mercoledì 12 settembre 2018

Il Sole Domenica 9.9.18
Eredità culturali
Perché non possiamo non dirci antichi greci
di Carlo Carena


Perché non possiamo non dirci cristiani titolava nel ’42 un breve saggio, ma clamoroso, Benedetto Croce, pur senza abiurare il suo laicismo. Lì constatava e argomentava che in ogni caso quella del cristianesimo fu una rivoluzione di tale portata, da aver inciso in modo determinante nell’ideologia, nella morale e nella società per tutti i secoli successivi.
Giuseppe Zanetto in Siamo tutti greci dimostra a sua volta quanto grande sia l’incidenza e l’eredità dell’antica civiltà greca in molti aspetti della nostra vita, del nostro pensiero, della nostra arte, dei nostri comportamenti e nell’organizzazione della nostra società. A volte, anzi spesso siamo greci senza avvederci e senza saperlo, quando parliamo, quando leggiamo, quando cerchiamo un panorama (pan-órama, “vista totale”) o contempliamo un’opera d’arte, quando votiamo, quando ammiriamo una donna e andiamo dal medico.
Il titolo deriva anche qui da una celebre frase di Shelley in pieno romanticismo, nella prefazione al poema drammatico Hellas, ultima sua opera: We are all Greeks. Né Zanetto si ferma lì, ma esplicita e svolge nel suo libro quant’altro poi specifica il poeta romantico: «… perché le nostre leggi, la nostra letteratura, la nostra religione, le nostre arti hanno le loro radici in Grecia. Essi ci governano ancora dal loro lontano passato».
La nostra lingua e il nostro atteggiamento intellettuale, problematico, appartengono a quel popolo a cui il vocabolo stesso di “problema” appartiene, come “porsi davanti a qualcosa per osservarlo attentamente e capirlo a fondo”.
Siamo greci quando facciamo politica (pólis, “città”) perché essi pensarono e misero in atto l’idea che per prendere una decisione importante per molti, per tutti, il modo migliore è riunirsi tutti quanti, discuterne, poi votare le varie proposte e infine adottare il parere della maggioranza dei cittadini. Aristofane immaginò persino il voto concesso alle donne e i loro comizi elettorali, e il conferimento, non poi così buffo e chimerico, del potere ad esse; nonché l’introduzione della comunione dei beni: così lo Stato sarà ben governato, e così tutti avranno di che mangiare a sazietà.
Accanto all’assemblea, l’ecclesía, sta un consiglio operativo di cinquecento membri estratti a sorte e in carica per un anno, la boulé, una specie di ministero degli interni; inoltre dieci strateghi eletti dall’assemblea comandano l’esercito, e pubblici ufficiali sorvegliano le attività commerciali e controllano la qualità delle merci, la correttezza dei pesi e delle misure, il rispetto delle norme igieniche. Le votazioni avvengono di norma palesemente, per alzata di mano, in base al principio tipicamente greco che in politica non ci si nasconde e non si fa i furbi, ma ci si schiera schiettamente e senza timore secondo le proprie idee. Per cui «in ultima analisi, il quadro della pubblica amministrazione, ad Atene o in una qualunque altra pólis, non è così diverso da quello di uno stato moderno». La differenza fondamentale è se mai quella della democrazia diretta, che peraltro rispunta anche negli sviluppi più recenti della partecipazione alla politica.
Anche alcuni personaggi di questo mondo e di quest’aria cittadina non sono molto diversi da quelli che occupano uno spazio nel mondo politico moderno. I più caratteristici e divertenti si trovano in un’altra commedia di Aristofane, I cavalieri (424 a.C.); ritratti dal vero dei politici più abietti e spudorati, che fanno a gara nell’adulare bassamente Demo (il Popolo), un vecchietto stupido.
Di qui, dall’idea che in democrazia decidano tutti, gli incompetenti e anche gli immeritevoli, le critiche mosse già nell’antichità e già dal sublime Platone. Platone sogna non il governo di tutti ma dei filosofi, ossia dagli amanti e competenti nella sapienza, capaci di pensare e di provvedere anche per la gente comune, la quale giudica e decide non col cervello ma “con la pancia”, correndo dietro a chi fa le promesse più mirabolanti: come avviene se si propone a un gruppo di ragazzini di scegliere fra un medico o un pasticcere.
Da questa prima parte dedicata alla struttura e al funzionamento dello Stato, Zanetto passa ad altri aspetti non estinti dell’antichità greca: la fisicità del corpo, la grazia delle sue forme nude, quali apparvero nella maliarda Calipso a Ulisse e quali appaiono negli atleti celebrati da Pindaro.
Ma il corpo è anche uno specchio dell’animo, e la sua bellezza e vigore sono prova di virtù. Perciò merita un'attenzione e una cura a cui provvede la magistrale scienza medica, studiata e modernizzata dalla scuola ippocratica operante e irradiante dal V secolo sull'isola di Cos nel mare Egeo, con alcune intuizioni anch’esse fondamentali: la salute fisica dipende dagli equilibri degli organi interni e dai loro umori, che vanno osservati e studiati metodicamente e non genericamente, in clinica, caso per caso, per trovarne le cure appropriate.
A incorniciare il quadro non manca nel volume la descrizione di una tipica giornata dell’uomo greco, quale narrata dall’ateniese Iscomaco a Socrate nell’Economico di Senofonte. Levata di buon mattino, andata nel podere a piedi e istruzioni ai braccianti; ritorno e una cavalcata in campagna per tenersi in esercizio da bravo soldato; rientro di corsa dalla scuderia, doccia e infine pranzo.
Uguaglianze, e diversità, ovviamente: come conclude Zanetto, il confronto col nostro mondo e col nostro modo di vivere ci impone di riconoscere che sono molto diversi: «e tuttavia non possiamo capire nulla di noi, se non ci confrontiamo con i Greci».
SIAMO TUTTI GRECI
Giuseppe Zanetto
Feltrinelli, Milano, pagg. 158, € 13