si trasmettono le nozioni: nei primi anni scolastici, per esempio, i numeri sono spiegati facendo contare agli allievi una certa quantità di armi e soldati, su cui poi devono compiere le operazioni. L’inglese è insegnato a tutti i livelli, in quanto lingua parlata “da tutte le persone dell’Is”, ma i testi parlano del “califfato” e fanno riferimento alle città che per un periodo sono state conquistate dai jihadisti, come Raqqa e mosul. Le immagini ritraggono uomini con la barba, che hanno i volti oscurati per motivi di sicurezza. La fase più difficile ma in Siria non ci sono solo le scuole del governo, dell’opposizione, dei curdi e dei jihadisti. In alcune zone le lezioni sono organizzate dall’Unicef e dalle organizzazioni internazionali. Secondo l’Unicef, meno della metà dei bambini siriani emigrati all’estero rientra nei sistemi scolastici dei paesi che li ospitano, e il 53 per cento di loro non riceve un’istruzione. Da questo scenario sembra emergere una nuova generazione di giovani siriani sempre più ignoranti. Inoltre, i diversi programmi proposti a milioni di studenti stanno creando disuguaglianze culturali e cognitive, alimentando conlitti intellettuali causati dalle diverse ideologie. Anche se il quadro è drammatico, educatori e specialisti di psicologia infantile non escludono che ci possano essere soluzioni a lungo termine. Diverse organizzazioni siriane e arabe hanno elaborato alcune piattaforme di studio online ofrendo siti internet e applicazioni per i telefoni, che a partire da materiali visuali e video spiegano nel dettaglio tutte le materie e coprono quasi tutti i livelli d’istruzione, anche se generalmente si concentrano sulle scuole medie e secondarie. Questi strumenti possono compensare la mancanza di contenuti scientifici, sia per chi frequenta le scuole in Siria con i nuovi programmi sia per chi studia in altri paesi. evitando le faziosità ideologiche, si basano in gran parte sui programmi ufficiali siriani. Queste forme di istruzione assistita possono essere un rimedio, ma rappresentano un’alternativa solo temporanea. Servono nuovi programmi completi e a lungo termine per il periodo postbellico. Per Azzam Khanji, presidente dell’organizzazione education without borders, gli attuali programmi adottati nelle zone controllate dal regime e dall’opposizione possono rimanere in vigore, ma bisogna formare delle commissioni che garantiscano un adeguamento agli standard internazionali. Secondo Khanji “servono aiuti concreti, commissioni scientifiche con competenze specialistiche. molti professionisti qualiicati sono emigrati, e quelli rimasti sono isolati. Perciò è importante mantenere gli attuali programmi che in in dei conti sono simili, sia nelle aree controllate da Damasco sia in quelle in mano all’opposizione, in modo da ridurre il divario tra gli studenti che vivono in zone diverse del paese”. Khanji propone di creare dei centri educativi: “Quando la situazione in Siria si stabilizzerà, milioni di studenti si ritroveranno senza istruzione. Bisogna dare a qualcuno il compito di trovare soluzioni creative”. La fase più difficile per la Siria comincia ora. Una volta risolti i conlitti politici e militari la sfida sarà reinserire i bambini in un sistema scolastico fondato su basi solide e coerenti, con programmi inclusivi. Questo richiederà interventi a livello locale e internazionale. Khanji precisa che devono essere i siriani a elaborare i nuovi programmi, con il sostegno di esperti esterni. A proposito dei piani di studio che dovranno essere adottati sottolinea: “Abbiamo bisogno di programmi che rafforzino i valori umani, che insegnino ai bambini siriani l’importanza di lavorare insieme agli altri”. Secondo Khanji la scuola dovrà concentrarsi “sull’estremismo, sulla necessità di combatterlo con l’argomentazione e dimostrazioni razionali”. e dovrà insegnare ai bambini “a non tollerare l’estremismo, il crimine e l’illegalità”.

Enab Baladi è un settimanale indipendente siriano di politica, società e attualità. oltre alla versione online, ha un’edizione cartacea stampata in Turchia e distribuita in Siria. Questo articolo è stato scritto dalla squadra di giornalismo investigativo che si occupa di giustizia, istruzione e politica locale.

internazionale 7.9.18
I demoni della razza
Di Catherine Mary, Le Monde, Francia
Secondo il genetista David Reich le differenze biologiche tra le popolazioni ci sono e hanno un peso. Una tesi che ha suscitato grande clamore


La biologia può delimitare dei gruppi umani che giustificherebbero l’esistenza delle razze nella specie umana? Negli anni settanta i genetisti avevano dato una risposta definitiva a questa domanda: la razza è una costruzione sociale senza nessun fondamento biologico. Si liberavano così di una questione scottante, all’origine, nell’ottocento, delle teorie che riempiono le pagine più brutte della storia della loro disciplina. Ma David Reich, un rinomato genetista dell’università di Harvard, negli Stati Uniti, ha pubblicato un libro, Who we are and how we got here? (Chi siamo e come siamo arrivati in qui?), con cui soffia sulle ceneri che si credevano spente. Reich denuncia “l’ortodossia” del discorso sulla diversità genetica che si è imposto negli ultimi decenni e che ha trasformato la razza in un argomento tabù. “Come dobbiamo prepararci alla probabilità che nei prossimi anni gli studi genetici mostrino che molti tratti sono influenzati da varianti genetiche e che questi tratti sono diversi nelle popolazioni umane?”, si chiede Reich in un articolo apparso a marzo sul quotidiano The New York Times. “Affermare che non è possibile avere differenze significative tra le popolazioni umane favorirà solo la strumentalizzazione razzista della genetica che, giustamente, vogliamo evitare”, conclude lo scienziato. Proprio quando la Francia propone di cancellare la parola “razza” dalla sua costituzione, con un voto dei deputati il 27 giugno del 2018, la discussione aperta da Reich ricorda che per molto tempo la genetica è andata a braccetto con l’eugenetica, per poi pentirsene. E ricorda anche che la pretesa della genetica di poter analizzare tutto o quasi può portarla a ignorare i suoi limiti, un aspetto denunciato da molti antropologi in risposta all’articolo del genetista statunitense.
Una costruzione sociale
Come hanno fatto i genetisti a cancellare la nozione di razza dalla loro disciplina? E perché oggi questa nozione ritorna nelle tesi di Reich, i cui studi paradossalmente dimostrano che le popolazioni umane sono il frutto di molti incroci? Per capirlo bisogna vedere come nella biologia si è evoluto il concetto di razza dopo la tragedia della seconda guerra mondiale. “In realtà la razza è più un mito sociale che un fenomeno biologico. Questo mito ha causato un male immenso”, riconosceva nel 1950 la dichiarazione dell’Unesco sulla razza. Ma a quell’epoca la maggioranza dei genetisti, tra cui il russo Theodosius Dobzhansky e il britannico Ronald Fisher, pensavano ancora che da un punto di vista biologico le razze umane esistessero. Avevano cominciato a ridefinirle dagli anni trenta basandosi su alcuni caratteri, in particolare i gruppi sanguigni, che consideravano più affidabili di quelli morfologici. Avevano osservato che il gruppo 0 era presente nel 90 per cento dei nativi americani, quindi pensavano di poter descrivere gruppi umani omogenei e stabili. Tuttavia si erano resi conto che la particolarità di questi popoli non rifletteva una purezza di razza, ma veniva dalla loro storia, in quanto popolazione perseguitata e isolata. Né il colore della pelle né il gruppo sanguigno sono espressione di un insieme di varianti comuni a uno stesso gruppo umano. Le varianti tra gli esseri umani sono al tempo stesso il risultato del loro adattamento all’ambiente, come il clima o l’altitudine, e delle diverse origini geografiche delle popolazioni. Appurato questo, alcuni genetisti, come lo statunitense Richard Lewontin e il francese Albert Jacquard, dichiararono che qualunque tentativo di classificare gli esseri umani in categorie biologiche era il frutto di scelte arbitrarie, perché tutte queste categorie si basano su una parte molto ridotta di varianti. Ci sono più varianti tra due persone prese a caso in uno stesso gruppo umano che tra due gruppi nel loro insieme. Da qui un cambiamento di prospettiva, confermato dal sequenziamento del genoma umano negli anni novanta. Infatti il sequenziamento rivelava che le varianti riguardano solo una piccolissima parte del genoma umano, dell’ordine dello 0,1 per cento. Di conseguenza in biologia si è imposto un discorso antirazzista sulla diversità genetica, di cui oggi Reich denuncia “l’ortodossia”. “La ‘razza’ è una costruzione sociale. Noi genetisti non usiamo quasi mai questo termine negli articoli scientifici perché allude troppo a signiicati non scientiici. Inoltre, la sua deinizione cambia a seconda dell’epoca e del luogo”, osserva Reich. Se nel suo articolo Reich usa la parola razza tra virgolette è per mettere in guardia dal fatto che l’attuale discorso scientiico rischia di aprire la porta a posizioni settarie e a falsi esperti, che tra l’altro già ci sono. Mesi dopo aver lanciato la polemica, Reich resta sulle sue posizioni: “Non accetto l’idea secondo cui le diferenze biologiche medie tra due gruppi – per esempio tra gli abitanti di Taiwan e quelli della Sardegna – sarebbero così piccole da essere considerate prive di significato biologico e quindi ignorate”, dice. “Da tempo questa è la linea di molti professori universitari. Ma è un pensiero pericoloso, perché danneggia la comprensione e la considerazione della diversità umana”. Categorie arbitrarie “Le recenti scoperte in genetica hanno confermato che la nozione di razza non ha nessun fondamento biologico”, replica la genetista Évelyne Heyer del Museo nazionale di storia naturale di Parigi. “Non ci sono limiti distinti tra i gruppi umani che permettano di definire categorie ‘chiuse’. E caratteristiche come il colore della pelle riguardano solo una piccolissima parte del genoma umano. Infine, le differenze non giustificano l’esistenza di una gerarchia tra gli esseri umani in base alle loro capacità”. La mostra Nous et les autres , organizzata al Museo dell’uomo di Parigi nel 2017 e curata da Heyer, si basava su queste osservazioni per evidenziare la rottura della scienza contemporanea con le derive razziste dell’ottocento e per lodare gli studi sulla diversità biologica. Ma è proprio attraverso lo studio di questa diversità che oggi riaffiora la questione della razza. Il motivo è che il sequenziamento del genoma umano ha inaugurato vasti programmi di ricerca incentrati su due campi: la genetica delle popolazioni e la genetica medica. Nel primo i genetisti, contro il monopolio degli studiosi di preistoria, di antropologia e di linguistica, cercano di tracciare i grandi lussi migratori all’origine del popolamento della Terra studiando le espressioni delle origini geografiche contenute nei genomi. Le loro importanti scoperte permettono di riscrivere la storia di popoli come i vichinghi, gli ebrei, i sardi o gli amerindi. Nel secondo campo, i genetisti cercano delle predisposizioni genetiche in grado di spiegare, in alcuni gruppi umani, la frequenza elevata di malattie come i tumori, il diabete, l’obesità o la depressione. Gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, l’Islanda o l’Estonia finanziano progetti di genomica per realizzare una medicina personalizzata, in grado di adattarsi a un particolare profilo genetico in base al rischio di malattia a cui è associato. Da qui il paradosso: come negare l’esistenza di categorie tra gli esseri umani e, allo stesso tempo, individuare dei gruppi di popolazione in cui si studiano determinate varianti genetiche? In che modo l’esistenza di questi gruppi fluidi chiama in causa la nozione di razza, che affermava la presenza di entità stabili e chiuse chiamate dai genetisti del passato “categorie”? Queste classificazioni arbitrarie in biologia non hanno forse delle basi politiche? “Dagli anni settanta c’è un’ambiguità nella rottura con la nozione di razza da cui non siamo ancora usciti”, dice lo storico Claude-Olivier Doron. “Si può affermare che le razze sono categorie arbitrarie, che non valgono per una classificazione. Ma questo non toglie che la diversità tra due categorie, per quanto minima, possa servire per molti usi”. I gruppi delimitati dai genetisti sono anche il frutto di una storia sociale e politica, di una cultura a cui, lo si voglia o no, appartengono gli stessi scienziati. “Secondo i genetisti, gli studi sulla genetica delle popolazioni non hanno nulla a che vedere con quelli antropologici su cui è stata fondata la nozione di razza. Ma anche se le tecniche, le discipline e gli interessi in gioco sono cambiati, le grandi categorie di popolazioni su cui si basano questi studi – come gli ebrei, gli africani o i vichinghi – rimangono invariate”, sostiene lo storico Amos Morris-Reich dell’Università di Haifa, in Israele. “Il contesto sociale e politico degli studi sul genoma non è neutrale. Essere neri negli Stati Uniti non ha lo stesso signiicato che esserlo in Brasile, e i risultati delle analisi genetiche alimentano i dibattiti locali e possono essere strumentalizzati”, sottolinea l’antropologa Sarah Abel dell’università di Reykjavík, una delle firmatarie della risposta a Reich pubblicata sempre sul New York Times. “Sono d’accordo con Reich sul fatto che non parlare di determinate cose permette ad alcuni discorsi razzisti di svilupparsi e difondersi, in particolare su internet”, dice Doron. “Inoltre è vero che serve una guida precisa su quello che dicono e non dicono le conoscenze genetiche”, continua. “Ma nell’articolo pubblicato sul New York Times Reich si mostra incapace di deinire questi limiti. Confonde molte cose: gruppi che si sono dichiarati tali o sono stati creati dall’ufficio del censimento statunitense; gruppi costruiti ad hoc dai ricercatori per esigenze di studio, vecchie categorie provenienti dai periodi coloniali. Non si interroga mai sui limiti, sulle approssimazioni e sulle interpretazioni della genetica”, aferma lo storico. Reich si basa sui lavori del suo gruppo di ricerca, che ha identiicato nei genomi di uomini afroamericani regioni che li predispongono al tumore alla prostata. Di fronte a questo argomento, le reazioni degli specialisti in scienze umane sono unanimi: “Nel valutare il rischio che una malattia si sviluppi bisogna pensare a una complessità di fattori. Nel caso del tumore alla prostata citato da Reich, si guarda sempre di più agli effetti congiunti dei componenti chimici dell’ambiente, non si può ridurre il rischio maggiore di questo tumore alla sua sola dimensione genetica”, afferma Catherine Bourgain del Cermes 3, nel Centro nazionale di ricerca scientifica di Parigi. Bourgain è molto critica verso i modelli statistici usati da Reich, poco aidabili per valutare l’influenza dei fattori ambientali che possono condizionare i risultati. Del resto le popolazioni afroamericane, latine o native americane (su cui si basano gli studi di ricerca biomedica negli Stati Uniti) sono le più povere. Questo le espone ad ambienti e stili di vita (inquinamento, stress o alcolismo) che favoriscono l’insorgenza di malattie per cui si cercano predisposizioni genetiche. Nel 2004 la Food and drug administration (Fda), l’agenzia statunitense che regolamenta gli alimenti e i medicinali, ha approvato il BiDil, un farmaco per correggere l’effetto di una mutazione che rende le persone afroamericane più a rischio di infarto del miocardio. “Il problema su cui bisogna insistere nel caso del BiDil, e non solo, è che occulta altre variabili, per esempio quelle ambientali, che in alcuni casi sono molto più importanti”, insiste Doron.
Pregiudizi
Inoltre, questi studi potrebbero risvegliare di nuovo alcuni stereotipi radicati nell’inconscio collettivo. Così un programma nazionale messicano mira a sequenziare il genoma di diversi tipi di indigeni e meticci per studiare le loro predisposizioni genetiche allo sviluppo precoce del diabete di tipo 2 e dell’obesità. “La specificità del dibattito messicano è rappresentata dagli incroci di popolazioni europee, afroamericane e asiatiche, ma soprattutto tra diversi tipi di indigeni”, spiega lo storico Luc Berlivet, del Cermes 3. “Nelle discussioni ricompaiono stereotipi diversi da quelli sugli afroamericani o i popoli nativi del Nordamerica. Non si tratta più di distinguere i bianchi dagli afroamericani o dagli ispanici, ma di distinguere diversi tipi di indigeni. Questo pone gli stessi interrogativi, ma in modo più sottile”, dice. Un altro motivo di preoccupazione è la visione semplicistica del concetto di identità prodotta dall’analisi genetica delle origini geografiche. Ci sono aziende come 23andMe, Ancestry.com o MyHeritage che promettono ai clienti di determinare le loro origini geografiche attraverso l’analisi genetica. Diffusi senza precauzione, questi risultati possono alimentare le tensioni locali sulle questioni identitarie o rivelare gli stereotipi razzisti di una cultura, come è successo in Brasile con i test del dna sulle origini africane. Nonostante una storia nazionale che insiste sull’integrazione, in Brasile i pregiudizi razzisti sono radicati a causa del passato schiavista del paese e della diffusione delle teorie eugenetiche che valorizzavano i fenotipi “bianchi”, all’inizio del novecento. Negli anni duemila le università brasiliane hanno istituito delle quote per gli studenti neri. “In quel contesto il punto era capire come definire la razza nera. I test genetici avevano perso molta credibilità dopo la scoperta che il genoma di un famoso ballerino nero di samba conteneva più del 60 per cento di geni europei”, racconta l’antropologa Sarah Abel. “Quei risultati sono stati usati per affermare che le quote nelle università non avevano motivo di esistere, perché non aveva senso parlare di razza in Brasile. Oppure che non serviva a niente avere il 60 per cento di geni europei se poi la polizia ti arrestava per il colore della tua pelle”. In Europa e negli Stati Uniti alcuni militanti di estrema destra, diventati esperti in genetica, non esitano a impadronirsi dei dati e dei risultati degli studi del settore per sostenere ideologie fondate sulla purezza delle origini e sull’esistenza di una profonda identità europea. Gli autori del sito Humanbiologicaldiversity.com hanno anche messo a punto un discorso molto elaborato per ridare credito alla realtà biologica della razza, basandosi paradossalmente sui lavori del genetista italiano Luca Cavalli-Sforza, pioniere degli studi genetici sulle origini geografiche (morto il 31 agosto 2018). Ma se l’impatto di queste strumentalizzazioni è difficile da valutare, le inquietudini sono comunque forti in un contesto dove le tensioni sull’identità sono un terreno fertile per i partiti populisti che minacciano le democrazie occidentali. “È importante ricordare la storia del razzismo scientiico per interrogarsi sulle ripercussioni sociali, politiche ed educative degli studi di genomica. Il mondo non è più quello dei tempi dell’antropologia isica, e anche le relazioni tra la scienza e la politica sono cambiate. Il problema di queste ricadute riguarda tutti noi, giornalisti, bioetici, genetisti, storici o semplici cittadini”, conclude Amos Morris-Reich.

internazionale 7.9.18
Il lato oscuro del sogno cinese
Di Nicholas Bequelin, The Diplomat, Giappone
Pechino non può consolidare l’identità nazionale con la forza, avverte un responsabile di Amnesty international


Cosa rende forte una nazione? Gli intellettuali cinesi dell’ottocento si arrovellavano su questa domanda mentre osservavano il declino di un impero che era stato potentissimo. Più di un secolo dopo, i leader cinesi sono più che mai mossi dal bisogno di promuovere la coesione interna e di proiettare un’immagine di potenza all’estero, specialmente nel momento in cui il ritmo frenetico di modernizzazione degli ultimi trent’anni comincia a rallentare. Sotto il pugno di ferro del presidente Xi Jinping, le autorità cinesi vogliono dimostrare l’ineluttabilità storica del “ringiovanimento della nazione”, unita nella realizzazione del “sogno cinese”. Per questo, secondo Pechino, serve una popolazione omogenea, in cui le differenze di cultura, religione ed etnia, per non parlare delle idee politiche che potrebbero rimettere in discussione il regime del partito unico, devono essere cancellate. Gli uiguri e i tibetani, che insieme costituiscono la maggioranza della popolazione nella Cina occidentale, sono il principale bersaglio di questi sistematici tentativi di cancellare l’identità etnica. Ogni parvenza di tolleranza nei confronti di queste comunità è scomparsa. Al suo posto è subentrata la criminalizzazione di culture e religioni, nella convinzione che il fine della “coesione nazionale” giustifichi i mezzi. Il costo umano è stato denunciato recentemente alle Nazioni Unite. Gary McDougall, del comitato dell’Onu contro la discriminazione razziale, ha dichiarato che la regione autonoma dello Xinjiang è ormai una “zona senza diritti” in cui circa un milione di persone è detenuto nei centri anti­estremismo. I funzionari cinesi smentiscono queste affermazioni. Un editoriale del Global Times sostiene che è stato grazie “alla guida del Partito comunista cinese e alla forza nazionale del paese che lo Xinjiang è stato salvato dal caos”. Eppure oggi la regione si distingue per un’onnipresente sorveglianza ad alta tecnologia, l’espansione dei campi di “educazione” di massa, le pattuglie armate, i posti di blocco ovunque e altre misure intrusive che violano i diritti umani. L’uso della lingua uigura è vietato, così come molte pratiche religiose e culturali musulmane. Portare il burqa o avere una barba “anormale” sono considerate pratiche “estremistiche” e sono proibite in base alle norme di “deradicalizzazione”. Le autorità locali hanno imposto varie restrizioni: le famiglie devono consegnare le copie del Corano e altri oggetti religiosi al governo; i bambini con nomi islamici sono costretti a sceglierne uno diverso; gli studenti non possono più osservare il digiuno durante il Ramadan. Chi viene scoperto mentre prega o in possesso di libri religiosi è spedito nei campi di “educazione”, un termine orwelliano per deinire l’internamento di massa dei musulmani cinesi. L’emarginazione degli uiguri comincia a scuola. Le autorità vogliono che entro il 2020 più del novanta per cento degli studenti della minoranza riceva un’“istruzione bilingue”. Questo significa che il cinese mandarino è la lingua ufficiale del sistema scolastico, mentre la loro lingua, l’uiguro, è solo una delle materie insegnate.
Nuove identità
Nelle aree abitate da tibetani le autorità applicano la stessa logica di coesione e identità nazionale per giustificare la persecuzione etnica e religiosa. A maggio Tashi Wangchuk, un attivista per il diritto a usare la lingua tibetana, è stato imprigionato per aver “incitato al separatismo”. Le sue dichiarazioni in un documentario che denunciava la mancanza di tutela per la lingua e la cultura tibetane è stato usato come prova del fatto che stava “tramando per minare l’unità nazionale”. Il dalai lama è deinito un “separatista” ed è illegale appendere il suo ritratto o pregare in gruppo per lui. Migliaia di funzionari sono stati mandati nei monasteri per raforzare la sorveglianza sui monaci e sulle loro famiglie. Per indebolire i loro legami con la comunità, ai monasteri sono vietate molte attività tradizionali, come l’insegnamento della lingua tibetana. Ogni anno migliaia di studenti delle scuole elementari tibetane sono mandati in collegi in province lontane. Imparano il programma scolastico nazionale, con poco spazio per la lingua tibetana, e vivono in un ambiente dominato dai cinesi han, senza poter partecipare alle pratiche culturali tibetane e a quelle religiose buddiste. Gli viene insegnato il sistema delle “cinque identificazioni”, ovvero con “il paese, la nazione cinese, la cultura cinese, il Partito comunista cinese e il socialismo con caratteristiche cinesi”. Misure di questo tipo possono cancellare l’identità delle minoranze, ma questo non significa forgiare una nazione più forte. L’esperienza mostra che chi è vittima di una sistematica violenza di stato ha più probabilità di legarsi a nuove identità fondate sul risentimento e il sentimento d’ingiustizia. La repressione messa in atto in queste due regioni sarà estesa a un numero sempre maggiore di segmenti “sospetti” della società cinese, nel tentativo di creare una popolazione uniforme e ubbidiente che non metta mai in dubbio la saggezza del “grande timoniere”, come la stampa ufficiale ha cominciato a riferirsi a Xi. Troppo spesso i leader politici credono di poter ottenere un’identità nazionale compatta favorendo l’esclusione e l’intolleranza. Credono che infondere paura in persone che non pensano, parlano e pregano come la maggioranza sia il collante che terrà insieme la nazione. Ma si sbagliano. La risposta non sta nella repressione, ma nell’uguaglianza. Gli uiguri, i tibetani e altri gruppi etnici si sentiranno parte della nazione cinese quando saranno trattati come cittadini a pieno titolo, uguali di fronte alla legge e titolari di diritti umani protetti e rispettati dallo stato. Gli stati prosperano quando accettano la diversità e trattano tutti i cittadini – a prescindere dalla loro appartenenza razziale, origine etnica, religiosa e così via – con dignità, rispetto e uguaglianza di fronte alla legge. Sopprimere le differenze e cercare d’imporre un’identità nazionale uniforme ha sempre portato al conlitto. La Cina è ancora in tempo per cambiare: ascoltare i consigli delle Nazioni Unite sarebbe un buon inizio.

L’AUTORE Nicholas Bequelin è responsabile di Amnesty international per l’Asia orientale.

internazionale 7.9.18
Abigail Allwood
Altre forme di vita
È un’astrobiologa e qualche anno fa ha trovato le più antiche tracce di vita sulla Terra. Ora la Nasa spera che faccia la stessa cosa su Marte. Sarà la prima donna a guidare una missione su quel pianeta di Laura Parker, The Atlantic, Stati Uniti.


Dal 2003 al 2005, quando frequentava la facoltà di scienze della Terra all’università di Macquarie, a Sydney, in Australia, Abigail Allwood fece alcune scoperte importanti. Faceva ricerca sul campo nella regione di Pilbara, dove le avevano assegnato l’incarico di studiare le stromatoliti fossilizzate, strutture sedimentarie spesso prodotte da organismi che sarebbero le prime forme di vita conosciute del pianeta. La regione, una distesa desertica color ruggine di più di 500mila chilometri quadrati piena di formazioni rocciose che risalgono a due miliardi di anni fa, è più o meno quello che immaginiamo quando diciamo che un posto si trova “ai confini del mondo”. Alcune sue parti sono rimaste praticamente inviolate dagli esseri umani. Allwood ricorda ancora il giorno in cui lei e Ian Burch, che all’epoca era un collega e oggi è suo marito, camminarono per ore su una stretta cresta montuosa lunga una quindicina di chilometri. “Sono sicura che eravamo le uniche persone che passavano di lì da migliaia di anni”, mi ha detto. “Ricordo che un quall settentrionale (un marsupiale australiano simile a un topo) si è avvicinato a noi per guardarci meglio. Non aveva mai visto un essere umano, quindi non aveva paura”. Ancora più sorprendenti della fauna locale erano però le formazioni geologiche. Sembravano coni gelati rovesciati, una configurazione tipica delle stromatoliti, che di solito si formano nell’acqua poco profonda. La loro presenza faceva pensare che quella parte del deserto un tempo fosse stata umida, forse una barriera corallina. Poco tempo dopo Allwood capì che quelle rocce erano la prova più antica della presenza di vita sulla Terra. All’epoca all’interno della comunità scientifica era in corso un acceso dibattito sull’origine delle prime forme di vita. Era stato da poco dimostrato che gli ambienti idrotermali potevano produrre formazioni che somigliavano a colonie di fossili di microbi pur non avendo mai ospitato esseri viventi. Di conseguenza alcuni campioni che in precedenza erano stati considerati come tracce delle prime forme di vita erano stati scartati. Ed era cominciata la gara per trovare fossili che si fossero veramente formati in un ambiente “fluviale” freddo e umido, che quasi sicuramente potevano ospitare forme di vita. Allwood sapeva che quei fossili erano antichi. Dall’analisi dei campioni risultava che avevano 3,45 miliardi di anni. Ma sarebbe riuscita a dimostrare che si erano formati in un ambiente umido ed erano di origine biologica? Dopo mesi di fotografie, raccolte di campioni e misurazioni, si convinse che si erano formati in un’antica barriera microbica in mezzo a un oceano. “La maggior parte delle formazioni di fossili è un gran casino”, mi ha spiegato Allwood, che spesso aianca alle sue osservazioni scientiiche qualche espressione colorita. “C’è da aspettarselo da qualcosa che sta lì da tre miliardi e mezzo di anni. Ma ci sono alcuni punti in cui le rocce non sono così consumate. Ed è in quelle piccole inestre sul passato che si nasconde il vero tesoro”.
Verso lo spazio
Le scoperte di Allwood hanno dimostrato che sul nostro pianeta la vita è cominciata almeno 3,45 miliardi di anni fa. Le sue ricerche sono inite sulla copertina della rivista Nature. Allwood ha anche attirato l’attenzione della Nasa, che voleva scienziati di talento per trovare forme di vita nei luoghi più remoti. E così ha inito per lavorare al Jet propulsion laboratory (Jpl) in California, un laboratorio dedicato alla progettazione e alla costruzione di sonde spaziali, dove oggi dirige la ricerca sul prossimo rover da mandare su Marte. La sua missione consiste nel cercare segni di vita extraterrestre. Gli scienziati sono tutti d’accordo che su Marte potrebbe esserci stata vita. Come la Terra, il pianeta ha poco più di 4,5 miliardi di anni. E, sempre come la Terra, un tempo il suo clima è stato caldo e umido, due condizioni ritenute indispensabili per la nascita della vita. Ormai non è più né caldo né umido, naturalmente: la sua atmosfera è stata erosa dai venti solari ed è diventata troppo rarefatta per consentire la presenza di acqua allo stato liquido. Quando esistevano i microbi studiati da Allwood, però, la Terra e Marte si somigliavano. Se la vita ha attecchito sul nostro
pianeta perché non avrebbe dovuto farlo su Marte? “La nascita degli organismi viventi non è un evento raro e improbabile”, ha scritto Allwood su Nature nel 2016, riflettendo sulle condizioni iniziali della Terra e su quello che ci potrebbero rivelare riguardo alla presenza di forme di vita da altre parti. “Se dai alla natura una minima opportunità, la prenderà al volo”, ha aggiunto la scienziata. La Nasa organizza missioni su Marte da più di cinquant’anni, a partire da quella della navicella Mariner 4 (che nel 1965 fornì all’agenzia le prime foto ravvicinate del pianeta) ino ad arrivare alle tre missioni con i rover degli ultimi ventun anni. Ma anche se la ricerca di organismi viventi è sempre stata uno dei principali obiettivi del programma – oltre a quello di deinire il clima e la geologia del pianeta e di valutare la possibilità di esplorarlo – inora non ne è stata trovata nessuna traccia. Ma ogni missione si è avvicinata sempre di più all’obiettivo. Nel 2013, l’ultimo rover, il Curiosity, è finito sui giornali per aver individuato alcuni dei componenti fondamentali della vita – carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo e zolfo – vicino a un antico corso d’acqua. Questa scoperta ha spronato la missione successiva. Il nuovo rover, chiamato provvisoriamente “Mars 2020”, sarà il primo a individuare possibili campioni di roccia da analizzare, nella speranza che portino le tracce di forme di vita passate. In una missione successiva questi campioni saranno raccolti e portati sulla Terra. Ma quali campioni dovrebbero essere scelti? Perfino sulla Terra è molto difficile trovare fossili che hanno miliardi di anni. Considerato l’immenso costo e la difficoltà di trasportare per decine di milioni di chilometri pezzi di roccia, anche se piccolissimi, ogni campione dovrà essere esaminato attentamente in anticipo per essere sicuri che valga la pena di portarlo sulla Terra. Nel 2013 la Nasa ha annunciato una gara, aperta a tutta la comunità scientifica, per stabilire quali strumenti dovrebbe avere a bordo il Mars 2020. La concorrenza era feroce, ma Allwood, che all’epoca lavorava già al Jpl, non si è lasciata sfuggire l’occasione. Rocce e raggi X Abigail Allwood pensava già da tempo a uno strumento in grado di imitare alcune metodologie che aveva usato per esaminare le stromatoliti in Australia, ma in modo più veloce, più efficiente e da lontano. Lo strumento con cui ha partecipato alla gara, che ha chiamato Pixl, si serve dei raggi X per individuare gli elementi chimici che compongono un campione di roccia, anche se piccolo come un granello di sale. Il Pixl sarebbe molto più preciso di qualsiasi altro strumento inviato su Marte. Inoltre sarebbe il primo a condurre un’analisi petrologica, cioè a cercare di determinare le origini delle rocce studiandone la struttura e la composizione. Grazie alle immagini inviate dai rover precedenti gli scienziati sono riusciti a individuare varie caratteristiche geologiche dei campioni, ma non sono stati in grado di capire di che cosa erano fatti. Il Pixl, secondo Allwood, potrebbe analizzare la composizione chimica anche dei campioni più piccoli ripresi dalle telecamere. Questo “farebbe una grande differenza e potrebbe permetterci di scoprire di più sul passato del pianeta”. Misurando la quantità e la distribuzione spaziale di alcuni elementi speciici (per esempio la quantità di calcio rispetto a quella di ferro), il Pixl permetterebbe di dedurre il contesto in cui una roccia si è formata. Era vulcanica o sedimentaria? Faceva parte di un fiume, di un delta o di un oceano? La presenza di questi elementi, la loro distribuzione e la proporzione tra di loro potrebbero anche aiutare a capire se quando la roccia si è formata c’erano dei microbi. Usando tutte queste informazioni, la Nasa sarebbe in grado di stimare la probabilità che un campione contenga microbi fossili e decidere se riportarlo sulla Terra per altre analisi. Nel 2014 la Nasa ha annunciato che il Pixl sarebbe stato uno dei sette strumenti a bordo del Mars 2020, e ha nominato Abigail Allwood ricercatrice capo di una parte della missione. È la prima volta che una donna ricopre una carica simile in una missione su Marte. A novembre Allwood mi ha accompagnato a visitare i suoi laboratori, dove stava assemblando un modello perfettamente funzionante del Pixl da sottoporre a test prima di costruire quello vero. Il campus del Jpl in California, che si trova tra Pasadena e La Cañada Flintridge e dà lavoro a circa seimila persone, sembra più una vecchia scuola superiore che un laboratorio di alta tecnologia: pavimenti di linoleum, porte azzurre, molto beige. Allwood perciò ha deciso di rendere più allegro il suo ufficio con dei quadri colorati e con un’antica poltrona comprata su eBay. “Molto meglio delle sedie standard del Jpl”, dice indicandone una di plastica nera abbandonata in un angolo. Il cosmo in televisione Mentre bevevo un caffè veramente terribile comprato da un chiosco nel cortile (Allwood saggiamente l’ha rifiutato), la planetologa mi ha raccontato dei suoi studi a Brisbane, una città conosciuta più per le spiagge che per le istituzioni accademiche. Delusa dalle lezioni di scienza a scuola, aveva rivolto la sua attenzione ai divulgatori David Attenborough e Carl Sagan. Ricorda di aver scoperto la missione Voyager per studiare Giove, Saturno, Urano e Nettuno in una puntata di Cosmos di Sagan e, poi, di aver visto in televisione un’intervista a Carolyn Porco, una scienziata che aveva collaborato alla missione negli anni ottanta. “Raccontava che una notte era sola nel suo ufficio e improvvisamente aveva visto le prime immagini ravvicinate di Saturno inviate dal Voyager”, mi ha detto con il solito tono rilassato e gli occhi azzurro pallido che fissavano i miei. “Aveva avuto la sensazione di esplorare le frontiere del sistema solare, e io ho pensato tra me e me: ‘Che cosa meravigliosa dev’essere’” . Una volta arrivata al college Allwood ha cercato di laurearsi in fisica, ma ha avuto difficoltà con la matematica e si è arresa. In seguito si era iscritta di nuovo e a 28 anni si era laureata in scienze della Terra. Ha proseguito con il dottorato, lavorando con Malcolm Walter, il fondatore dell’Australian centre for astrobiology, che all’epoca aveva sede all’Università di Macquarie. L’astrobiologia è la scienza che studia l’origine della vita e la sua evoluzione nell’universo. Gli scienziati australiani sono da tempo all’avanguardia in questo campo perché i deserti relativamente inviolati del loro continente sono perfetti per capire come si è formata la vita sulla Terra (la Nasa definisce regioni come il Pilbara “controigure” di Marte). Il lavoro condotto con Walter avrebbe portato Allwood non solo allo studio delle stromatoliti ma anche a pensare oltre i confini della Terra. Dopo aver rinunciato al caffè, sono scesa con lei al piano di sotto, dove si trovava il laboratorio principale del Pixl, una stanza nello stesso edificio del suo studio. In un angolo, su un tavolo da lavoro erano ammucchiati cavi e piccoli motori. In un altro c’era una macchina per i raggi X chiusa in una scatola di plexiglass presa da un vecchio strumento del Curiosity. Probabilmente il Pixl sarà il macchinario più complicato a bordo del Mars 2020, ma non tutta la tecnologia che impiega è nuova. Per analizzare le stromatoliti, Allwood aveva usato una tecnologia simile, chiamata micro­xrf, che ricorre alla fluorescenza dei raggi X per stabilire la composizione chimica di un materiale (quando è esposto ai raggi X, un atomo di potassio si comporta in modo diverso, per esempio, da un atomo di oro, e questo rende facile distinguere tra loro gli elementi). All’epoca i micro­xrf erano usati soprattutto in archeologia e nel restauro di opere d’arte. In precedenza, il modello preso da All wood per le stromatoliti aveva analizzato i pigmenti di un antico manoscritto nepalese. Adattare quella tecnologia per Marte ha creato non pochi problemi. La macchina in origine era larga una sessantina di centimetri e pesava circa 270 chili. Per far entrare il Pixl nel Mars 2020, ha dovuto ridurla più o meno alle dimensioni di una console per videogiochi Nintendo GameCube. Il Pixl sarà montato su un braccio del rover. Questo vuol dire che dovrà affrontare i forti sbalzi di temperatura di Marte. Solo per riscaldarlo bisognerà usare una percentuale significativa dell’energia disponibile. Su Marte lavorerà insieme ad altri strumenti, tra cui lo Sherloc (sigla che sta per Scanning habitable environments with raman and luminescence for organics and chemicals) che sarà sempre montato sul braccio del rover. Mentre il Pixl si concentrerà sull’individuazione degli elementi chimici, lo Sherloc cercherà il carbonio eventualmente lasciato da forme di vita. Se insieme troveranno qualcosa che vale la pena di essere esaminato, Allwood e i suoi colleghi del Jpl avranno solo cinque minuti per leggere i dati in arrivo e dire al rover se guardare meglio o procedere. Tuttavia da lontano gli strumenti non potranno fare molto. Anche se dovrebbe essere in grado di fare delle buone ipotesi, il Pixl non potrà stabilire con sicurezza se una roccia contiene tracce di vita passata. Se un tipo di roccia dovesse sembrare promettente, il braccio del rover scaverà un campione di pochi centimetri, lo sigillerà in una provetta e la metterà da parte. Il resto dovranno farlo i potenti strumenti del laboratorio che sono sulla Terra. Ultimi ritocchi Prima di lasciare il Jpl ho chiesto ad Allwood se potevo vedere il posto dove i tecnici costruiranno il Mars 2020. I suoi occhi si sono illuminati: “Vuole vederlo davvero? Andiamo”. Ci siamo avviate verso il centro di assemblaggio, un grande hangar ai limiti del campus. Non abbiamo potuto entrare nella zona di montaggio, perché prima bisogna essere sottoposti a un rigoroso processo di decontaminazione che implica anche l’obbligo di indossare un bunny suit, una tuta sterile che serve a proteggere il rover da qualsiasi contaminazione umana. Se il suo scopo principale è cercare tracce di vita su un altro pianeta, bisogna stare attenti a non lasciare inavvertitamente materiale biologico a bordo. Allwood mi ha portato su una specie di balconata che si affaccia sulla zona di assemblaggio degli strumenti che dovranno portare il rover a destinazione. Qualche minuto dopo è entrato un gruppo di studenti. “Adesso non potete vedere il rover completo”, diceva la guida ai ragazzi, alcuni stavano già con il naso appicciato al vetro. “Cominceremo a montarlo tra sei mesi”, ha aggiunto la guida. Accanto a me, Allwood ha sorriso. “Non vedo l’ora”, ha bisbigliato. Il suo tono era controllato, ma quando l’ho guardata stava leggermente saltellando.



l’espresso 3.6.18
Addio prof
Un dossier rivela: dal 1995 a oggi hanno abbandonato la scuola tre milioni e mezzo di studenti. E così il Paese declina
di Francesca Sironi


Il deserto avanza. E il sistema che dovrebbe dare futuro alle nuove piante ne lascia invece seccare una su quattro. Dei 590 mila ragazzi che a giorni inizieranno le superiori, 130 mila non arriveranno al diploma. Abbandoneranno cioè l’istruzione statale prima dei 18 anni. Significa che in ogni classe, con i suoi 27 neoalunni che si conosceranno a breve, alla prima campanella, sei scompariranno dall’aula prima del traguardo. Diranno addio agli studi prima di averli portati a termine. La dispersione scolastica - che per molti dovremmo chiamare piuttosto “falla” scolastica - è un’ipoteca sul presente e il futuro di intere generazioni. La misura di questa crepa viene restituita ora da un dossier della rivista specializzata Tuttoscuola che L’Espresso può anticipare in esclusiva. Confrontando il numero di quanti sono entrati in istituti tecnici, professionali o licei e quanti ne sono usciti cinque anni dopo con un titolo, dal 1995 a oggi, Tuttoscuola mostra infatti come l’Italia abbia perso lungo la strada tre milioni e mezzo di studenti dal 1995 a oggi. È una voragine: il 30,6 per cento degli iscritti scomparso. Registrato come assente all’appello e di lì lasciato alla deriva. Certo, in questi oltre vent’anni sono stati alzati argini, spesso grazie a iniziative esterne, di volontari e associazioni. E il tasso di abbandono è diminuito: nel 2018 hanno detto addio in anticipo ai professori 151mila ragazzi, il 24,7 per cento del totale, contro il 36,7 del duemila. È un miglioramento, ma non una vittoria, una tendenza che non può distrarre dalla crisi. Perché l’incuria intorno e lo sconforto interno che portano gli adolescenti a far cadere i manuali prima di averli letti, sono gli stessi spettri che rischiano poi di trattenerli a lungo in quella macchia che è la conta triste dei Neet, di cui l’Italia detiene un primato europeo: giovani che non studiano né lavorano, che non vedono alcuna prospettiva all’orizzonte. È il vuoto lattiginoso dentro cui è chiuso un ventenne su tre al Sud; in tutto il paese, sono oltre due milioni. «Si può evitare questa immane, ennesima catastrofe culturale, economica e sociale, che avviene proprio davanti ai nostri occhi disattenti e rassegnati?», si chiede Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, introducendo il dossier, “La scuola colabrodo”: «Per farlo di sicuro bisogna partire dal sistema scolastico». La domanda dovrebbe occupare trasversalmente i dibattiti. Scuotere più di un ministero. Ma i leader, di qualsiasi colore siano, sembrano impegnati piuttosto a promettere unzioni universali e bonus che non a guardare a questa prevenzione necessaria per l’infrastruttura stessa del paese, quella umana. Per provare allora ad attirare più attenzione, Tuttoscuola ha fatto anche dei conti. In denaro: ha calcolato quanto ci costa questo spreco generazionale. Partendo dalla stima Ocse per cui lo Stato investe poco meno di settemila euro l’anno a studente, per l’istruzione secondaria. Il costo degli abbandoni - misurato correttamente, in base a quanti lasciano dopo uno o due anni, e così via - si misura allora in cinque miliardi e 520 milioni solo considerando i cicli scolastici 2009-2014 e 2014-2018. Cinque miliardi bruciati in nove appelli d’inizio settembre. Ancora non importa a nessuno, questo spreco? Guardando ai 23 anni presi in considerazione dal dossier (1995- 2018), la cifra diventa addirittura vertiginosa: 55,4 miliardi di euro. È la misura di un fallimento sociale, oltre che economico, enorme. E che ne racchiude altri, perché come ricorda il rapporto di Tuttoscuola, più istruzione significa anche più lavoro, più salute, più democrazia. Mentre lasciar seccare l’insegnamento, e la sua copertura, significa togliere strumenti e possibilità agli attuali e prossimi cittadini, quindi all’Italia come paese. Ne parla con un’indignazione immutata e con l’urgenza di chi preme perché le cose cambino Cesare Moreno, maestro elementare dal 1983, tra i fondatori di “progetto Chance” che si occupa a Napoli del recupero di alunni scappati dai banchi, e oggi presidente di Maestri di strada. «Se rottamiamo un giovane su tre senza averlo mai impiegato non è una questione che riguarda solo la scuola. È un disastro per l’intera società», attacca. Le cause? Per lui stanno in «un rapporto intergenerazionale che fa schifo, per usare un eufemismo, e in un sistema educativo a cui continua a mancare un pezzo fondamentale: abbiamo una scuola parolaia, ancorata alla cattedra, mentre servono più pratiche, meno prediche». Più laboratori, che coinvolgano i giovani da protagonisti. E soprattutto, insiste, più ascolto. In Campania, mostrano i dati di Tuttoscuola, l’abbandono è altissimo: il 29,2 per cento degli studenti non arriva al diploma: il tasso più alto dopo la Sardegna, dove gli addii (su un corpo studentesco più piccolo, ovviamente) sono il 33 per cento. Ma quali sono le parole che usano i ragazzi per raccontare il motivo che li ha portati ad andarsene? Principalmente due, racconta Moreno. «La prima è “sfastidio”, che in napoletano significa: mi annoio. È un’ombra estesa a tutto: allo studio, al gioco, alla vita». Lo spleen ch’era patrimonio esistenziale delle élite sartriane ha preso largo spazio nel sottoproletariato, dice Moreno, come assenza di speranza e prospettive. Come deserto che si presenta tale soprattutto a chi non ha strumenti per trovare la propria rotta. «Non riusciamo a presentare ai ragazzi una versione del mondo in cui ci sia posto per loro, diceva Jerome Bruner. Nel labirinto di scelte e di opzioni che s’apre oggi di fronte ai giovani, in questa confusione dove ogni cosa va inventata, non sappiamo aiutarli a comprendere quello che è giusto per loro». La seconda voce ricorrente nei discorsi sospesi di chi ha lasciato i libri è, aggiunge: “tengo problemi”, ovvero l’attitudine a descriversi attraverso i propri difetti. Come vittime, portatori di deicit. Invece di lavorare sul proprio desiderio, sono fermi a raccontarsi nel bisogno». Perché non riescono ad ascoltarlo, quel desiderio, non vedono un’aspirazione possibile. Perché mancano loro bussole per orientarsi. E quelle rimaste in classe sembrano troppo spesso coperte di polvere. «Lo zaino che preparo alle mie figlie ha dentro le stesse cose, gli stessi autori spesso, che portavo io sulle spalle trent’anni fa. Il mondo fuori nel frattempo è diventato un altro ilm. Ma la scuola è rimasta in molte parti immobile». Simona Ravizza dirige una struttura contro la dispersione nel centro di Monza, per l’associazione Antonia Vita. Uno spazio dove si ofre sostegno a chi sta per allontanarsi dalle medie o non riesce a portarle a termine. «Non facciamo altro che dare attenzione, in realtà. Per spiegare perché non riuscivano a stare in classe, i ragazzi ci dicono: “la prof non perdeva tempo a farmi capire”, “mi sembrava di essere scemo”. Ma è proprio da questa svalutazione, da questo sentirsi “cretini” che inizia spesso l’abbandono», dice. «Far capire che ti importa di loro, invece, che non molli, che te ne frega, permette di cambiare prospettiva. Di scoprire ad esempio un bambino dotatissimo in matematica, come ci è successo l’autunno scorso, che faticava in aula perché gli mancava sempre qualcosa: un quaderno, una firma, un compito. E la maestra si spazientiva». Quei pezzi che mancano nello zaino sono a loro volta segnali di un disagio diicile da colmare, però, e che inizia a casa. «Anche qui in Brianza abbiamo visto aumentare molto la povertà, negli ultimi anni, fra italiani come nelle famiglie straniere», continua Ravizza: «Offriamo la colazione, la mattina, perché diversi nostri alunni altrimenti non la fanno. O li lasciamo restare al pomeriggio perché nella loro stanza non avrebbero il riscaldamento fino a sera». La povertà, ricorda Save he Children, riguarda oggi oltre un milione di bambini. La crisi ha tolto loro coperte, servizi, pasti abbastanza nutrienti ogni giorno. E sembra aver reso ancora più diicile la possibilità di scavalcare il guado del censo, più iniqua la strada che inizia dal primo anno di scuola e accompagna al futuro. «In una ricerca che pubblicheremo a breve abbiamo dimostrato come ogni bocciatura aumenti di sei volte il rischio di abbandono. E chi sono i bocciati? In larga parte: i più poveri. I figli dei redditi più bassi. So che arriveranno diverse testimonianze di eccezioni: ma è una realtà statistica», spiega Federico Batini, professore associato di Pedagogia sperimentale all’Università di Perugia, e autore di numerosi studi e interventi progettuali sulla dispersione: «La scuola rischia di dimostrarsi così ancora come un’agenzia di selezione. È allora necessario ripensare i sistemi di valutazione e le pratiche didattiche». Come invertire l’eredità dell’esclusione che si porta in aula come una tara, e rischia di tenere ai margini anche chi riceve formalmente un’istruzione? Come fermare la desertificazione dell’abbandono scolastico? «Intanto ribadendo un’indicazione semplice e chiara: bisogna attivarsi per far recuperare e potenziare le competenze di base. Ripartire dalla comprensione del testo, ad esempio. Perché sono le fondamenta, oggi, a mancare ai ragazzi», dice Batini. Spesso pure fra chi ottiene un diploma, surfando su nozioni senza conquistarle, arrivando al traguardo senza la capacità di afferrare pienamente i significati letti. Senza avere insomma gli strumenti che servono per decidere. È una sconfitta immane, per una democrazia. Tanto più ingiusta quanto più disuguale: come mostra il rapporto di Tuttoscuola, da un liceo classico si allontana in anticipo “solo” il 17,7 per cento degli iscritti. Negli istituti professionali statali - dove va pure meglio che un tempo - dei 140mila alunni che avevano iniziato il percorso ai primi di settembre del 2013, soltanto 95mila hanno concluso a giugno con un diploma. Gli altri - uno su tre - hanno desistito. E nessuno li è andati a cercare. Magari si sono rivolti a strutture private, o alla formazione regionale, là dove funziona. Ma intanto, di certo, lo Stato ha rinunciato. E sì che per rafforzare quelle fondamenta necessarie non servirebbero per forza acrobazie sperimentali o piani didattici iper-specialistici, burocratici o costosi. Anzi. Basterebbe, ad esempio, leggere più spesso ad alta voce. «Un progetto che abbiamo appena concluso in Toscana, “No Out” prevede l’introduzione di giochi collaborativi basati su compiti di realtà, ma soprattuto la lettura quotidiana di testi letterari ad alta voce, in classe», spiega Batini: «I risultati, rafforzati dal confronto con chi non aveva partecipato al test, ci hanno confermato un elemento su cui in molti insistiamo da tempo: la lettura ad alta voce ha un impatto straordinario non solo su tutte le funzioni cognitive. Ma anche sulle emozioni». Quindi sulla capacità di essere empatici. E sulla possibilità, banalmente, di creare classi (prima ancora che una società) dove si vive meglio: un altro elemento che conta, parecchio, nelle dinamiche che portano all’auto-esclusione da scuola. L’ostilità o l’indifferenza dei compagni emergono come radici in tante storie di abbandono. Insieme alla mancanza di tempo dedicato loro dagli insegnanti. Anche questi mortificati, da piani di ingresso che, ricorda Tuttoscuola, dovrebbero farsi «veramente selettivi» per premiare i migliori; da riforme che centrifugano priorità e investimenti a ogni legislatura; da stipendi più bassi della media europea e che progrediscono poco con l’anzianità; da protagonismi a volte eccessivi delle famiglie; da condizioni insomma che portano gli stessi prof, a loro volta, alla fuga. «Serve un nuovo patto», conclude Vinciguerra. Un patto che porti acqua all’ascolto e alla centralità della scuola pubblica nella nostra democrazia. L’unica risposta possibile per prevenire l’avanzata del deserto.

E chi invece ce la fa poi scappa all’estero
“Eures” è un portale europeo per la ricerca di impiego. Sulla piattaforma sono registrati centinaia di migliaia di annunci, fra offerte d’occupazione aperte e candidature disponibili. La stragrande maggioranza dei curriculum presenta come titolo almeno una laurea, triennale o specialistica, oppure master o dottorati. Si tratta insomma di una bacheca che intercetta giovani in gamba, laureati, che vogliono lavorare in un altro paese europeo. E qual è lo Stato che ne offre di più? L’Italia. Le statistiche aggiornate al 3 settembre segnalano sul portale 75 mila italiani in cerca di lavoro oltreconfine. La Spagna, che segue, ne ha 64 mila. Terza la Francia, con solo 19 mila cv. Siamo i più europeisti di tutti, quando si tratta di emigrare per un posto. Lo hanno confermato anche i dati del dossier Statistico Immigrazione curato da Idos e Confronti l’anno scorso. Nel corso del 2016, stimava il rapporto, su 114 mila nuovi emigrati - una cifra conservativa, che riguarda solamente le cancellazioni, mentre i trasferimenti all’estero complessivi riguarderebbero almeno 285 mila persone - i diplomati sono 39 mila e 34 mila i laureati. Si tratta di forze cresciute nel nostro sistema scolastico, arrivate fino all’università, ma poi in fuga dall’Italia per la ricerca di una carriera, o un impiego, che sia in linea con quanto hanno studiato, in un ambiente che premi il merito e non la clientela, o ancora soltanto in una città che dia loro più orizzonti. Certo, la fortuna degli expat altrove può essere il segnale di un istituzione educativa che funziona, di atenei eccellenti e competitivi nel mondo. Ma è allo stesso tempo l’ennesimo frammento di un sistema in crisi: di orientamento, di opportunità, di crescita che mancherà al paese. Oltre alla prova di un investimento in parte “perso” per l’Italia, almeno se guardato da Roma: Idos e Confronti, insieme all’Istituto di Studi politici San Pio V hanno calcolato, infatti, partendo da dati Ocse, che per ogni diplomato Stato e famiglia spendono in media 90 mila euro; che diventano 158 mila per ogni laureato triennale; 170 mila per chi ha il titolo magistrale; 228 mila per i dottori di ricerca. È l’altra crepa su cui insiste il rapporto di Tuttoscuola sulla dispersione. Poco più della metà dei diplomati infatti diventa matricola. E a sua volta, mostra il dossier (“La scuola colabrodo”), soltanto uno su due circa, si laurea. «Insomma, su 100 studenti che ottengono la licenza media, in 75 arrivano al diploma (almeno nella scuola statale) e alla laurea solo in 18», mostra la ricerca: «Se si trattasse di una fabbrica, sarebbe già chiusa da tempo. Un sistema formativo che fabbrica dispersione è una macchina che gira a vuoto».

Scaffale
“L’insegnante di terracotta”, Michele Canalini, (Mimesis editore) Pressati dai diktat tecnologici. Stretti dagli esperti, marcati dai genitori, a tre anni dalla Buona scuola e coi proclami del governo, i docenti rischiano di andare in frantumi. Una lettura per evitarlo.
“Tutti i banchi sono uguali”, Christian Raimo, (Einaudi) Il classismo in classe. Ovvero: la scuola che non sa promuovere l’uguaglianza, che non dà le stesse opportunità, che disattende la Costituzione. Con dati a dimostrarlo.
“Perché devo dare ragione agli insegnanti di mio figlio”, Maria Teresa Serafini, (La nave di Teseo) Gli insegnanti hanno sempre ragione. Punto. Come recuperare iducia scolastica. E impostare sani rapporti tra adulti.
“Sull’attualità di Tullio De Mauro”, Ugo Cardinale (il Mulino) Perché va protetta l’eredità del linguista.


l’espresso 3.6.18
Chiesa. L’ultima tempesta
Francesco papa fragile C
di Emiliano Fittipaldi


Il clamoroso dossier pubblicato due settimane fa dall’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha mostrato ancora una volta qual è il punto debole del pontificato di Bergoglio. Perché, al di là delle reali motivazioni per le quali l’ex nunzio a Washington ha chiesto le dimissioni di Francesco accusandolo di aver coperto gli abusi sessuali dell’ex cardinale americano Theodore McCarrick, e dell’uso strumentale che ne stanno facendo le fazioni ultra tradizionaliste nemiche del papa, la vicenda ha evidenziato come il pontefice stia perdendo a cinque anni dall’elezione al soglio petrino una delle battaglie più delicate del suo magistero. Quella contro la pedofilia degli ecclesiastici, tumore cresciuto nei decenni grazie alla compiacenza e all’omertà della Chiesa. L’accusa principale di Viganò appare assai debole. Non solo perché non suffragata da alcuna prova (l’arcivescovo ha infatti raccontato che in un incontro privato nel 2013 avrebbe avvertito Francesco che McCarrick aveva approfittato sessualmente di decine di giovani seminaristi maggiorenni aggiungendo che il papa, nonostante le rivelazioni, non avrebbe mosso un dito contro l’anziano presule in pensione), ma anche perché il rapporto è pieno di omissioni: in primis proprio l’ex nunzio, dopo la sua denuncia al papa, ha in più occasioni incontrato McCar rick in assoluta cordialità, tanto da presentare il molestatore a una conferenza pubblica come «un uomo molto amato da tutti noi». Elementi che compromettono l’assunto con cui l’arcivescovo giustifica il suo sfogo: «Io agisco solo perché la verità emerga». Ma seppure i fatti raccontati fossero veri, seppure Bergoglio avesse avuto nel 2013 la consapevolezza della doppia vita di un anziano vescovo in pensione allora mai sfiorato da accuse di pedofilia, arrivate solo nel 2018, le accuse di Viganò sembrano assai poco significative in un contesto di responsabilità ed evidenze ben più gravi. Riguardanti il papa e altri alti prelati vicini al vescovo di Roma «venuto dalla fine del mondo». L’operazione di Viganò mira a coinvolgere il pontefice in prima persona nel nuovo grande scandalo dei preti pedofili della Pennsylvania, dove la procura generale lo scorso agosto ha difuso i risultati di un’indagine su presunti crimini di ecclesiastici avvenuti nell’arco degli ultimi 70 anni. Un report che evidenzia come oltre 300 tonache avrebbero abusato e violentato in modi orrendi oltre mille bambini e bambine. «Abbiamo le prove che il Vaticano sapeva e ha coperto gli abusi. La copertura era sistematica», ha detto Josh Shapiro, procuratore generale dello Stato del Nord Est. «Quello che abbiamo trovato davvero spaventoso è che i leader della Chiesa avrebbero mentito ai fedeli la domenica, mentito in pubblico, protetto questi predatori ma contemporaneamente documentavano ogni cosa, mettendola negli archivi segreti. Le responsabilità del papa? Non posso parlare specificatamente di Francesco», ha concluso il magistrato. La stragrande maggioranza dei casi di stupri, in effetti, è precedente al 2000. Ma il nuovo terremoto americano e le reazioni internazionali alla lettera di Viganò dimostrano che sul tema della lotta alla pedoilia Francesco sta cominciando a perdere credibilità. Anche perché, se il papa ha usato parole di fuoco per stigmatizzare gli orchi con il collarino, di passi in avanti questo magistero ne ha compiuti - al netto della propaganda bergogliana - davvero pochi. Chi dice che la pedoilia è un fenomeno del passato non conosce i numeri della Congregazione della dottrina della fede, che segnalano come negli ultimi cinque anni siano arrivate in Vaticano circa 2.000 denunce “verosimili” da ogni parte del mondo, una media doppia rispetto al periodo 2005-2009. Travolto dagli scandali di Boston e della Chiesa irlandese, Benedetto XVI allungò i termini di prescrizione del reati di 10 anni, inserì nei codici vaticani il reato di pedopornografia, ma non intaccò il dispositivo (nefasto) del «segreto pontificio», ancora oggi applicato a ogni processo canonico e su ogni notizia di atti contro il sesto comandamento. Francesco non ha modiicato le regole, che vanno tutte contro la trasparenza tanto pubblicizzata dalla “rivoluzione”: chi parla rivelando i nomi dei pedoili compie “peccato mortale”, e va incontro a sanzioni severe decise da una commissione disciplinare ad hoc. Con sanzioni che comprendono il licenziamento e persino la scomunica “latea sententiae”. Bergoglio non ha nemmeno emesso norme né motu proprio pontiici che obblighino senza se e senza ma i vescovi e i presuli a denunciare preti pedoili direttamente alla magistratura ordinaria: «La responsabilità morale ed etica di denunciare gli abusi presunti» non basta più all’opinione pubblica e ai fedeli traditi. Soprattutto quando “la negligenza” coinvolge i vertici vaticani. Gli esempi recenti sono molti, e quello che riguarda Luis Francisco Ladaria, promosso un anno fa prefetto della Congregazione della fede da Francesco, è emblematico: nel 2012 Ladaria ha infatti coperto, senza denunciarlo, un prete pedofilo che la Congregazione aveva ridotto in stato laicale per abusi sessuali su alcuni bambini, don Gianni Trotta. Ladaria e il cardinale ex prefetto William Levada ordinano però alla chiesa pugliese che la condanna canonica passi sotto silenzio, «per non dare scandalo ai fedeli». Trotta, le cui gesta erano sconosciute a tutti tranne che alle gerarchie vaticane, ha potuto così violentare altri minorenni del tutto indisturbato: dopo essere stato spretato, ha infatti trovato lavoro come allenatore in una squadra di calcio giovanile, e in due anni ha molestato una decina di bambini in un paesino vicino a Foggia. Ladaria è ancora potente prefetto della Congregazione che deve giudicare i preti pedofili. I fallimenti non si contano: il tribunale contro i vescovi maniaci, annunciato urbi et orbi nel 2015, non vedrà mai la luce. La Commissione per la Tutela dei minori voluta dal papa nel 2014 non ha alcun potere reale, né in Vaticano né sulle Conferenze episcopali dei vari paesi, tanto che due membri laici, ex vittime dei pedofili, sono andati via sbattendo la porta, spiegando che l’organismo era solo «un’operazione propagandistica di Francesco». Sono decine gli altri casi eclatanti che spiegano bene perché il papa stia perdendo credibilità sulla questione che contribuì a chiudere l’esperienza di Benedetto XVI, e perché rischi seriamente che i suoi tanti nemici - in una guerra civile ormai permanente - possano presto approfittare dei suoi passi falsi. George Pell, il cardinale chiamato a Roma dal pontefice per mettere a posto le finanze vaticane e “moralizzare” la corrotta curia romana, un anno fa è stato infatti incriminato dai magistrati australiani per alcuni casi di pedofilia considerati più che verosimili da inquirenti e polizia. Francesco, anche se lo ha sospeso dall’incarico, lo ha sempre sostenuto, decidendo di non sostituirlo prima della fine del processo. Le imputazioni dei magistrati e dei ragazzi sono ovviamente tutte da dimostrare. Ma evidenze del comportamento oscuro del cardinale di fronte alla tema della pedofilia erano note da anni. In passato, quando era vescovo di Melbourne, il “ranger” era già stato denunciato da un chierichetto di 12 anni per gravi molestie (il processo si era chiuso nel 2002 senza alcuna condanna per mancanza di prove) e Ratzinger - anche per questo - aveva sempre frenato le sue ambizioni di trasferirsi presso la Santa Sede. Non solo. Il porporato nel corso degli anni era inito nel mirino di decine di vittime e di sopravvissuti agli orchi. Ragazzi e ragazze che nel corso delle audizioni della Royal Commission, una commissione nazionale voluta dal governo di Canberra per investigare sugli abusi sessuali nella Chiesa australiana, hanno additato “Big George” come un insabbiatore, come un prelato che ha sistematicamente difeso i pedoili australiani (secondo il rapporto finale della Commissione il 7 per cento dei preti cattolici dell’isola sono implicati in vicende di pedoilia), come un vescovo che ha inventato un sistema di risarcimenti usato in realtà «per distruggere e controllare le vittime e difendere l’immagine e la cassaforte della Chiesa». Qualcuno, come un padre a cui un preside cattolico ha violentato due bimbe di 4 e 5 anni, ha definito Pell «un sociopatico». Quattro anni fa L’Espresso aveva documentato come il braccio destro appena scelto da Francesco aveva chiesto a famiglie distrutte dai pedoili in tonaca di accettare, per chiudere deinitivamente il casi di abusi in alcuni processi civili contro la sua diocesi, la miseria di 30 mila euro. «In caso contrario» scrivevano gli avvocati di Pell, «noi ci difenderemo strenuamente in tribunale». Non solo: è un fatto che il cardinale abbia accompagnato sottobraccio mostri seriali come l’amico ed ex compagno di stanza Gerald Ridsdale (alla ine condannato in via deinitiva per aver violentato decine di bambini), e che lo stesso “ranger” ha coperto accuse a suo dire false contro i Fratelli Cristiani e invece poi rivelatesi verissime. Altre vittime hanno raccontato - in testimonianze giurate - come Pell abbia cercato di comprare il loro silenzio. I giudici della Royal Commission hanno definito in una relazione del 2015 il suo comportamento «poco cristiano». Al netto degli esiti del processo per presunti abusi sessuali, tutte le altre informazioni sul lato oscuro di Pell erano pubbliche già prima che Francesco - tra il 2013 e il 2014 - nominasse “Big George” capo della Segreteria dell’Economia, poi membro del C9, il gruppo dei cardinali che deve consigliare il ponteice nella gestione della Chiesa universale. Com’è possibile che Bergoglio abbia protetto Pell? Questo resta un mistero glorioso. Così come incredibili appaiono - assai più che le accuse di Viganò - altre inaudite ascensioni di insabbiatori nelle alte sfere della gerarchia, tutte scelte che da anni stanno minando il credito del magistero bergogliano. Nel C9 Francesco ha infatti chiamato anche il cardinale cileno Francesco Errazuriz, che per anni ha tenuto nascoste in un cassetto le denunce dei ragazzi contro il pedofilo seriale Fernando Karadima. Mentre un allievo dell’orco, Juan Barros, nel 2015 nonostante le accuse circostanziate delle vittime e le vibranti proteste di parte del clero locale fu promosso ugualmente da Bergoglio vescovo di Osorno: solo quest’anno - dopo l’ira del presidente della Commissione per la tutela dei minori cardinale Seán O’Malley per l’ennesima difesa di Barros da parte di Francesco davanti alle vittime allibite - il papa ha cambiato linea, chiedendo scusa per parole inopportune, mandando in fretta e furia un nuovo visitatore apostolico in Cile per appurare una verità già evidente a tutti da lustri, e accettando infine le dimissioni di Barros. Un pesce piccolo, comunque, nella scala gerarchica del clero cileno: Errazuriz e l’arcivescovo di Santiago Ricardo Ezzati, che hanno sempre difeso Karadima e Barros e recentemente insultato uno dei sopravvissuti («un serpente», dissero in uno scambio email) non solo hanno mantenuto i loro incarichi, ma sono stati premiati. Errazuriz promosso nel C9, Ezzati con la berretta cardinalizia. Anche la recente vicenda che ha travolto il coordinatore del C9 Oscar Maradiaga, primo consigliere di Bergoglio, e il suo braccio destro Juan Josè Pineda è indicativa di come Francesco, se a parole propugna la “tolleranza zero”, poi copre troppo spesso le malefatte dei suoi fedelissimi. Il cardinale honduregno è stato posto alla destra del trono di Pietro nonostante tra il 2003 e il 2004 abbia ospitato in una delle diocesi del suo arcivescovado a Tegucigalpa un prete incriminato dalla polizia del Costarica per abusi sessuali, don Enrique Vasquez (rimase sei mesi in Honduras, poi - quando l’Interpol lo individuò - scappò via dal paese). E lo ha voluto al suo fianco nonostante Maradiaga - estimatore dell’insabbiatore seriale Bernard Law, da cui scaturì lo scandalo Spotlight - abbia detto nel 2002 durante una conferenza pubblica a Roma che anche lui sarebbe stato «pronto ad andare in prigione piuttosto che danneggiare uno dei miei preti» accusati di abusi minorili. Qualche mese fa L’Espresso ha svelato i contenuti dell’inchiesta di un visitatore apostolico argentino mandato dal Vaticano proprio nella diocesi honduregna: alcuni testimoni a maggio 2017 hanno infatti accusato Maradiaga di aver percepito dall’università cattolica locale 35 mila euro al mese per anni, e indicato il vescovo ausiliare Pineda responsabile di «gravi comportamenti inappropriati» (traducendo: abusi e relazioni sessuali) nei confronti di alcuni sacerdoti maggiorenni. Il coordinatore del C9 ha negato con forza ogni addebito, spiegando di aver girato i denari ricevuti alla diocesi affinché fossero investite in opere di beneicenza, e ha aggiunto che Pineda era innocente, calunniato da forze oscure e giornalisti «che scrivono libri infami. È stato Pineda stesso, per dimostrare la sua innocenza al mondo, a chiedere al Vaticano l’invio di un visitatore apostolico», disse furibondo il consigliere del papa. Dopo pochi mesi, però, documenti interni della diocesi hanno evidenziato che dei soldi di Maradiaga non c’è alcuna traccia nei bilanci di Tegucigalpa, mentre Bergoglio, lo scorso luglio ha accettato le dimissioni da ausiliare di Pineda. «Il fatto è che il papa ha tenuto per mesi i risultati dell’inchiesta del vescovo Casaretto sulla sua scrivania. Solo quando le accuse sono infite sulla stampa s’è finalmente mosso», spiegano oggi prelati honduregni. «Pineda comunque ha mantenuto il titolo di vescovo e Maradiaga è rimasto saldo al suo posto. Come dite voi in Italia? Parlare bene e razzolare male. Ecco, da Francesco proprio non ce lo aspettavamo».

“Goebbels sosteneva anche che destra e sinistra erano concetti superati”…
l’espresso 3.6.18
Le lezioni della storia e i demagoghi del presente: molte differenze e qualche analogia. Inquietante
La libertà muore con calma
di Emanuele Felice


Luglio 1932. I nazisti prendono il 38 per cento e sono il primo partito in Germania. Ma non riescono a formare il governo, perché le altre forze politiche si rifiutano di collaborare con loro. Si torna al voto a novembre e i nazisti scendono, al 33. È solo allora che i conservatori, pensando che Hitler sia in declino, decidono di appoggiarlo come cancelliere. A gennaio 1933 nasce il primo governo Hitler, di coalizione. Sceglie con molta cura il ministro dell’Interno, ovviamente di incrollabile fede nazista (Wilhelm Frick, lo sarebbe rimasto ino al 1943). A febbraio i nazisti orchestrano l’incendio del Reichstag (il Parlamento), incolpando i comunisti: appena una settimana dopo si torna a votare, fra intimidazioni e violenze, e i nazisti balzano al 44 per cento. Con maggioranza dei due terzi (si allineano ai nazisti non solo i conservatori ma anche il Partito di Centro), a marzo il nuovo Parlamento vota il Decreto dei pieni poteri, che consente a Hitler di promulgare leggi senza passare per il Reichstag. Vi erano state diverse scorrettezze, piuttosto gravi nella sostanza. Ma formalmente la trasformazione della democrazia in una dittatura era avvenuta nella legalità, rispettando le procedure dettate dalla Costituzione. A quel punto rimanevano solo due ostacoli sulla via del potere assoluto. Uno era l’ala più sociale e radicale del nazionalsocialismo: capeggiata da Ernst Röhm, fondatore delle potenti Sa (le Squadre d’assalto naziste, un’organizzazione paramilitare con centinaia di migliaia di effettivi), primo grande sostenitore di Hitler e fautore di un programma rivoluzionario che inquietava esercito e industriali. Hitler arrestò e decapitò i vertici delle Sa nella famosa «notte dei lunghi coltelli», dal 30 giugno al 2 luglio 1934, rievocata fra l’altro ne La caduta degli dei di Visconti. L’altro ostacolo era il presidente della Repubblica, l’ottantaseienne maresciallo Hindenburg, un eroe di guerra, che si era imposto proprio contro Hitler nella primavera 1932. Vecchio e ormai malato, morirà poco dopo la notte dei lunghi coltelli, nell’agosto 1934. Hitler dichiarò formalmente vacante la carica di presidente del Reich e si attribuì ufficialmente il titolo di Führer. La Germania che finì preda del nazismo era uno dei paesi più colti e avanzati del mondo, multiculturale e progressista. Se non fosse stato per la crisi del 1929, Hitler non avrebbe mai raggiunto la maggioranza relativa dei voti. Ma se non fosse stato per le rivalità fra i suoi avversari, per gli errori di quanti sistematicamente lo sottovalutarono, anche con un seguito così largo non avrebbe mai raggiunto il potere, men che meno assoluto. Le istituzioni democratiche della repubblica di Weimar si sgretolarono in appena tre mesi, sotto i colpi di una minoranza corposa, bene organizzata disposta a tutto: guidata da un leader di grandissime capacità oratorie e completamente privo di scrupoli. Forse è questo l’insegnamento principale che possiamo trarre da quegli eventi, destinati a segnare così tragicamente la storia di tutto il genere umano: la democrazia è fragile. Non bisogna darla per scontata. E guai a pensare di poter facilmente controllare i demagoghi rozzi e spregiudicati, alla guida di forze strutturate e compatte. Può rivelarsi un errore fatale, per il vecchio establishment liberal-conservatore: fra l’altro, i tedeschi avrebbero potuto capirlo guardando a quel che era successo dieci anni prima proprio in Italia.
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Oggi possiamo consolarci notando che i demagoghi sovranisti di allora erano ben altra cosa, rispetto a quelli di oggi. C’è del vero. Si scorgono differenze lampanti, che sono il prodotto di circostanze storiche diverse.
Primo, l’uso della violenza: i nazisti, come anche i fascisti, ne facevano ampio ricorso nella lotta politica, attingendo al clima sociale instauratosi in tutto il vecchio continente a seguito della prima guerra mondiale (la militarizzazione della società, i milioni di reduci spesso traumatizzati che facevano fatica a riadattarsi alla vita civile).
Secondo: il discorso esplicitamente razzista dei nazisti, che riprendeva idee ancora largamente diffuse in ampi strati della società europea e americana e che circolavano persino nel dibattito scientifico (e a volte erano tradotte in leggi anche al di là dell’Atlantico). Sarà solo dopo l’Olocausto, dopo il nazismo appunto, che qualsiasi discorso esplicitamente razzista divenne improponibile in (quasi) tutto il mondo. Non è un caso che i demagoghi sovranisti dei nostri giorni non ne parlino apertamente; piuttosto il loro razzismo è nei fatti, o si palesa di tanto in tanto in apparenti gaffe.
La terza differenza dipende meno però dalle circostanze storiche, e difatti già le cose cominciano a farsi un po’ più delicate. Il totalitarismo nazista, come anche quello sovietico e prima ancora (ma in maniera più blanda) il fascismo, propugnava lo Stato etico. Puntava cioè alla subordinazione delle coscienze individuali alla volontà collettiva (la nazione, la razza, la classe), sfidando quindi apertamente un principio cardine dell’umanesimo liberale, affermatosi negli ultimi secoli: la libertà di scelta dell’individuo. Questo pilastro fondativo delle democrazie liberali e delle società di mercato, di tipo etico e forse persino teoretico, a tutt’oggi nessuno dei sostenitori delle «democrazie illiberali» (la definizione è del premier ungherese Orbán) l’ha mai messo seriamente in discussione. Nemmeno Putin, né tantomeno Trump o Salvini e gli altri populisti europei?
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Possiamo quindi star tranquilli, i totalitarismi del Novecento non si ripeteranno, continueremo a vivere tutto sommato come persone libere? Fino a un certo punto. Perché un’altra lezione che viene dalla storia è che spesso gli esiti peggiori non si palesano sin dall’inizio, ma sono il risultato di un processo «evolutivo», più o meno lungo. Le cose si mettono in moto in una certa direzione. E il cammino, se pur lento rispetto a quanto successo negli anni Trenta, potrebbe essere già avviato: il ministro dell’Interno che minaccia di togliere la scorta a Saviano per le sue opinioni politiche; il ministro della Famiglia che offende pesantemente gli omosessuali; il fatto che in Italia, così come in Ungheria, si stia cercando di mettere il bavaglio alle organizzazioni non governative. E ancora, ha fatto capolino l’idea di riservare un trattamento speciale alle minoranze indesiderate, i rom, che naturalmente comincia con un censimento ad hoc. Anche i nazisti inizialmente non ammazzavano gli ebrei (né i rom): si limitavano a schedarli, a discriminarli in tutti i modi possibili per costringerli ad andare via; con gli anni, si è passati dal boicottaggio dei negozi alla «soluzione finale». Una preoccupazione simile vale per le istituzioni democratiche, cioè per le regole che formalmente garantiscono la nostra libertà. Anche qui bisogna sapere riconoscere subito i sintomi, non sottovalutare alcun segnale. La posta in gioco è troppo alta. Fascisti e nazisti mettevano esplicitamente in discussione il costituzionalismo liberale, il Parlamento e le sue mediazioni, accusati di non riflettere l’autentica volontà popolare. «Entriamo in Parlamento come il lupo nel gregge», dichiarò il neo deputato Goebbels, nel 1928, la prima volta che i nazisti misero piede nel Reichstag. Massimo artefice della propaganda hitleriana, Goebbels sosteneva anche che destra e sinistra erano concetti superati, e che la propaganda per risultare efficace doveva essere volgarizzata al livello più basso possibile e accomunare tutti i nemici in un’unica categoria (i corrotti, i vecchi politici inconcludenti). Non è difficile trovare assonanze con alcuni discorsi populisti dei nostri giorni. Certo, la situazione attuale è diversa, perché appunto sono diverse le circostanze storiche. I nuovi demagoghi hanno per modello le democrazie illiberali di Ungheria, Polonia, Russia, dove formalmente si continua a votare in regimi multipartitici. Ma la libertà politica, la libertà di stampa, l’autonomia del potere giudiziario in quei paesi sono già fortemente compromesse. E Putin con i suoi metodi si assicura ormai da tempo ampie maggioranze alle elezioni. Erdogan è su quella strada. Orbán è alla guida del partito più forte, in termini percentuali, di tutta l’Unione europea. I demagoghi sovranisti sanno come mantenere il potere, anche in contesti formalmente democratici, manovrando la propaganda, alterando e forzando le regole. Quelli europei godono oggi di ampi appoggi internazionali, da parte di tutti coloro, dalla Russia a Trump, che hanno interesse a sfasciare l’Unione. Attenzione quindi a prenderli sottogamba. In Italia, a onor del vero, l’abbiamo appena fatto. La passività con cui una parte decisiva del Pd ha lasciato che i Cinquestelle finissero fra le braccia della Lega, auspicandolo perfino con infelici battute (i popcorn), si rivela ogni giorno che passa un gravissimo errore; mitigato nei suoi effetti solo dalla fermezza di Mattarella. Se sia stato un errore irrimediabile, che resterà come tale al cospetto della Storia, non è ancora dato saperlo: da quest’esito, ancora aperto, dipende il futuro dell’Italia e in fondo anche dell’Europa.



ALCUNI SETTIMANALI

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Australia-Nauru
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Negli ultimi anni le autorità che si contendono il dominio della Siria hanno imposto diversi programmi scolastici nelle aree sotto il loro controllo. Aumentando le divisioni e l’ignoranza

internazionale 7.9.18
I demoni della razza
Di Catherine Mary, Le Monde, Francia
Secondo il genetista David Reich le differenze biologiche tra le popolazioni ci sono e hanno un peso. Una tesi che ha suscitato grande clamore

internazionale 7.9.18
Il lato oscuro del sogno cinese
Di Nicholas Bequelin, The Diplomat, Giappone
Pechino non può consolidare l’identità nazionale con la forza, avverte un responsabile di Amnesty international

internazionale 7.9.18
Abigail Allwood
Altre forme di vita
È un’astrobiologa e qualche anno fa ha trovato le più antiche tracce di vita sulla Terra. Ora la Nasa spera che faccia la stessa cosa su Marte. Sarà la prima donna a guidare una missione su quel pianeta di Laura Parker, The Atlantic, Stati Uniti.

l’espresso 3.6.18
Addio prof
Un dossier rivela: dal 1995 a oggi hanno abbandonato la scuola tre milioni e mezzo di studenti. E così il Paese declina
di Francesca Sironi

l’espresso 3.6.18
Chiesa. L’ultima tempesta
Francesco papa fragile C
di Emiliano Fittipaldi

“Goebbels sosteneva anche che destra e sinistra erano concetti superati”…
l’espresso 3.6.18
Le lezioni della storia e i demagoghi del presente: molte differenze e qualche analogia. Inquietante
La libertà muore con calma
di Emanuele Felice