giovedì 27 settembre 2018

Il Fatto 27.9.18
In Germania Chiesa travolta: 3.700 minori abusati in 70 anni

Il rapporto degli orrori è stato reso ufficialmente pubblico il 25 settembre. I numeri degli abusi sessuali perpetrati per 70 anni da sacerdoti, diaconi e religiosi della Chiesa cattolica tedesca – anticipati dallo Spiegel – sono agghiaccianti: 3.677 minorenni vittime di abusi tra il 1946 e il 2014. Gli autori delle violenze costituiscono il 4,4% dei presbiteri attivi negli ultimi 70 anni. Nel corso della conferenza stampa tenuta a Fulda, dove in questi giorni è riunita la l’assemblea autunnale della Conferenza episcopale di Germania, il cardinale Reinhard Marx, presidente dell’episcopato tedesco, ha dichiarato: “Provo vergogna per i molti che si sono voltati dall’altra parte, che non hanno voluto riconoscere quello che accadeva, che non si sono occupati delle vittime. Questo vale anche per me. Non abbiamo dato ascolto alle vittime”. Marx ha chiarito di aver informato il Papa dello studio condotto da tre istituti universitari e coordinato dallo psichiatra forense Harald Dressing. I ricercatori presumono che la percentuale effettiva degli abusi sia in realtà più elevata poiché per 17 diocesi l’indagine si è limitata al periodo 2000-2014.

Il Fatto 27.9.18
Abusi, il dossier di Francesco che imbarazza Benedetto XVI
Santa Sede - Presto sarà diffusa la replica a Viganò sulle coperture al molestatore McCarrick: Bergoglio rivendica le sue punizioni e mette in ombra gli anni di Ratzinger
Abusi, il dossier di Francesco che imbarazza Benedetto XVI
di Carlo Tecce


Un collaboratore italiano di papa Francesco s’infervora: “Il Vaticano non risponde con le illazioni alle illazioni di Viganò”. E neanche risparmia il passato – le stagioni di Joseph Ratzinger e Karol Wojtyla – perché il pontificato di Jorge Mario Bergoglio vacilla.
Con pazienza la Segreteria di Stato draga gli archivi per replicare con carte, date e nomi al report di Carlo Maria Viganò – pubblicato dal quotidiano la Verità – che denuncia le omissioni vaticane e suggerisce le dimissioni di Francesco per le presunte coperture all’ex cardinale Theodore Edgar McCarrick, molestatore seriale e impunito per oltre vent’anni. Il monsignore cita episodi e lettere che lordano la reputazione dei papi in vita, di trentotto fra cardinali e vescovi, ma assolve Giovanni Paolo II.
Francesco ha ordinato un’operazione, non soltanto mediatica, per ripristinare la verità poiché le minuziose ricostruzioni di Viganò – considerato un moralizzatore ai tempi di Vatileaks, un epurato da Tarcisio Bertone – hanno stordito i fedeli, i prelati, la Chiesa nell’incessante turbinio di scandali sessuali e di sacerdoti delinquenti. Anche la verità, però, è scomoda.
Più fonti vicine a Francesco confermano al Fatto diverse indiscrezioni sul contro-dossier del Vaticano. Il 10 settembre, il consiglio dei cardinali – il cosiddetto C9 – annuncia “chiarimenti” su McCarrick e Viganò. Quel giorno Pietro Parolin, il segretario di Stato confida ai colleghi che la ricerca è avviata già da un paio di settimane, cioè da subito dopo il “comunicato” di Viganò. Il contro-dossier è composto da documenti scovati in Curia, soprattutto nei faldoni riservati della Congregazione per i vescovi, e fornisce riscontri circostanziati alle invettive dell’ex nunzio. Viganò riferisce, per esempio, le sanzioni segrete (non formali) comminate da Ratzinger – tra il 2009 e il 2010 – all’anziano McCarrick (classe 1930), all’epoca pensionato e dunque ex arcivescovo di Washington. Il 19 ottobre 2011, rimosso dai vertici del Governatorato, Viganò è nominato nunzio negli Stati Uniti. Secondo gli accertamenti del Vaticano, non esistono riscontri ufficiali che confermano le sanzioni di Ratzinger per McCarrick con l’obbligo di ritirarsi in preghiera e non celebrare messa tra la gente. Al contrario, tra il 6 ottobre 2011 e il 28 febbraio 2013, l’americano è in Italia tre volte e tre volte incontra il pontefice tedesco: due le occasioni speciali, l’85esimo compleanno e l’ultima udienza di Ratzinger. Gli album fotografici del palazzo apostolico conservano i saluti, all’apparenza cordiali, tra Ratzinger e l’ex arcivescovo di Washington. Per limiti anagrafici, McCarrick non ha partecipato al conclave che ha eletto Bergoglio, però non ha smesso mai di influenzare la Chiesa negli Stati Uniti. Tant’è che lo stesso Viganò, rammentano con malizia in Santa Sede, è immortalato in situazioni conviviali assieme a McCarrick. Il gioco non vale perché screditare l’accusatore non ridimensiona le accuse: ormai neppure si ricorda che l’ex nunzio ambiva alla berretta rossa di cardinale o a un prolungamento del mandato negli Usa.
Il capitolo “pontificato di Benedetto XVI”, invece, è dirimente per completare l’operazione verità. Viganò sostiene: Francesco ha bloccato le disposizioni di Ratzinger su McCarrick. I seguaci di Bergoglio lo ritengono falso per due motivi. 1. Non c’è traccia scritta delle sanzioni di Ratzinger e Francesco non ne era a conoscenza. 2. È Francesco che punisce davvero McCarrick con l’espulsione dal collegio cardinalizio del luglio scorso e l’isolamento perpetuo senza attendere il processo canonico. Un caso unico per la Chiesa.
Al Vaticano, invece, risultano segnalazioni sul molestatore seriale di Washington sin dal Duemila. Qualcuno ha saputo. Qualcuno ha sbagliato. Oltre a menzionare un colloquio su McCarrick con Francesco del 23 giugno 2013, Viganò riferisce di aver condiviso le informazioni sull’americano con i cardinali William Levada e Tarcisio Bertone, pilastri del pontificato di Benedetto XVI. Levada era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, successore tra l’altro di Ratzinger. Bertone era il potente segretario di Stato.
Il contro-dossier sarà diffuso dal Vaticano con una relazione introduttiva per non travolgere la già barcollante Chiesa, ma sarà utilizzato anche per addebitare le colpe a chi davvero è colpevole. A differenza di altre imprudenti iniziative giudiziarie, come l’assurdo processo ai libri di Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi per Vatileaks II, stavolta papa Francesco ha ricevuto i consigli giusti e ha deciso di non indagare Viganò finché non saranno verificate le sue parole.


Dagospia
Non c'è più religione: scazzo epocale tra Enrico Mentana e Lucia Annunziata davanti al cardinal Ravasi - nell'incontro mensile e privatissimo che il responsabile della cultura della chiesa tiene con direttori e giornalistoni, i due si sono beccati e pizzicati, fino alla scena madre in cui Lucy abbandona la sala vaticana e involontariamente rovescia il contenuto della borsetta davanti a un basito cardinale…
Alberto Dandolo


Non c’è più religione. Scazzo epocale tra Enrico Mentana e Lucia Annunziata al cospetto del Cardinal Gianfranco Ravasi e un nugolo di giornalistoni non al bar, ma alla Santa Sede.
Procediamo con ordine.
Un paio di settimane fa in Vaticano il responsabile della Cultura della Chiesa dal lontano 2007 ha organizzato il consueto incontro mensile con alcuni tra i giornalisti più in vista di questo disgraziato Paese: da Chicco Mentana a Lucia Annunziata, da Mario Calabresi al Direttore di Avvenire Marco Tarquinio ad Alessandro Sallusti del 'Giornale' a quello del Tg1 Andrea Montanari.
E proprio durante quest’ultimo, privatissimo e sacro cenacolo è avvenuto il fattaccio: la Direttora dell’ Huffington Post ha sbroccato pubblicamente e veementemente contro Enrichetto Mentana.
Il numero uno del tg di La7 avrebbe infatti interrotto più volte, con battute e frecciatine, la collega durante il suo intervento, infastidendola al punto da farle urlare davanti a tutti: ”Maschilista, sei un maschilista! Ora è troppo, me ne vado! Signor Cardinale, mi scuso con Lei ma ora vado via!“.
Letteralmente infuriata ha lasciato la  sacra stanza rovesciando per la fretta e l’agitazione persino la sua borsetta ai piedi dell’incredulo e basito Cardinale. E mentre raccoglieva il contenuto della sua pochette el Mitraglia le ha inferto il colpo finale: “Comunque non si dice “signor cardinale” ma “Sua Eminenza Cardinale”. La giornalista, sempre più incazzata, ha lasciato la sala scura in volto.
Non è il primo scazzo tra Mentana e la Annunziata. L'ultimo, in ordine di tempo, c'è stato subito dopo il crollo del ponte di Genova, quando la giornalista si era pubblicamente scagliata contro Mentana che aveva espresso posizioni garantiste nei confronti della famiglia Benetton: “ La revoca della concessione va probabilmente contro lo Stato di diritto. Ma è difficile difendere i diritti di qualcuno ( i Benetton ndr) che non rispetta i diritti di tutti.”

Repubblica 27.9.18
Il decreto immigrazione
Nazione di sangue, per legge
Discriminare, come fa il provvedimento che porta trionfalmente il nome del suo estensore, fra cittadini italiani per nascita e cittadini naturalizzati genera una diseguaglianza di tipo etnico come norma del nostro Stato

di Nadia Urbinati

La cittadinanza moderna nasce sulle barricate parigine alla fine del Settecento come sviluppo del droit de cité, un diritto "per" e "degli" immigrati. Diritto di entrare e risiedere che consentiva di diventare cittadini a tutti gli effetti, con gli stessi diritti e doveri degli altri, uguali di fronte alla legge e al potere costituito.
Nel corso dei decenni, la nazione ha interrotto quell’inizio aperto e ha fatto della cittadinanza uno status di privilegio, molto spesso per escludere, non solo respingendo chi veniva da fuori, ma anche trattando in maniera diversa le minoranze interne (come fecero le leggi razziali del 1938).
Per molti, troppi, la nazione ha assunto il significato di "corpo", acquistando una dimensione biologica; con la politica a svolgere una funzione terapeutica, per prevenire o reprimere, per respingere o penalizzare.
La penalizzazione identitaria è anche oggi un’arma usata. Anzi, è tra le armi privilegiate dal populismo nazionalista. Scrive Manuel Anselmi in un libro dedicato al populismo penale che con lo « sgretolamento del modello sociale protettivo, che era stato del welfare europeo della seconda metà del Novecento, il linguaggio della colpa e della pena, le istituzioni penitenziarie e quelle del controllo sociale coattivo sono tornate in auge a compensare il disorientamento della civiltà post-moderna e la fragilità delle sue istituzioni».
Incarceramento come politica di sicurezza sociale e sospetto come politica preventiva verso tutti coloro che possono infettare il corpo: le minoranze per ragioni di scelta sessuale o religiosa o etnica, e i naturalizzati italiani; e tra i non cittadini, tutti coloro che risiedono nel Paese o sono intenzionati ad avvicinarsi alle frontiere. Con il decreto Salvini si fanno labili le distinzioni tra immigrati, rifugiati, esiliati politici e inoltre, per chi vive in Italia, tra cittadini di nascita e non. Il provvedimento è una stretta sul diritto di cittadinanza, di residenza e di ingresso – per parafrasare Hannah Arendt, una esplicita dichiarazione che non tutti gli umani hanno l’eguale diritto di avere diritti.
Il provvedimento Salvini è di una radicalità gravissima perché nel colpire una parte numericamente minoritaria della popolazione ( i cittadini non per nascita), rompe la cittadinanza e manomette il fondamento stesso della nostra Costituzione che, tra l’altro, nel suo primo articolo nomina l’Italia non gli italiani. In uno stato di diritto, la cittadinanza giuridica significa prima di tutto una eguale posizione dei cittadini nei confronti del potere costituito.
Discriminare, come fa questo decreto, fra cittadini italiani per nascita e cittadini naturalizzati ( che sempre vivranno con il rischio di perdere la cittadinanza) genera per legge una diseguaglianza di tipo etnico. La nazione di sangue si fa corpo a sé, tenendo gli altri, anche quando ammessi a godere della sua cittadinanza, in permanente stato di sorveglianza. Sempre ineguali. Questa legge repressiva, discriminatoria e punitiva porta trionfalmente il nome del suo estensore che la pubblicizza sui social come in una campagna elettorale permanente.

Micaela Quintavalle
Corriere 27.9.18
Denunciò Atac per i bus a fuoco «Molto delusa dalla sindaca»
di Andrea Arzilli


Prima sospesa da Atac per un’intervista-denuncia sulla mancata manutenzione che porta i bus della Capitale ad incendiarsi, poi, 128 giorni dopo, la lettera di licenziamento.
Micaela Quintavalle (38 anni, sindacalista), è proprio finita con Atac?
«Sì, la lettera è arrivata e ho già ridato la tessera di servizio. Quindi, dopo 11 anni, dovrò farmi l’abbonamento per andare alla facoltà di Medicina».
Amarezza?
«Tantissima. Potrei continuare a lavorare come Ncc (noleggio con conducente, ndr), ma penso di smettere: se non è Atac non voglio più fare l’autista. In passato ho lavorato con turisti e politici. Ma senza una missione sociale, come portare anziani e disabili, sarebbe doloroso ricominciare. Resto nel sindacato. E ora, da non dipendente, con mani ancora più libere».
Non farà la psichiatra?
«Sì, l’alternativa più importante è quella. C’è anche quella più aleatoria, della politica, anche se non mi sento rappresentata».
Due anni fa però si spese per Virginia Raggi.
«Certo. Ma allora fu una leggerezza e, da cittadina, dissi di votare M5S. Però quando hanno fatto errori li ho attaccati come il Pd».
Il suo caso è un errore?
«Mi piacerebbe pensare che sia io il problema e che da domani i bus non si incendieranno più».
E qual è il problema?
«Il servizio, che per i cittadini è terribile. Poi c’è la Procura che dice che i bus vanno a fuoco per assenza di manutenzione».
Lo denunciava pure lei.
«La Procura lo ha detto esattamente una settimana dopo. Avevo messo in conto il licenziamento, ma il cuore mi diceva di andare avanti. Atac invece di annientare chi denuncia, dovrebbe condividere le preoccupa-zioni dei suoi utenti».
È delusa?
«Sì, ma non perché mi hanno licenziata. Dico che Raggi in Atac ha solo peggiorato le cose, perché non si è affidata a chi ne sapeva più di lei».
E il cambiamento?
«In peggio. Nei due anni di giunta Raggi il servizio è peggiorato, così come la manutenzione. Ma la cosa che ha deluso tutti, e che nessuno dice, è che hanno confermato ai vertici le persone che hanno portato Atac in rosso di 1,3 miliardi. Potevano fare molto e non hanno fatto niente».

Corriere 27.9.18
Loredana Berté e la copertina del nuovo disco rock
«La camicia di forza, ricordo di un ricovero psichiatrico»
di Mario Luzzatto Fegiz


Non è indispensabile essere «matti» per diventare una rockstar. Però aiuta. Fra le tante intuizioni di LiBerté, sincope di Libertà e Berté, che esce oggi a 13 anni da Babyberté, spicca quella contenuta nel brano Davvero: «Per far luce bisogna bruciare», che sintetizza alla perfezione il destino maledetto delle grandi rockstar.
Sull’onda del trionfo estivo con Non ti dico no con i Boomdabash, arriva un disco visceralmente rock nei suoni, nei testi e nelle atmosfere, a tratti fortemente autoreferenziale. A cominciare dalla copertina nella quale l’artista indossa una camicia di forza «ricordo di una disavventura psichiatrica di qualche anno fa». La Bertè allude a un episodio del 2002, quando, dopo una lite con i vicini, fu ricoverata contro la sua volontà nel reparto psichiatrico del Policlinico di Milano. In quell’occasione la cantante fu immobilizzata con la camicia di forza.
Sia LiBerté, brano che dà il titolo all’album, sia Anima Carbone, sono una sorta di manifesto programmatico. «Se Dio ha barato a mio sfavore dovrà saldare il conto con la mia anima carbone», ruggisce in uno dei pezzi più amari e intensi del disco. Il messaggio complessivo è: viva la diversità, no al conformismo del branco, no al bullismo. L’elogio della follia nelle note di copertina chiama in causa Aristotele che scriveva: «Non esiste grande genio senza una dose di follia». Il segreto della riscossa per tutti è: «Non aver paura di sbagliare».
«LiBertè — spiega Loredana — è l’essere fedeli al proprio io anche a costo di essere tacciati di follia, perché il pensare con la propria testa può liberarti dalla camicia di forza imposta dalle regole sociali. È un inno alla libertà di essere sé stessi. Senza compromessi. Perché quando si è se stessi si è unici». «Questo mondo è un luna park ma non è sempre divertente» canta Loredana in Maledetto luna park mentre spicca anche Messaggio dalla luna scritta da Ivano Fossati, ritratto di un’edonista radicale che vive alla giornata. Altro brano significativo Tutti in paradiso, rock duro e affollato di suoni che se la prende con i cattivi, i bari e i disonesti che la fanno sempre franca in un clima di diffusa impunità in cui «prescrizione» è la parola magica. In Babilonia si parla di «acqua alla gola». A chi pensava? «A Equitalia».
«LiBerté — sottolinea Loredana — sono dieci racconti. Descrivono una donna che non si accontenta di essere un’icona. Racconto la fatica per uscire da un incubo che non voleva saperne di lasciarmi in pace». In tour dal 27 novembre dal Teatro Nazionale di Milano.

Repubblica 27.9.18
Il congresso Labour
Corbyn, sfida da sinistra ai populisti
Bandiera rossa dal palco
Jeremy Corbyn saluta i delegati al congresso laburista di Liverpool al termine del suo discorso sulle note di "Red flag"
Il leader infiamma la platea di Liverpool: "Basta con l’avidità del capitalismo senza regole". E spera nella premiership in caso di elezioni anticipate. La formula rosso- verde e l’influenza sugli altri partiti progressisti
di Enrico Franceschini


LIVERPOOL Al collo ha una cravatta rossa, diventata l’accessorio d’obbligo per quasi tutti i dirigenti maschi del suo partito: e qualcosa di rosso spicca anche nell’abbigliamento delle dirigenti. In platea domina il rosso: sui cartelli, sulle magliette, negli striscioni che proclamano "Love Corbyn". E com’è tradizione da tre anni, cioè da quando Jeremy Corbyn è stato sorprendentemente eletto leader del Labour, a conclusione del suo discorso si ritrovano tutti sul palcoscenico a cantare il vecchio inno "Red Flag", Bandiera Rossa. Con il pugno chiuso alzato, naturalmente.
Eppure, per quanto la coreografia sembri vintage per non dire obsoleta, l’intervento di ieri all’annuale congresso laburista ha rafforzato le chances di diventare primo ministro di colui che fino al 2015 era l’isolatissima " primula rossa" del partito. « Orazione da premier » , commenta la Bbc. « Retorica, ma funziona » , riconosce il Financial Times. L’atto retorico consiste nel cercare di spostare il radicalismo al centro. Di fare del socialismo una formula tranquillizzante, benefica per tutti. Non è detto che l’operazione riesca, ma potrebbe essere la tattica per portare Corbyn a Downing Street nel giro di pochi mesi, se a causa della Brexit, com’è possibile, nel Regno Unito ci saranno presto elezioni anticipate. Il leader laburista offre ai delegati di Liverpool e al paese una narrazione convincente. « Giusto dieci anni fa il concetto di avidità è bello ( celebre battuta del film " Wall Street", ma questo non lo dice, ndr.), e del capitalismo finanziario deregolato che esso rappresenta, lodato per una generazione come l’unico modo di guidare un’economia moderna, crollò con devastanti conseguenze » , comincia Corbyn. «Ma invece di fare i necessari cambiamenti, l’establishment ha preservato lo stesso sistema che ha condotto al collasso l’economia mondiale » . Il risultato, continua, non è stato solo stagnazione e tagli alla spesa pubblica, ma anche «crescita di razzismo e xenofobia, crisi della democrazia qui e all’estero » . Se non sarà la sinistra a offrire una soluzione radicale a tutto ciò, ammonisce il 69enne capo del Labour, «altri riempiranno il gap con la politica dell’odio e della divisione ». Non nomina il populismo, ma è chiaramente a quello che allude. E il successo della sua operazione sarà decisivo anche per orientare dibattiti e congressi di tutta la sinistra europea, Italia compresa, in vista del voto del 2019 per rinnovare il Parlamento di Strasburgo.
Così, mentre dall’assemblea dell’Onu a New York Theresa May annuncia di voler portare le tasse in Gran Bretagna al livello più basso di tutto il G20, « un regalo a pochi, pagato da molti» lo liquida lui, Corbyn promette una «alternativa all’austerity » , una « trasformazione radicale» dell’economia con nazionalizzazioni e distribuzione di azioni dalle grandi aziende ai dipendenti. Anche sulla Brexit vorrebbe unire: pur senza escludere un secondo referendum, indica che se andrà al potere cercherà di negoziare un accordo con la Ue che « difenda gli interessi dei lavoratori e tenga aperta la frontiera della pace in Irlanda del Nord». Se la premier May raggiungerà un’intesa del genere con Bruxelles, ipotizza che sarebbe perfino pronto ad appoggiarla. Altrimenti il suo Labour voterà contro, se il piano sarà bocciato chiederà elezioni anticipate e se le vincerà costruirà « una rivoluzione verde del lavoro » , con 400 mila nuovi posti e il 60 per cento del fabbisogno nazionale ricavati dalle energie rinnovabili. «C’è una lezione nel suo modo di suscitare entusiasmo, anche se le sue ricette non sarebbero applicabili in Italia», osserva il deputato del Pd Massimo Ungaro, venuto a vederlo da vicino. Ma non è più impossibile immaginare che Jeremy Corbyn, cantando Bandiera Rossa, finisca per conquistare il potere.

il manifesto 27.9.18
Corbyn riparte dalle origini e detta le condizioni a May
Il congresso di Liverpool. Fine dell’austerity, lavoro, azionariato operaio, il Labour riscopre se stesso. Il Partito voterà contro il piano Chequers della premier: no all’uscita “dura” dall'Ue
di Leonardo Clausi


LONDRA Nel discorso con cui Jeremy Corbyn ha concluso la tre giorni congressuale del partito a Liverpool c’erano gli elementi principali che hanno contraddistinto il ritorno del Labour a se stesso nei tre anni da che ne ha preso rocambolescamente le redini: la lotta alla disuguaglianza, alla catastrofe ambientale, alla disoccupazione, alla colpevole passività del Paese nei confronti del problema palestinese (di cui è tutto sommato corresponsabile) e – elemento, questo, del tutto nuovo – al suo tradizionale ruolo ancillare nei disastri statunitensi in politica estera.
MA C’ERA SOPRATTUTTO la riluttanza a fare dello psicodramma Brexit la propria tomba politica: quello che auspicabilmente accadrà ai conservatori, che nel loro scomposto accapigliarsi confermano che non vi è davvero guerra più sanguinosa di quella civile. Nonostante le stridule proteste dei centristi del partito, che assieme agli esangui Lib-dem cercano di limitare la propria erosione immolandosi teatralmente sulle barricate di un fantomatico secondo referendum, questo non è stato nominato nemmeno una volta. Al suo posto, quello di cui invece il Paese ha davvero bisogno: stimoli a un’occupazione che non sia sfruttamento, superamento dell’ingordigia finanziaria, azioni serie per contrastare l’eco-massacro del quale siamo già vittime e con il quale stiamo suicidando a sangue freddo la posterità.
RIGUARDO AL REFERENDUM, il Partito voterà contro il piano Chequers di Theresa May, che scontenta tutti, e si opporrà all’uscita “dura” (dal mercato comune e dall’unione doganale) dall’Ue: «Sarebbe un disastro nazionale. Per questo se il Parlamento respingerà l’accordo dei conservatori o se il governo non riuscisse a raggiungere alcun accordo spingeremo per le elezioni anticipate. E se non sarà così, saremo aperti a tutte le possibilità».
Corbyn ha poi aggiunto l’inaspettata – evidentemente tattica – apertura alla premier: «Se ottiene un accordo che comprende l’unione doganale e nessun confine fisico con l’Irlanda, se si proteggono i posti di lavoro e i diritti … ebbene allora sosterremo quell’accordo». Per poi sferrare la stilettata che ha mandato in visibilio i delegati: «Ma se non è in grado di negoziare quell’accordo allora deve farsi da parte e lasciare che lo faccia un partito che lo è e lo sarà».
NEL SEGNO di un keynesismo di ritorno è la promessa di una fine dell’austerity, da articolarsi in 400mila nuovi posti di lavoro nelle energie rinnovabili, un poderoso programma di edilizia abitativa e soprattutto – tenetevi forte – azionariato operaio: obbligare tutte le aziende con più di 250 operai a versare un dieci per cento del proprio patrimonio netto in un fondo per i lavoratori. Insomma, fine al vandalismo sociale che dal 2010 i conservatori, soli o in coalizione, infliggono al Paese.
IN POLITICA ESTERA, il leader ha confermato la piena dissociazione dai deliri trumpiani sul clima, dalle ambasciate americane a Gerusalemme, dall’accordo di pace con l’Iran, dai crimini israeliani a Gaza – «un oltraggio» – e dalla legge Stato-Nazione ebraica. Ribadito invece l’appoggio a una soluzione dei due Stati, niente più guerre umanitarie e riconoscimento immediato dello Stato palestinese, oltre alla condanna risoluta di ogni razzismo e antisemitismo all’interno del partito, agitato convulsamente da polemiche in questo senso.
È STATO UN DISCORSO non reboante, ma chi lo pronunciava non aveva più nulla della legnosità e dell’incertezza degli esordi. Corbyn ha ora dalla sua, oltre alla naturale amabilità, un notevole controllo della tecnica oratoriale. Forma e contenuto sono finalmente complementari e messi al servizio di un programma di governo che, quando si guardi a quello che succede altrove in Europa, per tacere del nostro Paese, sembra un miraggio. Ma soprattutto è stato il discorso di un ex-parvenu della politica che si sente prossimo al potere, capace di scuotere un Labour politicamente anchilosato dal suo inane centrismo facendogli finalmente aprire gli occhi sull’avidità e il cinismo acquisitivo ai quali l’era blairiana lo aveva sospinto ibridando ideologie contrapposte in una fittizia operazione di maquillage andata drammaticamente sbriciolandosi a partire dal 2008.

Corriere 27.9.18
Contro l’avidità, l’eco-socialismo: così Corbyn spinge il Labour a sinistra
Il segretario chiude il congresso di Liverpool
di Luigi Ippolito


Londra Jeremy Corbyn contro Gordon Gekko: nel suo discorso di chiusura al congresso laburista, il leader dell’opposizione britannica ha fatto riferimento al finanziere impersonato da Michael Douglas nel celebre film Wall Street. E se Gekko proclamava che greed is good, l’avidità è un bene — il suo credo nel capitalismo selvaggio — Corbyn ribatte che «dieci anni fa l’intero edificio di greed is good, del capitalismo finanziario senza regole, lodato per una generazione come l’unica maniera di condurre un’economia moderna, si è schiantato a terra con conseguenze devastanti. Ma invece di fare i cambiamenti essenziali a un sistema economico fallito, l’establishment politico e aziendale si è teso allo spasimo per salvare e sostenere quello stesso sistema che aveva portato al crollo».
La lezione che Corbyn trae dalla crisi finanziaria del 2007-2008 e dalle sue conseguenze è lineare: il capitalismo neoliberista ha fallito e va superato in nome di un’alternativa socialista. Per questo il Labour è pronto a mettere in atto «un piano radicale per ricostruire e trasformare il nostro Paese». Perché Corbyn è convinto che il suo programma di ultrasinistra «rappresenti il nuovo senso comune del nostro tempo», forte del 40 per cento dei voti raccolti l’anno scorso e dei sondaggi che lo danno col vento in poppa. Non più, quindi, idee strampalate appannaggio di gruppuscoli estremisti, ma un nuovo mainstream in grado di delineare un diverso orizzonte di società.
E in effetti il programma presentato dai laburisti in questo congresso di Liverpool è il più spostato a sinistra da decenni: fra le proposte, quella di consegnare ai lavoratori il dieci per cento delle azioni delle grandi aziende, di far sedere i rappresentanti operai nei consigli di amministrazione e dar via a un ampio pacchetto di nazionalizzazioni, dalle ferrovie alle poste alle industrie energetiche. Idee che, stando ai sondaggi, trovano il consenso della maggioranza dei cittadini.
Il paradosso della politica britannica attuale è però che più il Labour si sposta a sinistra, più i conservatori vanno a destra, lasciando un vuoto al centro. Mentre Corbyn annunciava la sua visione «per una società più giusta», la premier Theresa May rivelava l’intenzione del suo governo, dopo la Brexit, di trasformare la Gran Bretagna in un paradiso fiscale per le aziende, una Singapore sul Tamigi in grado di fare concorrenza all’Europa. Un progetto ultraliberista agli antipodi del socialismo corbyniano, che è per di più venato di ecologismo: il leader ha promesso una «rivoluzione verde» con l’obiettivo di ridurre le emissioni britanniche del 60% entro il 2030 e azzerarle per il 2050..
Ma il macigno sulla strada di tutti questi programmi resta la Brexit: sulla quale il Labour non è riuscito a sciogliere le sue contraddizioni. Il congresso ha approvato una mozione in cui si dice che, in caso di fallimento dei negoziati, tutte le opzioni devono restare sul tavolo, incluso un nuovo referendum. Ma se la base intravede una possibilità di fermare la Brexit, la leadership del partito ha ribadito che il risultato del referendum del 2016 non è in discussione. E che il Labour intende invece votare contro gli accordi in Parlamento in modo da andare a elezioni anticipate.

Repubblica 27.9.18
L’Austria e i media critici
Il bavaglio ai giornali Vienna si pente
di Tonia Mastrobuoni


L’Austria è governata da una coalizione di conservatori e destra xenofoba e da un cancelliere, Sebastian Kurz, che guarda con simpatia all’Ungheria di Orbán e all’Italia di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. E aspira a formare con il nostro Paese e i quattro di Visegrad un’internazionale sovranista che ridimensioni la Ue e usi il pugno duro contro i migranti. Una premessa indispensabile per capire a fondo lo scandalo che ha coinvolto il ministro dell’Interno, Herbert Kickl, considerato una delle figure più influenti della destra, accusato in passato di frequentazioni estremiste.
Nei giorni scorsi è emerso che dal suo ministero sarebbe partita una mail diretta ai capi della polizia di tutta l’Austria, in cui si consigliava di «limitare al massimo» il contatto con tre media citati esplicitamente: il quotidiano progressista Standard, il settimanale d’inchiesta Falter
e il tabloid Kurier. Rei di essere "critici o parziali nei confronti del ministero e della polizia". Inoltre l’emissario di Kickl consigliava vivamente alle questure, dettaglio altrettanto inquietante, di citare esplicitamente nei loro resoconti la nazionalità di chi commette crimini.
Tanto per rendere il clima più piacevole attorno a profughi e migranti.
Quando la mail è stata rivelata da alcuni media, Kickl è stato investito da una bufera. Il presidente della Repubblica, Alexander Van der Bellen, ha definito «inaccettabile» il tentativo di mettere il bavaglio alla stampa. E il cancelliere Kurz non soltanto gli ha fatto eco, ma ha dichiarato che «la limitazione o il boicottaggio di determinati media non può esistere, in Austria. Ciò vale per gli uffici stampa di tutti i ministeri e di tutte le istituzioni pubbliche». Infine, l’opposizione ha presentato una mozione di sfiducia contro Kickl che ha tenuto il Parlamento occupato per l’intera giornata di ieri.
Dinanzi alla levata di scudi delle massime autorità dello Stato e della rivolta dell’opposizione e dell’Associazione dei giornalisti austriaci, Kickl è dovuto precipitosamente correre ai ripari smentendo di saperne nulla. In un primo momento, i suoi avevano tentato di minimizzare, ma l’ondata di indignazione che ha travolto il ministero lo ha costretto a una rapida marcia indietro.
Kickl ha fatto sapere di aver parlato con il firmatario della mail e ha dovuto diffondere una dichiarazione che suona così: «La libertà di stampa è intoccabile» e «le formulazioni (della mail, ndr) su come interagire con "media critici" non hanno il mio consenso».
Ipocrisie, si dirà. Come molti altri colleghi, Kickl applica già, probabilmente, una censura preventiva verso determinati media senza scriverlo in una scottante mail. Esattamente come accade in altri paesi. In Italia, ad esempio, succede da anni. Chiunque faccia il nostro mestiere sa che la discriminazione dei giornali e dei giornalisti scomodi è una realtà da tempo. E ha raggiunto con il governo giallo-verde vette impensabili, con tanto di liste di proscrizione periodicamente aggiornate, pubbliche reprimende, minacce di purghe e leggi ricattatorie sventolate a ogni piè sospinto. La differenza tra noi e l’Austria, additata così spesso come Paese in preda alle destre più retrive, è che lì è scattato un riflesso condizionato di salvaguardia della libertà di stampa, un cordone sanitario che ha coinvolto tutti, maggioranza e opposizione e, in primis, il capo del governo. E l’affaire Kickl ci ha ricordato così che esistono ancora Paesi dove c’è un certo pudore a mettere apertamente in discussione la libertà di stampa. Un pudore che in Italia sembra svanito da tempo.

il manifesto 27.9.18
«Gli ebrei per la Germania» con l’Afd, islamofobia batte antisemitismo
Alternative für Deutschland. Comunità locale scioccata dall’endorsement: «Una foglia di fico, ci utilizzano per nascondere il proprio razzismo. La presunta amicizia con Israele e il suo popolo serve a legittimare la politica contro i musulmani»
di Sebastiano Canetta


BERLINO Ebrei per la Germania: la foglia di fico di Alternative für Deutschland per nascondere il proprio antisemitismo e alimentare l’islamofobia. Una notizia «incredibile» per la comunità ebraica scioccata dall’endorsement di chi «non può definirsi popolo ebraico e condividere il loro progetto». Quanto la prova che il messaggio dei fascio-populisti, ormai al secondo posto nei sondaggi nazionali, ha oltrepassato il recinto di politica e storia ma non certo della logica.
Ieri, sventolando la bandiera dell’amicizia con Israele come suggerito dagli spin-doctor che avevano organizzato l’ultima campagna elettorale di Nethanyau; oggi, con la presentazione degli Juden für Deutschland pronti a entrare ufficialmente nelle fila di Afd a Offenbach, in Assia, il prossimo 7 ottobre.
Neppure 25 persone decise a «contrastare l’odio contro gli ebrei in Germania»: quanto basta a fornire l’alibi “a posteriori” ai dirigenti di Afd che hanno negato pubblicamente l’Olocausto, come il leader della Turingia, minimizzando i crimini del Terzo Reich.
«Non si dovrebbe mettere il timbro kosher su Afd» è la metafora politica di Maram Stern del Congresso mondiale ebraico, con Michael Friedmann, ex vicepresidente del Zentralrat degli ebrei di Berlino che ammonisce di non aiutare «un partito che sfida l’umanità, cui nessuno dovrebbe unirsi, tantomeno se ebreo».
Nonostante la propaganda, in Germania Afd tollera l’antisemitismo che permette di catturare i voti dei nostalgici che fino a ieri orbitavano nell’area dichiaratamente neonazista, mentre all’estero il partito si è dimostrato connesso allo zoccolo duro della destra israeliana che immagina il medesimo Occidente inteso come Abendland. L’islam, più ancora dell’Ue o la moneta unica, rimane la priorità politica di Afd che si oppone alla Groko social-democristiana «immigrazionista» perfino con il “falco” Horst Seehofer.
A sentire Elio Adler dell’associazione “Iniziativa dei Valori” «Afd intende utilizzare gli ebrei per nascondere il proprio razzismo. La presunta amicizia con Israele e il popolo ebraico serve, in realtà, a legittimare la politica contro i musulmani». Non certo alla causa della memoria come dimostrano i sopravvissuti all’Olocausto ospiti al Bundestag: «Se in una città tedesca si può ancora ascoltare lo slogan: “Chi ama la Germania è un antisemita”, allora è pericoloso» sottolinea Christoph Heubner, presidente del Comitato degli ex di Auschwitz, ricordando i cori nella marcia dell’ultra-destra a Dortmund lo scorso fine settimana.
Ma Afd rivendica l’istituzione della propria “comunità” ebraica. «Dopo le associazioni di cristiani e omosessuali, anche i membri ebrei ci hanno chiesto di fare il passo» spiegano senza imbarazzo alla segreteria nazionale. «Afd è l’unico partito che affronta la questione dell’odio dei musulmani nei confronti degli ebrei senza sminuire il problema» aggiunge Dimitri Schulz, tra i fondatori degli Juden für Deutschland. Secondo lui «la vita ebraica in Germania è in pericolo, e non c’è alcuna contraddizione tra essere ebreo e contemporaneamente membro di Afd. Non neghiamo che nel partito ci siano singoli antisemiti, ma sono sovrastimati dai media».
Tentativo goffo, ma per niente naif; per comprendere a fondo la chiave dell’iniziativa di Alternative für Deutschland basterà registrare il riassunto scandito dal palco di Offenbach il 7 ottobre. Dalla leader europea di Afd, Beatrix von Storch, e a sentire Schulz anche dall’ex deputata Cdu Erika Steinbach: due politiche navigate che ben conoscono la strategia da impostare alla vigilia delle elezioni in Baviera fissate, esattamente, 7 giorni più tardi.

Corriere 27.9.18
Israele
L’ex premier Ehud Barak promuove la cannabis (e sfida Bibi)
di Davide Frattini


GERUSALEMME Ehud Barak si è lasciato crescere la barba, la stessa che portano i giovani elettori hipster. Quelli da conquistare se l’ex primo ministro e soldato più decorato della storia d’Israele dovesse decidere di tornare in politica alla guida della sinistra. Per adesso si gode la pensione e il megafono digitale offerto da Facebook: da un paio di anni pubblica lunghi monologhi video girati da solo in cui qualche volta punzecchia — e più spesso tritura — Benjamin Netanyahu. Da ieri i due rivali di sempre, anche se sono stati insieme al governo per ragioni di unità nazionale, hanno una nuova ragione di scontro. Barak ha accettato di diventare presidente della società InterCure, tra i leader in quella che è ormai la corsa all’«oro verde», la produzione di marijuana terapeutica. Dopo l’annuncio il valore del gruppo è balzato alla Borsa di Tel Aviv, Barak è noto per il suo intuito militare e negli affari. A 10 mila dollari mensili (circa 8.500 euro) per 40 ore di lavoro — più la possibilità di acquistare il 5 per cento di azioni a prezzi stracciati — deve coordinare lo sviluppo globale: l’Onu calcola che l’erba per usi medici arriverà a generare un mercato planetario da 100 miliardi di dollari. Il problema per i produttori israeliani, pionieri nello sviluppo dei farmaci derivati dalla pianta, è che Netanyahu ha deciso in febbraio di congelare la legge già approvata dal suo governo per agevolare le esportazioni: valgono almeno 1,2 miliardi di dollari. Lo stop sarebbe arrivato dopo una telefonata di Trump, contrario alla legalizzazione promossa dal predecessore Obama. Ehud Barak ha invece sempre sostenuto la decriminalizzazione anche degli usi ricreativi. «Io non l’ho provata, ma so che il proibizionismo non funziona come non è servito per l’alcol — ha spiegato —. E i benefici della marijuana per molte malattie sono ormai riconosciuti». È anche un messaggio ai possibili elettori: secondo l’Autorità israeliana antidroga il 27 per cento della popolazione tra i 18 e i 65 anni avrebbe usato la cannabis almeno una volta l’anno scorso.

Reubblica 27.9.18
La storia del Santa Fe Institute
Così il caos divenne scienza esatta
di Marco Belpoliti


Il saggio di Morris Mitchell Waldrop mai più ristampato racconta la storia del Santa Fe Institute. Fondato in New Mexico negli anni Ottanta, mise insieme un pool multidisciplinare di ricercatori che cambiò l’approccio epistemologico
Grande è il disordine sotto il cielo, eppure oggi sembra prevalere l’idea che sia possibile semplificare i problemi per risolverli. Nell’economia, nella scienza, nell’arte, nella letteratura, e soprattutto nella società e nella politica, le formule semplici, che cercano di ridurre le questioni, sembrano dominare.
Più aumenta il caos e più questa tendenza prende piede. Nel 1984 un gruppo di studiosi americani di varie discipline scientifiche pensò bene di dare vita a un’istituzione che studiasse proprio la complessità. Non era ancora caduto il Muro di Berlino, il terrorismo non era diventato un fenomeno planetario, la finanza internazionale non era andata in crisi, eppure molti segnali indicavano che il pianeta era attraversato da fenomeni complessi e imprevedibili. Nel 1972 un matematico, che si era dedicato alla meteorologia, Edward Lorenz, formulò la teoria del cosiddetto "effetto farfalla", da lui delineato nel 1962. In una conferenza si chiese: «Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?». La risposta era: sì. Era nata ufficialmente la "teoria del caos". A Santa Fe, nel New Mexico, alcuni studiosi di fisica decisero perciò a metà degli anni Ottanta di mettere in piedi un’istituzione che radunasse ricercatori di differenti discipline per uno studio del caos.
Sembrava loro che nessuna disciplina potesse da sola risolvere le grandi questioni in campo e che fosse necessario incrociare i diversi ambiti di studio: matematica, economia, biologia, fisica, statistica. L’idea venne a George Cowan, chimico sessantasettenne. Era stato uno degli scienziati che avevano partecipato al progetto nucleare.
Convinto che nelle università americane non vi fosse il clima giusto per una ricerca interdisciplinare, era giunto alla conclusione di fondare un apposito istituto non profit. Perciò decise di parlarne con due consulenti scientifici della Casa Bianca, tra cui David Packard, fondatore della Hewlett-Packard.
Saranno scettici, si dice; invece lo incoraggiano a proseguire.
Coinvolge tre premi Nobel per la fisica e l’economia: Murray Gell-Mann, Philip Anderson e Kennet Arrow e in un ex convento di Santa Fe installa il primo gruppo di lavoro: un istituto senza docenti fissi, che organizza seminari e incontri, permanenze di lavoro per scienziati. Servono i soldi per farlo e uno dei partecipanti ne parla con il capo della Citicorp, la banca americana, e lo convince che forse lì si possono studiare modelli economici non tradizionali per capire i mercati finanziari. I soldi, 120.000 dollari, arrivano a una condizione: fare qualsiasi cosa purché non sia convenzionale. La storia del Santa Fe Institut è stata raccontata da Morris Mitchell Waldrop, fisico di formazione e giornalista scientifico di professione, in un libro mai più ristampato: Complessità. Uomini e idee al confine tra ordine e caos
(traduzione di Libero Sosio) edito nel 1996 da Instar Libri, che nel 2002 pubblicò poi anche Simmetrie. Scienza, fede e ricerca dell’ordine di George Johnson, sempre sulla medesima avventura. Waldrop narra la storia delle anime solitarie che hanno incrociato menti bizzarre e idee strane, percorsi tra ricerche, passioni e incontri. Ne esce un profilo affascinante di scienziati e studiosi originali, eccentrici, poco prevedibili, che hanno fornito un contributo importante al cambiamento del paradigma dominante della scienza classica.
Per quanto siano trascorsi parecchi decenni da allora, la nascita del Santa Fe Institute rappresenta una vicenda paradigmatica di come la scienza sia l’effetto di continui scambi di idee al di fuori degli ambiti disciplinari dei singoli scienziati, perché la complessità è diventata la condizione preponderante del mondo contemporaneo.
Il libro, che sarebbe bello veder ristampato per il suo andamento narrativo, è fondato su interviste e conversazioni con i protagonisti di quell’avventura. Racconta la storia di Brian Arthur, un giovane matematico che si occupava di "rendimenti crescenti", ovvero di come si affermano tecnologie, o si aggregano aziende in una medesima zona, smentendo le teorie neoclassiche del mercato libero. Oppure quella di John H.
Holland, studioso di "sistemi complessi adattivi" che arriva a Santa Fe dopo decenni di ricerche e scopre a cinquantasette anni compiuti che i suoi studi non sono così marginali o strani come credeva. C’è poi la vicenda di un altro eccentrico, Chris Langton, ex hippy, appassionato di alianti, precipitato disastrosamente durante un volo, che dopo anni nel New Mexico non ha ancora completato la sua tesi di Post-Doc tutto preso com’è dall’organizzare convegni e compiere le sue solitarie ricerche sulla "vita artificiale". Mago del computer – molti dei membri giovani dell’Institute sono degli autodidatti in questo – è arrivato, senza una vera carriera accademica a formulare ambiti di ricerca tra biologia e computer grazie al sostegno dei colleghi di Santa Fe. Gli elaboratori elettronici sono lo strumento che consente ricerche e modellizzazioni in precedenza impossibili. La cosa interessante che Waldrop racconta è che la scienza, sia del passato come del presente, funziona in base alle metafore, e che queste si modificano. Quella della fisica newtoniana era fondata sull’immagine dell’orologio: semplice, regolare, intuibile, autonomo: così ancora l’economia classica della "Mano invisibile".
Poi con l’inizio del XX secolo Russell, Whitehead, Frege, Wittgenstein misero mano a un’immagine diversa della scienza; Gödel mise in luce l’incompletezza dei sistemi matematici e Turing diede un altro scossone all’idea della decidibilità delle nostre operazioni. Nel 1989 il Muro di Berlino crollò; nel 2008 la Lehman Brothers fece fallimento; nel 2018 a Santa Fe hanno organizzato un seminario: After Trump and Brexit: A New Economics.

Repubblica 27.9.18
Archeologia è storytelling all’Egizio di Torino
di Marina Paglieri


Si deve creare una nuova narrazione per i musei, in cui tutela e valorizzazione non siano più separate, ma trovino una sintesi nella ricerca.
Perché soltanto la conoscenza può scongiurare il rischio dell’oblio che corre il nostro patrimonio culturale».
È il pensiero del direttore – dal 2014 – del Museo Egizio di Torino Christian Greco, 43 anni, che dalle parole passa ai fatti.
E, al suo fianco la presidente Evelina Christillin, annuncia il nuovo progetto dell’Archeologia dell’invisibile, che sarà presentato a marzo 2019 in una mostra che porta lo stesso titolo: «Renderemo visibili al pubblico le nostre indagini sui materiali, dalle radiografie alle tac, le analisi archeometriche sui reperti e illustreremo i recenti scavi e le ricerche d’archivio. In questo modo faremo partecipare le persone alla vita del museo – spiega – Durante le "passeggiate con il direttore" che organizzo da tempo, mi rendo conto che c’è una domanda in questo senso da parte dei visitatori».
Al centro della nuova mostra ci sarà l’oggetto con la sua biografia: «Il reperto, prendiamo per esempio un vaso, ci racconta la sua storia, da quando è stato costruito con l’argilla, all’uso che ne è stato fatto nella vita quotidiana, alla sua deposizione in una tomba, in cui viene dimenticato. Poi iniziano una nuova fase, con lo scavo, e una nuova vita, con l’ingresso nel museo.
Presenteremo tutto questo, coinvolgendo chi viene a trovarci e rendendo pubblica l’archeologia» continua Greco.
Che rivela un’altra novità che va nella stessa direzione: la nascita di uno spazio al primo piano, che si chiamerà la "Sala della vita" e che sarà pronto nel 2020.
Al centro ci sarà ancora la "biografia dell’oggetto", applicata alle mummie.
«Ricostruiremo la vita delle persone di cui conserviamo i resti: come si chiamavano, quando e quanto sono vissute, con gli studi paleo-patologici capiremo di che cosa si erano ammalate».
E poiché il museo, nonostante quanto si possa pensare, non è mai statico, ma propone continue variazioni, come è già accaduto da quando Greco è alla guida dell’Egizio di Torino, nel prossimo anno si rinnoveranno le sale storiche dell’ipogeo, che raccontano la nascita del museo.

Repubblica 27.9.18
Éveline Lot- Falck
La donna che rubò i segreti agli sciamani
di Antonio Gnoli


Ci fu un tempo in cui la vita sociale – nel suo aspetto religioso e protettivo – era regolata da una sorta di patto sciamanico. La figura che ne garantiva l’esercizio, cioè lo sciamano, conteneva in sé qualcosa di bizzarro. Poteva comportarsi in modo strano: urlare, danzare o rivolgersi al cielo e alla terra con una lingua incomprensibile o magari segreta e prossima a quella degli animali.
A volte percuoteva uno strumento – in molti casi un tamburo – il cui suono non aveva nulla di frivolo, ma favoriva l’estasi, consentendogli perfino di volare.
Nel suo costume pittoresco, lo sciamano era considerato il solo autentico contatto tra il visibile e l’invisibile; tra il rito e il sacrificio; tra la vita e la morte; tra l’animale e l’uomo. Non c’è civiltà ai suoi albori che non abbia goduto dei suoi poteri. Lo sciamano era un eletto. La sua iniziazione poteva essere un dono del cielo o trasmessa da un altro sciamano.
Perfino certe patologie – il grande viaggiatore Karl Rasmussen parlò, a proposito della labilità nervosa degli eschimesi, di «isteria artica» – contribuivano ad accrescerne la forza. Ma nel concreto quale era la sua funzione? Un libro di sorprendente bellezza, precisione e sapere, ora ne narra l’avventura.
Éveline Lot-Falck ha dedicato larga parte della sua vita di etnologa e studiosa di religioni euroasiatiche al mondo degli sciamani. La storia di questa donna straordinaria è tratteggiata da Claudio Rugafiori nella postfazione a I riti di caccia dei popoli siberiani (ed. Adelphi).
Figlia di padre francese e di madre russa, vissuta a Parigi, dove a lungo ha insegnato alla École pratique des hautes études, scomparsa nel 1974, Lot-Falck ha ricostruito e svelato la fittissima trama sciamanica che, come una seconda pelle, ha rivestito il mondo siberiano.
Un paio d’anni fa Roberto Calasso ne Il Cacciatore celeste esplorò con grande suggestione quel pantheon antropologico dove uomini e déi potevano combattersi ma altresì fondersi.
Nel raccontare il Paese del freddo, la Terra dell’oscurità, dove la Tundra e la Taiga offrivano allo sguardo del cacciatore la medesima monotonia di paesaggio, Lot-Falck aprì la sua mente a quei mondi estremi e inospitali nei quali era arduo ma altresì fondamentale poter decifrare il rapporto dell’uomo con gli animali. Quel nesso si rafforzava sotto il segno dell’imitazione e della metamorfosi. Sicché qualunque cosa, perfino una pietra, era animata. Questo pensava Lot-Falk convinta che orsi, trichechi, pesci, cervi, balene prima ancora di essere animali erano spiriti in grado di proteggere o tormentare, a seconda del modo in cui il cacciatore si disponeva davanti alla "preda". Per ucciderlo l’animale doveva dare il suo assenso, rendersi complice della sua uccisione. Sicché l’orso andava dal cacciatore quando era giunta la sua ora. Un detto siberiano recita che se la renna non ama il cacciatore, costui non sarà in grado di ucciderla.
Una tale partecipazione alla propria morte è inconcepibile solo per chi, come noi, è del tutto estraneo alla struttura segreta del cosmo, alla sua ineffabile e fluida armonia in cui gli spiriti-signori (quelli animali) sono per così dire i guardiani. Qual era dunque il ruolo che vi svolgeva lo sciamano? All’inizio delle stagioni di caccia o in caso di carestia toccava a lui visitare i signori, i guardiani, gli spiriti sotterranei per ottenere la promessa di una selvaggina abbondante. La sua intermediazione tra il mondo terrestre e quello degli spiriti garantiva la difesa del benessere del suo popolo. Non sempre, tuttavia, lo sciamano contrastava le forze ostili. Nel suo potere si nascondeva il limite di una arroganza capricciosa, di una competizione violenta che lo spingeva a duellare con altri sciamani. Il violento antagonismo trasformava i signori della foresta, dell’acqua e del focolare in avversari che non avrebbero mai deposto le armi. Un mondo tutt’altro che pacificato sembrò dunque camminare con quelle popolazioni di cacciatori pescatori e pastori nomadi che dai ghiacci artici, dalle foreste siberiane, dalle steppe euroasiatiche si spostarono lentamente verso Occidente.
Si è molto discusso dell’influenza che la mitologia caucasica ed euroasiatica ha avuto sulla Grecia antica; è un fatto che alcune divinità e certe fisionomie sciamaniche si rincorrano nel tempo e nello spazio. Ci ricorda Carlo Ginzburg nel suo bellissimo Storia notturna che nel santuario di Brauron Artemide, signora degli animali, era venerata da fanciulle vestite da orse. Il culto estatico di tipo sciamanico che ritroviamo in molti luoghi della Grecia antica deriva dalle divinità euroasiatiche protettrici della caccia e della foresta. Ma la caccia nella mente divina di Artemide non ebbe più nessuna vitale utilità. Si ridusse soltanto a un gioco. Fu così che per la prima volta venne scoperta la gratuità della violenza.
"Sciamanico" è oggi diventato un aggettivo di pronto impiego.
Qualunque reazione quella parola susciti sembra prevalere la destituzione del senso, ha perso la sua pregnanza sociale e religiosa.
Somiglia al rombo di una metropolitana che si allontana.
C’è il mondo sotterraneo, c’è il rumore inquietante e c’è il buio della galleria. Ma è un viaggio senza iniziazione, senza enigmi da sciogliere o demoni da affrontare.
Solo stazioni da cui scendere o salire.

Il Fatto 27.9.18
Gli anni “neri” di Pavese con Mussolini e Hitler
di Massimo Novelli


Non compreso tra le opere di Cesare Pavese, e uscito soltanto in un quotidiano o rammentato in qualche saggio, il taccuino segreto e politicamente assai scorretto del 1942-1943 dello scrittore di Santo Stefano Belbo sta per avere dignità di libro. L’editore piemontese Nino Aragno lo pubblicherà tra qualche mese, fra dicembre e gennaio, in un volume in cui, oltre al frammento di diario, verrà ricostruita tutta la vicenda del suo ritrovamento e si darà conto delle polemiche che ne accompagnarono la tardiva divulgazione. Nel 2016 Aragno aveva dato alle stampe una traduzione di Pavese della Volontà di potenza di Friedrich Nietzsche
Era stato il critico letterario Lorenzo Mondo a rendere noto su La Stampa, l’8 agosto 1990, il taccuino inedito di Pavese risalente al 1942-43 e contenente, ecco lo scandalo, giudizi favorevoli al fascismo e al nazismo, a Mussolini e alla guerra nazifascista. Lo scoop del quotidiano torinese seminò lo sconcerto nel mondo della cultura, soprattutto tra gli intellettuali di sinistra e i “pavesiani”. Lo sintetizzò bene nel 1991 il grande italianista Carlo Dionisotti sulla rivista Belfagor. “La pubblicazione, a quarant’anni dalla morte”, scrisse, “di un ‘taccuino segreto’ di Pavese (…) ha provocato e provoca discordi commenti. Nessuno si aspettava che gli eventi politici e militari del 1942-1943 avessero proposto a Pavese considerazioni, giudizi e pronostici che suonano oggi scandalosamente favorevoli a Mussolini e a Hitler e a quella parte, incluso ancora e addirittura Franco, e avversi, con un po’ di cattiveria ironica, ai pochi e inermi e perseguitati antifascisti italiani”. Era persino difficile, per molti, considerare di Pavese, lo stesso che scriveva su L’Unità, quelle pagine del diario in cui minimizzava le atrocità dei nazisti e commentava positivamente il Manifesto di Verona della Repubblica di Salò. Tanto che, come ricordava il compianto Cesare De Michelis nel 2016 su Il Sole 24 Ore, “resiste più di un sospetto sulla sua autenticità, mentre ci si sforza di trovare plausibili giustificazioni a quella serie di annotazioni che inequivocabilmente smentiscono la vulgata antifascista dell’impegno dello scrittore”.
Il taccuino, senza alcun dubbio, era di Pavese. Mondo lo aveva avuto verso il 1962 da Maria Sini, la sorella dell’autore de La luna e i falò. Lo fece vedere a Italo Calvino, allora dirigente dell’Einaudi. “Andai da Calvino – spiegò Mondo – che stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo. Pensai, a grande velocità, che per il momento era opportuno mantenere il riserbo sul testo. Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese. ‘Tienilo tu – gli dissi – mettilo in cassaforte. Quando varrà la pena di pubblicarlo, ricordati di me’”.
Italo Calvino, e la casa editrice di Pavese, l’Einaudi, non ritennero opportuno farlo conoscere. Mondo volle rompere il silenzio quasi trent’anni dopo, affidando a La Stampa il frammento del 1942-43 non inserito nel diario Il mestiere di vivere, che Pavese aveva comunque conservato tra le sue carte. Raccontò sempre Mondo su La Stampa del 1990: “Dopo l’impresa dell’epistolario (ne uscirono due volumi con lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si trasferì a Roma. E quelle poche volte, nessuno di noi toccò l’argomento. Avevo del resto una mia idea. Pensavo di scrivere una vita di Pavese nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il capitolo sconosciuto della biografia pavesiana”. Ma “il lavoro giornalistico sempre più intenso”, proseguiva, “la sopravvenuta disaffezione per l’argomento, la pigrizia, mi fecero accantonare il progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a qualche amico. Chissà dov’era mai finito l’originale. Dimenticato o perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi che si sono chinati sui fogli pavesiani? A ogni importante occasione (anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l’oggetto misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo un trasloco, le vidi riaffiorare. Allora mi sentii all’improvviso sbloccato. Purché i parenti di Pavese fossero d’accordo. Ma le nipoti Cesarina e Maria Luisa accondiscesero”.

Il Fatto 27.9.18
“Tradita dalle ‘sorelle’: dissero che Anthony si era drogato”
Altro che #MeToo: “Jimmy Bennett mi saltò addosso, ma mi fanno più rabbia le bugie di Rose McGowan e Rain Dove”. La regista sarà domenica da Giletti
di Silvia D’Onghia


“Non ho mai parlato prima d’ora perché il dolore per la perdita del mio compagno era inimmaginabile”, ma “le bugie mi hanno distrutto la vita”. In attesa di andare negli studi di Non è l’Arena domenica sera, a raccontare a Massimo Giletti la sua versione dei fatti anti-Bennett, in un’intervista alla tv del Daily Mail Asia Argento ha smontato le tesi dell’ex attore bambino americano e confessato particolari allucinanti sul periodo successivo al suicidio di Anthony Bourdain. E, in particolare, sulla “presunta” sorella Rose McGowan, prima al suo fianco nella battaglia del #MeToo e poi sua grande accusatrice allo scoppiare proprio del caso Bennett. “Il fatto che lei non abbia ritrattato le menzogne e che non si sia nemmeno detta dispiaciuta mi ha convinto a intentarle causa (non ancora presentata, ndr)”, ha dichiarato la regista.
Ma quali menzogne? Intanto quelle sul rapporto consumato con il giovane attore americano. “È stato Jimmy a saltarmi addosso, io ero congelata – ha spiegato Argento nella seconda parte dell’intervista, andata in onda l’altra sera –. L’aggredita sono io ed è stato doloroso”. Al di là dell’esplosione del caso mediatico che, a livello mondiale, l’ha fatta passare da accusatrice di Weinstein ad accusata di molestie su un 17enne e, a livello italiano, le è costato il posto nella giuria di X-Factor, ciò che le avrebbe arrecato maggiore rabbia sono state le bugie pronunciate sul suo conto da McGowan e dalla sua compagna, la mdella mascolina Rain Dove: “Hanno detto che avrei ricevuto nudi non richiesti da Jimmy da quando aveva 12 anni. La loro è stata un’operazione pubblicitaria”. Secondo la regista italiana, i messaggi scambiati con Rose a proposito di Bennett sarebbero stati venduti dalla compagna di lei a Tmz. Affermazione, questa, più volte smentita da entrambe.
Argento ha riferito invece che l’“aggressione” da parte di Bennett in una stanza d’albergo nel 2013 la costrinse a rivolgersi a un terapeuta per lo choc subìto. A Bourdain Asia aveva raccontato tutto, per cui quando – dopo l’esplosione del caso Weinstein – Bennett si fece avanti per chiedere soldi, fu proprio il suo compagno a decidere di pagare: “Capimmo che aveva problemi finanziari. I suoi genitori gli avevano tolto un milione e 200 mila dollari. Non stava lavorando, la sua vita era un disastro. Era stato accusato da un’ex fidanzata di pedopornografia e molestie su minori. Volevamo buttarlo fuori dalle nostre vite”. Per questo l’accordo di 380 mila dollari, 250 mila dei quali versati da Anthony fino al momento della sua morte, l’8 giugno 2018. Da allora qualsiasi altro versamento è stato bloccato. Già nella prima puntata dell’intervista, andata in onda la sera prima, Asia aveva descritto il suo rapporto “aperto” con lo chef della Cnn: “Anche lui mi tradiva, ma avevamo una relazione da adulti e andava bene così. E invece mi hanno accusato di averlo ucciso”. Un dolore immane, reso ancora più sordo – ha sostenuto – dall’atteggiamento “folle” della sua amica. Subito dopo il suicidio, Rose le avrebbe proposto di incontrarsi a Berlino. L’ormai ex “sorella” – tatuaggi coordinati sulla caviglia e manifestazioni del #MeToo a braccetto – le avrebbe presentato la sua compagna Rain. In preda alla rabbia, Asia voleva capire perché Bourdain si fosse suicidato. “In una storia che sembra uscita da un film di spionaggio – racconta il Daily Mail – la regista italiana racconta che Dove le avrebbe detto di far parte di una rete segreta di donne facoltose”. La missione doveva essere quella di “portare Anthony a casa”, trafugandone in qualche modo le ceneri dall’obitorio.
“Pensai che lei (Dove non viene mai chiamata per nome, ndr) fosse completamente pazza”. Il giorno dopo la “missione” era compiuta e le ceneri erano contenute in un cofanetto appoggiato sul tavolo.
Ma c’è di peggio: la verità sul suicidio, che “la Cnn avrebbe tenuto nascosta per non rovinare l’immagine dell’autore di Parts Unknown”. Rose e Rain avrebbero raccontato ad Asia che la sera prima di uccidersi Anthony era in compagnia di una prostituta russa che indossava un hijab. Quella sera, nella stanza d’albergo in cui poi è stato ritrovato, avrebbe fatto uso di eroina: “Rain mi disse che aveva ripreso a drogarsi appena due giorni prima. Mi sembrò strano”. Lo chef si sarebbe iniettato la sostanza nel collo e poi si sarebbe impiccato per non far emergere un’eventuale overdose. “Nessuna di quelle affermazioni era vera”.

La Stampa 27.9.18
Martina si dimette, Pd a congresso
E i renziani pensano a Minniti
di Carlo Bertini


Ormai è ufficiale, almeno nei ranghi del partito: Maurizio Martina si dimetterà a breve. Ogni giorno è buono da lunedì prossimo, il giorno dopo la manifestazione di piazza del Popolo, al Forum programmatico di Milano che si terrà dal 26 al 28 ottobre. Quindi la data più probabile cade nella seconda metà di ottobre. Il segretario non si ricandiderà e considera concluso il suo mandato con la manifestazione di domenica e con i Forum milanesi di fine mese.
Le sue dimissioni, come da statuto, avvieranno il percorso congressuale che porterà alle primarie per la segreteria a gennaio. Intanto fra i renziani, sempre a caccia di un candidato, prende corpo la tentazione di lanciare la candidatura di Marco Minniti, il quale finora però non si è dichiarato disponibile. Proprio ieri si è tenuta una riunione a porte chiuse sui temi dell’immigrazione, che ha rafforzato in molti la convinzione di una sua possibile leadership in grado di sconfiggere Zingaretti. Anche se qualcuno ritiene che il pressing su Graziano Delrio potrebbe sortire l’effetto sperato: convincere il capogruppo a candidarsi per l’area che fa capo all’ex leader. Renzi invece non ne vuol sapere di scendere in campo. Più volte ha risposto picche a quanti dei suoi lo incitavano a ricandidarsi. Ad ogni apparizione in tivù ripete che lui ha già dato e non intende più partecipare alle primarie: e chi gli sta vicino garantisce che intende mantenere la parola e non sentirsi rinfacciare di aver smentito se stesso, come quando affermò che avrebbe lasciato la politica se fosse stato sconfitto al referendum del 2016.