il manifesto 12.9.18
Tim Marshall e la fenomenologia del filo spinato
Intervista.
Parla il giornalista britannico autore di «I muri che dividono il
mondo», pubblicato da Garzanti. «Un terzo degli stati nazionali hanno
costruito recinzioni lungo i confini; metà di quelle erette a partire
dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il 2000 e oggi»
di Guido Caldiron
«Come
ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo
interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo
si osservava». Non è forse un caso se Tim Marshall ricorre alle parole
di Ursula Le Guin, la scrittrice di fantasy e fantascienza scomparsa
quest’anno, creatrice di mondi immaginari che riflettono tutte le
contraddizioni del reale, per definire il significato più profondo di
quella che si va delineando come una sorta di «età dei muri».
Veterano
del giornalismo inglese, a lungo corrispondente della Bbc dalle zone di
guerra dei Balcani e del Medioriente, con I muri che dividono il mondo
(Garzanti, pp. 272, euro 19), Marshall completa la sua trilogia – nel
nostro paese è già stato pubblicato Le 10 mappe che spiegano il mondo) –
che indaga il ruolo degli elementi naturali, dei simboli e delle
identità collettive nel definire le coordinate del mondo contemporaneo,
offrendo delle valide «istruzioni per l’uso» ad una realtà sempre più
complessa.
Marshall, che ha presentato in questi giorni il suo
libro nel nostro paese, spiega infatti come «negli ultimi vent’anni sono
stati eretti in tutto il mondo muri e recinti per migliaia di
chilometri. Almeno 75 paesi, più di un terzo degli stati nazionali del
mondo, hanno costruito barriere lungo i propri confini; metà di quelle
erette a partire dalla Seconda guerra mondiale è stata creata tra il
2000 e oggi». Dall’Europa agli Stati uniti, passando per l’Africa e il
mondo arabo, ripercorrendo l’attualità del fenomeno come le tracce della
sua storia pregressa, il reporter fotografa attraverso il crinale delle
nuove barriere il volto sfuggente e contraddittorio del presente.
Con
la caduta del muro di Berlino si è pensato si aprisse una nuova
stagione della storia contrassegnata dalla libera circolazione degli
individui. La globalizzazione ha fatto il resto, al punto che nel 2005
il premio Pulitzer Thomas Friedman ha scritto un celebre saggio
intitolato «Il mondo è piatto». Da queste promesse di libertà ci siamo
però destati con i vari Trump, Orbán e Salvini. Cosa è andato storto?
In
realtà credo che quella promessa abbia sempre contenuto una certa dose
di ambiguità: cercava di celare la natura binaria del mondo, il
permanere di profonde divisioni all’interno di ciascuna società, quale
che fosse l’estensione dei muri che stavano venendo giù o il
superficiale annuncio di uguaglianza con cui si presentava la
mondializzazione dei mercati. Inoltre, non si è tenuto conto fino in
fondo del fatto che i muri, penso in primo luogo proprio a quello di
Berlino, «congelano» le comunità che racchiudono o separano, i cui umori
più profondi tenderanno poi ad emergere. Basti guardare il modo in cui
il razzismo è emerso nella ex Germania Est, dove non si era neppure mai
parlato di «cultura della differenza». Su tutto questo si è poi
abbattuta la crisi economica e sociale più devastante dal 1929.
Popolazioni impaurite e indebolite hanno cercato rifugio nella propria
identità e i «venditori di muri» si sono trasformati negli uomini del
momento.
Trump è forse la figura che più ha puntato sulla
«politica del muro» e sul significato pervasivo di questo simbolo. Lo
slogan «Rendiamo di nuovo grande l’America» si è concretizzato nella
promessa di una barriera con il Messico: il suo «muro» serve a
ridefinire l’identità americana?
Come spiega il geografo
dell’Università delle Hawaii, Reece Jones, nel suo libro Violent
Borders, «i muri non funzionano quasi mai, ma sono potenti simboli di
azione contro problemi percepiti». Trump ha utilizzato il simbolo del
muro per indicare a quella parte dei suoi concittadini preoccupati per
la crisi economica come per la crescita del ruolo delle minoranze nella
società, l’orizzonte di un nuovo nazionalismo, evocato dallo slogan
«America First». Così, il muro, è proposto come un mezzo per preservare
il concetto stesso di nazione, la sua «santità» così come il mito vuole
sia stata tramandata dai Padri pellegrini che affidarono l’America a
Dio. Così, Trump ha messo in moto una potente macchina mitologica,
capace di proiettarsi ben oltre i fatti concreti.
Il giornalista britannico Tim Marshall
A
proposito di un’altra delle vicende chiave di questi anni, la Brexit,
lei cita il Vallo di Adriano, costruito da Cesare per separare la
Britannia romana dalle bellicose tribù del Nord, come metafora di quanto
è accaduto con il voto del 2016.
In effetti, la tentazione di
evocare quella barriera di pietra i cui resti sono ancora oggi visibili
nel Northumberland, era troppo forte. Quel «muro» contribuì a dar forma a
ciò che sarebbe diventato in seguito il Regno Unito. Al di sotto del
vallo l’ambiente divenne sempre più romanizzato, mentre sopra, in quelli
che sono oggi il Galles e la Scozia, rimasero forti le tracce della
cultura celtica. E quest’ultimo elemento indica anche un altro aspetto
che accompagna spesso la costruzione di un «muro», vale a dire le
divisioni che produce, o che cerca al contrario di sanare, non oltre la
sua cinta, ma all’interno della comunità che lo ha edificato. Proprio il
voto in favore della Brexit ha espresso tutta la complessità della
situazione, facendo emergere in tanti «muri invisibili» che
caratterizzano le nostre società. David Goodhart, un altro autore che
cito nel libro, ha sottolineato come alla base del successo del
referendum contro la Ue vi sia stata la divisione tra coloro che
definisce come «anywhere» e «somewhere», vale a dire, rispettivamente,
chi vede il mondo in una prospettiva globale e chi, invece, in quella
locale. In qualche modo si tratta di una contrapposizione che sta
emergendo in tutto l’Occidente: da un lato chi occupa una posizione
sociale più agiata o si trova a vivere una dimensione cosmopolita,
dall’altro chi sconta sulla propria pelle le conseguenze più negative
della globalizzazione, perché ha perso il lavoro o fatica a trovare un
ruolo nelle nuove professioni che richiedono maggiore formazione e cerca
rifugio in ciò che conosce, o pensa di conoscere, come la propria
identità, le proprie radici. Razzismo, sciovinismo e chiusura
identitaria finiscono così per mescolarsi ad una domanda di maggiore
tutela che ha una base concreta. Quanto al risultato, è sotto gli occhi
di tutti: molti di coloro che hanno votato per la Brexit si sono già
pentiti, visto che nelle loro vite non è cambiato assolutamente nulla,
mentre per il paese sono iniziati nuovi problemi.
Nel libro si
parla di «muri visibili e invisibili» anche a proposito del conflitto
tra palestinesi e israeliani. Oltre alla «barriera» costruita da
Israele, altri «muri» stanno crescendo laggiù?
All’interno della
società israeliana sono emerse via via una serie di divisioni. Dal
confronto tra i cittadini ebrei e quelli arabi, a quello tra gli ebrei
di origine ashkenazita e sefardita che ha caratterizzato la storia del
paese fin dalla sua fondazione. Però, negli ultimi anni è emerso
soprattutto un vero e proprio «muro» culturale e politico tra laici e
religiosi che sta scivolando verso una forma di scontro quotidiano,
talvolta anche violento, che sta modificando il volto stesso di Israele.
Non solo. La crescita del ruolo politico dei religiosi, e la loro
crescente alleanza con i gruppi nazionalisti – non a caso gli studiosi
parlano al riguardo di «destra nazional-religiosa» – peserà sempre più
anche sulla già fragile ipotesi di una soluzione equa del conflitto con i
palestinesi. Questo perché per coloro che considerano sacra la terra
che oggi è contesa tra le due comunità, qualunque concessione o
divisione del territorio è percepita come un tradimento nei confronti
dei propri valori o, ancor di più, come un’autentica rinuncia alla fede.
Qualcosa di inammissibile.
Buona parte dei nuovi muri sono
pensati per «tenere fuori» i migranti. Ma dato che le migrazioni sono
fenomeni epocali e inarrestabili, che futuro per l’umanità annunciano
tutte queste barriere?
Un rischio e una possibilità. Cominciamo da
quest’ultima. Nelle società industrializzate che continueranno ad avere
bisogno di immigrati si dovrà aprire necessariamente un dibattito
salutare su come ridefinire la propria identità collettiva a partire da
questo elemento. Il rischio, al contrario, è che «la politica dei muri»
sovrasti ogni confronto razionale e ci faccia precipitare in un
orizzonte ancora più cupo di quello attuale: quello nel quale ogni paese
si contrappone all’altro, fino alle estreme conseguenze.