il manifesto 6.9.18
Diritto alla casa, il rovesciamento della Costituzione
di Francesco Pallante
Benché
la Costituzione non proclami espressamente il diritto alla casa,
dottrina e giurisprudenza non dubitano che dal complesso della Carta
fondamentale emergano sicure indicazioni sull’esistenza di tale diritto.
La
riflessione degli studiosi è articolata nel merito, ma che l’esigenza
di avere un’abitazione sia coperta dal dettato costituzionale è oggetto
di unanime riconoscimento. Valgano per tutti le esemplari considerazioni
di Temistocle Martines: «L’abitazione costituisce punto di riferimento
di un complesso sistema di garanzie costituzionali, e si specifica quale
componente essenziale (oltre che presupposto logico) di una serie di
“valori” strettamente legati a quel pieno sviluppo della persona umana
che la Costituzione pone a base della democrazia sostanziale». Tali
valori – precisa ancora l’Autore – sono la famiglia, la scuola, la
salute e il lavoro: nessuno di questi sarebbe pensabile se mancasse il
presupposto di una casa in cui vivere.
Per la giurisprudenza,
punto di riferimento sono le sentenze della Corte costituzionale numero
49 del 1987, numero 217 e numero 404 del 1988, nelle quali si trova
proclamata l’esistenza di un «dovere collettivo di impedire che delle
persone possano rimanere prive di abitazione». La Corte precisa che tale
dovere assume una duplice valenza: da un lato, «connota la forma
costituzionale di Stato sociale»; dall’altro lato, «riconosce un diritto
sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo
di cui all’art. 2 della Costituzione». La conclusione è inequivocabile:
tra i «compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso», al fine di
«creare le condizioni minime di uno Stato sociale», rientra quello di
«concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un
fondamentale diritto sociale, quale quello all’abitazione», così
contribuendo «a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto
ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana».
Ciononostante,
lo Stato ha abdicato, eccome, al dovere di garantire a tutti i
cittadini il fondamentale diritto sociale all’abitazione. Le risorse
impiegate in materia, pari dal 26% degli investimenti pubblici totali
negli anni Cinquanta, sono crollate a meno dell’1% negli anni Duemila,
per scendere ulteriormente – secondo una ricerca dell’Università Bocconi
– ad appena lo 0,09% delle spese per il welfare (contro l’1,19% del
Regno Unito, il 2,05% della Germania e il 2,62% della Francia). Le sole
politiche degli ultimi anni in materia sono state quelle rivolte a
reprimere i comportamenti privati di reazione al disagio abitativo, di
cui la recente circolare sugli sgomberi voluta dal ministro degli
Interni (della quale in queste ore si cominciano a vedere gli effetti
pratici) non è che l’estremizzazione, posto che la sua base legislativa
resta il cosiddetto «decreto sicurezza Minniti-Orlando» (convertito
nella legge numero 48 del 2017).
È il ribaltamento
dell’impostazione costituzionale: anziché dare attuazione al diritto
all’abitazione previsto nella Carta fondamentale, in modo da soddisfare
le esigenze materiali a esso sottostanti, il legislatore interviene
esclusivamente per impedire che tali esigenze possano sfociare in azioni
volte a farvi autonomamente fronte. Con il risultato che comportamenti –
come l’occupazione di immobili abbandonati – mossi dall’intento di dare
soddisfazione a un bisogno riconosciuto come diritto costituzionale
provocano la reazione delle autorità pubbliche sulla base di previsioni
normative di rango legislativo. Un vero e proprio cortocircuito
logico-giuridico.
La situazione è andata aggravandosi al punto
che, secondo Federcasa, l’edilizia residenziale pubblica è attualmente
in grado, sul territorio nazionale, di far fronte alle esigenze
abitative di 700 mila famiglie, pari ad appena un terzo di quelle che
avrebbero realmente necessità di un alloggio e non sono in condizione di
procurarselo attraverso i meccanismi del mercato. Nel contempo – come
riportato su questo giornale il 28 gennaio dell’anno in corso – dei
circa 31 milioni di appartamenti esistenti in Italia, 7 milioni sono
vuoti e 1,5 milioni sottoutilizzati: uno su quattro. Di fatto, l’offerta
potenziale di abitazioni supera di sei volte la domanda, inclusa quella
proveniente dall’utenza non italiana.
Non si tratta, dunque,
necessariamente di costruire nuove case popolari, incrementando il già
elevatissimo consumo di suolo, ma di intervenire sugli assetti
proprietari esistenti, a partire dai patrimoni improduttivi dei grandi
possidenti (società commerciali o singole persone fisiche). L’art. 42
Cost. delinea chiaramente il quadro normativo in cui muoversi, sancendo
che la proprietà privata – oltre che riconosciuta e garantita nei limiti
in cui ne sia assicurata la funzione sociale e sia resa accessibile a
tutti: altro che sacra… – «può essere, nei casi preveduti dalla legge, e
salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale». Tra i
quali non si può negare rientri quello far fronte all’emergenza
abitativa che grava su una parte sempre più ampia della popolazione.