Il Fatto 28.9.18
Roma e il diario di una distruzione senza un lamento
Nell’ultimo romanzo, Roberto Cotroneo racconta la fine di un’epoca e la scomparsa di cultura e civiltà
di Furio Colombo
Il
tempo è adesso. Comincia prima e finisce dopo la narrazione, ma il
quando esattamente non importa. Il libro di cui sto parlando (Roberto
Cotroneo, Niente di personale, La Nave di Teseo) ha una sua forza di
attrazione, perché la voce è quella di qualcuno che sembra sapere molte
cose, e racconta senza pause in modo da trattenerti. E tu, una volta che
ti sei seduto vicino, senza sapere esattamente perché, non vai via.
Senti che c’è dell’altro. Ti rendi conto che sei trattenuto da un
espediente, come il canto o l’aroma di spezie in certi riti, e pensi che
sia meglio restare. Prima o poi il narratore scoprirà le sue carte,
ammetterà che è un gioco. Non dico se questo accade. Dico che mi ha
attratto la voce di qualcuno che ha visto, ha ascoltato, ha capito e
racconta. Racconta a chi? Racconta perché? E che cosa lo induce a
rivelare le cose che dice, senza fermarsi neppure a prendere il respiro?
Questa
è una delle domande in apparenza senza risposta (la risposta c’è, ma
non posso dirvi dove, nel libro) di questo romanzo di Roberto Cotroneo,
scritto né da giovane né da vecchio, né come memoriale né come profezia,
ma come resoconto sullo stato delle cose, in cui tutti i personaggi
sono ombre (ologrammi) che a occhio nudo non si vedrebbero, ma sono
definiti fino ai dettagli (o così l’autore ti induce a credere) al punto
da restarti nella memoria ossessivamente.
Ovvero l’ossessione,
colta e ben controllata dell’autore, espressa da una voce ipnotizzante,
ti contagia, ti fa ricordare persino i nomi e i luoghi, che però non
provano niente. Sono loro? Sono veri? Sono ricordi restaurati dal lavoro
delicato ma implacabile del narratore che vuole darti tutta la storia,
che sia accaduta oppure no? Stavo per dire: come dopo certi sogni. Ma
Cotroneo è un domatore di sogni, riesce a metterli al passo, riesce a
impedire che ti facciano male, e si portino via pezzi di ciò che sta
raccontando. Almeno fin quasi alla fine. Il suo modo di tenerli a bada è
di togliere loro la mistica dell’annuncio. I sogni ci sono. Ma i suoi
personaggi dei sogni sono come passeggeri accanto a un treno fermo, da
cui sono scesi o su cui saliranno. E fanno audience di questo vasto
racconto di un’epoca insieme a noi lettori. C’è da discutere su verità,
storia, invenzione, in questo narrare che sembra cauto ed è velocissimo,
e ci ha costretto ad allontanarci dalla linea gialla, ovvero a
pretendere una verifica.
Per conto mio, e pur avendo appartenuto, a
debita distanza di tempo, alla stessa civiltà perduta che è il tema di
questo libro, so di essermi trovato accanto a ologrammi e fantasmi di
cui apprezzo l’accurato doppiaggio e la capacità di indurre i sogni a
salire in scena e a interpretare se stessi. Ma ho continuato, come
l’autore, a sentirmi solo. Questo infatti è un grande diario della
solitudine, scritto con dolente bravura di chi racconta (ma non lamenta
mai, non si abbandona mai a rimpiangere) la distruzione di una città
(simbolicamente Roma), di una intera epoca, civiltà e cultura.
Diresti
che il dio della conversazione ha creato questa narrazione, tanto ti
piace ascoltare e seguire la voce. Però il narrare di Cotroneo non è un
monologo. Diciamo che l’autore usa una intima voice over per guidarti a
rivedere luoghi e persone che sono state note, per incontrare persone
sconosciute di cui riesce a farti sentire la ragione e il fascino. Ti fa
entrare e uscire da eventi che – credevi – non ti riguardano e che
adesso spacceresti come tuoi.
La voce non è cronaca. A momenti è
un canto o una preghiera-racconto che ti trattiene con espedienti che
non identifichi subito (tranne uno: è bella). Le immagini, pur molto
precise, non sono una graphic story, anche perché dopo un po’ ti accorgi
che l’autore sembra intento a incantare i lettori, ma in realtà si è
messo anche lui a seguire la voce narrante come tutti noi, i compagni di
strada, in una sorta di soggezione–straniazione al suo stesso lavoro.
E a volte sembra in attesa di sapere, come i suoi lettori, dove andrà la voce.
Qui,
come avviene per i grandi solisti jazz, ci sono parti in cui tutto il
resto della macchina romanzo si ferma per ascoltare il solista narrante,
e bisogna ammettere che, dopo, dovrebbero seguire gli applausi, come
nei locali jazz d’altri tempi. Ma intanto l’autore è impegnato a
dipingere grandi murales di Roma vuota e in quei punti ti sembra di
sentire un’eco nella voce narrante, la eco di uno spazio inutilmente
grande e popolato quasi solo di ologrammi e di ciò che resta al
risveglio dei sogni.
Ti restano impressioni, immagini, emozioni,
ricordi che non sono né tuoi né dell’autore. Non sono né il passato né
il presente o la premonizione. Ma ti lasciano il lieve entusiasmo
dell’esperienza che valeva la pena di fare. Infatti, tra un telegiornale
e l’altro, mi sono trovato bene con gli ologrammi di un mondo perduto e
le immagini fantasiose e distorte del dopo-sogno. Cotroneo ha tracciato
la linea di confine di un mondo, di un tempo e della sua narrazione.