il manifesto 20.9.18
Genocidio rohingya, primo passo dell’Aja verso l’inchiesta
Myanmar.
La Corte penale internazionale ha avviato l’esame preliminare delle
accuse contro il Myanmar per omicidi, stupri, persecuzione. Nessun
problema di giurisdizione: quello birmano non è uno Stato membro del
Tpi, ma lo è il Bangladesh che ospita oltre un milione di rifugiati
della minoranza
di Emanuele Giordana
«Dalla fine
del 2017, il mio ufficio ha ricevuto una serie di comunicazioni e
rapporti riguardanti crimini presumibilmente commessi contro la
popolazione Rohingya in Myanmar e la loro deportazione in Bangladesh».
Comincia così il comunicato con cui Fatou Bensouda, procuratrice
generale della Corte penale internazionale dell’Aja (Tpi), ha reso noto
l’avvio dell’esame preliminare su presunti atti coercitivi che hanno
provocato lo spostamento forzato del popolo Rohingya in Bangladesh:
privazione dei diritti fondamentali, uccisioni, violenze sessuali,
sparizioni forzate, distruzione e saccheggi, persecuzione.
Il
cammino è stato lungo e tortuoso perché il Myanmar, che non è uno Stato
membro del Tpi, ha rifiutato alla corte visite nel Paese per verificare
le accuse. Bensouda chiarisce che, sulla questione legale preliminare
riguardante la giurisdizione del Tpi, la procuratrice ha avuto conferma
dallo staff legale del tribunale che si può effettivamente esercitarla:
se il Myanmar non è Stato membro, lo è il Bangladesh, dunque i giudici
possono lavorare perché questo Stato è parte in causa.
«Un esame
preliminare – chiarisce la procuratrice – non è un’inchiesta, ma un
processo di esame delle informazioni disponibili» per ottenere una
decisione pienamente confortata dai fatti sull’eventuale esistenza di
«una base ragionevole per procedere a un’indagine secondo i criteri
stabiliti dallo Statuto di Roma. È il minimo che dobbiamo alle vittime».
Teoricamente,
ai sensi dello Statuto di Roma, le giurisdizioni nazionali hanno la
responsabilità primaria di indagare e perseguire i responsabili dei
crimini internazionali e, conformemente al principio di complementarità,
l’ufficio del procuratore «si impegnerà con le autorità nazionali
interessate per discutere e valutare eventuali indagini e azioni
giudiziarie pertinenti a livello nazionale».
Ma che il Myanmar collabori non è da prendere nemmeno in considerazione.
Il
Bangladesh invece sicuramente lo farà. Nelle stesse ore la premier del
Bangladesh Sheikh Hasina rendeva noto che Dacca presenterà una proposta
di piano d’azione in cinque punti sulla questione Rohingya in diversi
incontri multilaterali durante la 73ª Assemblea generale Onu. L’ultima
espulsione riguarda oltre 700mila Rohingya ma il suo Paese ne ospita
oltre un milione.
Se le cose andranno avanti – come è ormai
inevitabile – e, dopo le indagini preliminari, si aprisse una vera e
propria inchiesta, le risultanze potrebbero portare alla costituzione di
un tribunale ad hoc, come già in passato. Inutile dire che i generali
birmani – che un rapporto Onu ha chiesto siano indagati per genocidio
(parole che Bensouda non ha usato) – si rifiuterebbero di andare a
deporre con il rischio di essere arrestati. E una loro condanna
resterebbe solo una macchia sul vestito. Indelebile però.
Chi è
condannato dal Tpi vede emettere un mandato internazionale di arresto a
qualsiasi frontiera e in qualsiasi territorio dei 123 Stati membri.