il manifesto 29.9.18
I pentaleghisti e lo spartito democristiano
Il
def gialloverde. Debito, assistenzialismo, evasione fiscale, non
proprio una rivoluzione, piuttosto la replica di vecchi modelli,
spolverati con tagli simbolici ai privilegi (vitalizi, pensioni d’oro).
Solo che ora i conti non si fanno più in casa, ora inizia il confronto
con l’Europa e con la giostra dei mercati
di Norma Rangeri
Il
governo segna un punto. La dura battaglia del Def ne rafforza
l’immagine e ne esalta la sostanza pattizia. Di Maio e Salvini alla fine
hanno piegato la resistenza del ministro Tria e divelto i paletti del
commissario Moscovici. Il risultato del braccio di ferro presenta il
conto di una legge di bilancio che risponde alle promesse elettorali del
contratto gialloverde.
Lega e 5Stelle scaricano sul mercato del
debito le misure sociali, dalla Fornero ai sussidi pubblici per chi non
arriva a 780 euro al mese, all’aumento delle pensioni minime. Poi
accarezzano gli evasori con un bel condono e la promessa di abbassare le
tasse a chi sta in testa alla scala sociale aumentando così la forbice
della diseguaglianza.
È vero che sembra una manovra di classico
stampo democristiano, e se i 5Stelle ne sono gli eredi 2.0 si capisce la
scena delle bandiere bianche in piazza Montecitorio e dei ministri che
si affacciano al balcone di palazzo Chigi per festeggiare il punto messo
a segno. E i mal di pancia pentastellati trovano sfogo in un
compattamento che li rilancia nella sfida con il concorrente leghista.
Debito,
assistenzialismo, evasione fiscale, non proprio una rivoluzione,
piuttosto la replica di vecchi modelli, spolverati con tagli simbolici
ai privilegi (vitalizi, pensioni d’oro). Solo che ora i conti non si
fanno più in casa, ora inizia il confronto con l’Europa e con la giostra
dei mercati.
A Bruxelles non sfugge il largo consenso del governo
gialloverde e l’Italia è un paese da maneggiare con cura. Le elezioni
politiche hanno testimoniato un terremoto con uno spostamento di milioni
di voti verso Lega e 5Stelle, e quelle europee potrebbero replicare il
risultato presentando un Parlamento e una Commissione con rapporti di
forza ribaltati rispetto a quelli che l’hanno governata negli ultimi
anni.
Purtroppo nessun «new deal» è alle viste, non si festeggia
il 2,4% del deficit per una stagione di investimenti sulla scuola e
sulla ricerca, sulla sanità e sull’ambiente. Nessun «new deal» e nessuna
sinistra capace di convincere gli elettori su un’alternativa credibile
di programma e di valori democratici.
Perché la spallata del Def
avviene in un clima politico avvelenato dalla parola d’ordine «prima gli
italiani», da un decreto sulla sicurezza che aggrava la condizione dei
migranti in Italia, che non rispetta i diritti, contro il quale sono in
campo tutte le associazioni, laiche e cattoliche, un decreto che la Cei
ieri giudicava «incostituzionale». E non è strano se il Pd ha qualche
difficoltà a chiamare domani i suoi elettori a manifestare per la difesa
dei migranti visto che, a voler essere coerente, dovrebbe rivendicare
in piazza la politica dei respingimenti libici dell’ex ministro
dell’Interno Minniti.
L’opposizione del Pd, come del resto anche
quella di Forza Italia, si riduce alla difesa dei parametri europei.
Forza Italia non grida più al complotto dello «spread» e Renzi si è già
dimenticato di quando, per portare a casa gli 80 euro, minacciava di
sforare il tabù del 3%. Questo modo di fare opposizione certo non
riguadagnerà al Pd il consenso delle periferie sociali che il 4 marzo lo
hanno abbandonato scegliendo Lega e 5Stelle. Senza argini, né a destra,
né a sinistra, il governo non solo segna un punto ma agli occhi del
paese rafforza l’immagine di unico soggetto politico in campo.