lunedì 24 settembre 2018

Il Fatto 24.9.18
Tra le strade del Congo, grande fallimento Onu
Rappresentanti civili e militari dell’organizzazione internazionale non hanno evitato stragi e violenze che si sono susseguite in più di vent’anni
di Stefano Citati


Penetrando nel caldo-umido della foresta equatoriale e muovendosi lungo i sentieri fangosi o lavici ai pendii delle montagne e dei vulcani del Congo orientale, da ormai quasi quattro lustri ci si può imbattere nei drappelli dei caschi blu che dovrebbero difendere i congolesi dai loro signori della guerra che devastano i luoghi e le esistenze che tentano irrimediabilmente di spartirsi.
Indiani, pachistani, sudafricani, uruguaiani: migliaia di soldati di decine di Paesi percorrono a bordo dei blindati bianchi il reticolo di piste mal battute di una terra vasta centinaia di migliaia di chilometri quadrati. Un mare verde dove la più grande missione di peacekeeping delle Nazioni Unite si perde e affonda nell’inefficacia cronica di un pachiderma tra le liane.
“Dietro il fiume la foresta attutiva i massacri”
“Alla curva del fiume la foresta attutiva i massacri”, scriveva nel suo romanzo-resoconto del Congo il poi premio Nobel per la Letteratura sir Vidiadhar Surajprasad Naipaul, sintetizzando l’orrore silenzioso che a decenni è la costante delle terre selvagge dell’ex colonia belga. Coperte dalla vegetazione e dall’aria pesante che dal maestoso fiume Congo ricopre le province più distanti dalla capitale della Repubblica democratica del Congo (l’ex Zaire del cleptocrate post-coloniale Mobutu) le stragi sono avvenute e avvengono tutt’ora lontano dagli sguardi del mondo, seppur davanti agli occhi ormai velati e indifferenti dei rappresentanti della società planetaria che dovrebbe avere come mandato di pacificare la Terra.
E quale occasione migliore di riscatto per l’Occidente se non l’intervento, con la collaborazione del resto del mondo, nel Paese che anche letterariamente rappresenta il “fardello dell’uomo bianco”, ovvero l’eredità disgustosa della rapacità dei coloni, belgi in questo caso conre Leopoldo II padre-padrone delle terre ottenute nella spartizione con gli altri europei, che irrompendo nell’ultimo dei nuovi mondi intatti ne hanno succhiato le ricchezze accanendosi sulle popolazioni sfruttate per estrarre proprio quelle ricchezze.
Crimini continui e quasi indicibili
Qui negli ultimi vent’anni, solo intensificati dal genocidio del 1994 nel confinante Ruanda (altra debacle onusiana), crimini continui e quasi indicibili sono stati compiuti da decine di milizie di sbandati invasati dalle infinite ricchezze che giacciono nel suolo del Cuore di tenebra del continente africano. Come un Blade Runner del presente chi si è recato tra la foresta e i vulcani del Kivu, o nell’Ituri, ha potuto assistere o ricevere testimonianze di orrori ai quali sono stati sottoposti la popolazione civile e i tanti profughi giunti dai conflitti dei Paesi confinanti. I rari viaggiatori neutrali hanno potuto vedere gli effetti delle violenze su donne, bambini, animali: nessuno è risparmiato in un conflitto che dura ufficialmente dal 1999. Che è stato per anni conflitto internazionale per poi tornare a essere “solo” scontro regionale nel quale però i morti si sono sempre contati a decine di migliaia al mese (per un totale che si aggira attorno ai sei milioni: il maggior numero di vittime dopo la Seconda guerra mondiale).
Profughi affamati persi nei santuari dei gorilla dalla schiena d’argento che si cibano dei primati già in via d’estinzione; gli abitanti di interi villaggi schiavizzati per l’estrazione dei tesori del sottosuolo: dal coltan ai diamanti; le giovani brutalizzate dalle milizie (e talvolta anche dai membri della missione delle Nazioni Unite); continui episodi di pulizia etnica nell’intricata composizione razziale: l’intervento dei militari dell’Onu in questi casi si è spesso risolto con la morte e la cacciata degli stessi difensori, sempre più demotivati e attenti a non incappare in mezzo ai combattimenti. Tutto ciò compone un quadro del fallimento lungo due decenni, misurabile in decine di miliardi di dollari e milioni di morti. Chi si domanda a cosa possano servire ancora le Nazioni Unite al tempo del disincanto e del disimpegno umanitario, quasi mai volge lo sguardo verso il Congo, dove l’Onu ha dal 1999 la più complessa (e compromessa) missione di peacekeeping della sua storia.
L’operazione-agonia prolungata ancora
Nel palazzo di Vetro di New York in primavera s’è deciso comunque di prolungarla d’un anno ancora, fino all’aprile prossimo: faranno vent’anni esatti (prima sotto il nome di Monuc poi di Monurso) di questa mastodontica operazione multicontinentale (sul terreno africani, asiatici, americani ed europei) scossa da scandali d’ogni genere e dalla reputazione d’inefficacia e irrilevanza comprovata negli anni.
Dispiegati per controllare e sedare gli scontri che ciclicamente si accendono tra bande armate in lotta per interessi etnici, economici o territoriali, i caschi blu hanno raggiunto in alcune fasi le 20 mila unità, ridotti periodicamente di qualche migliaio per abbassare i costi annui della missione che si aggirano costantemente sopra il miliardo di dollari.
Luogo senza speranza dimenticato da tutti
La mega-missione stancamente arranca nell’inedia e nel disinteresse della comunità internazionale; la sua sopravvivenza è costellata di denunce più o meno grandi sulle esazioni dei suoi membri, la sua notorietà affidata ormai solo a episodici resoconti delle organizzazioni umanitarie religiose che ancora seguono le vicende del Congo come luogo senza speranza né carità. Il resto del mondo non sa nemmeno più che l’Onu è lì per dei motivi che la maggior parte dell’opinione pubblica non ha nemmeno mai conosciuto. Lentamente muore sbiadendo nell’indifferenza l’alto ideale delle Nazioni Unite, ridotto a testardo mantenimento di una crisi che nessuno non solo è capace di risolvere, ma addirittura di continuare a vedere.