lunedì 24 settembre 2018

Il Fatto 24.9.18
Multiculturalismo, la minaccia più subdola per l’integrazione
A sinistra in tanti sono convinti che sia dovere dello Stato tollerare le imposizioni culturali più retrograde delle sempre più vaste minoranze religiose. Ma soltanto la piena laicità può essere garanzia di convivenza civile
di Marco Marzano


Sono tempi durissimi per chi crede nell’importanza di un approccio laico alla vita sociale e politica. Il dibattito pubblico nel nostro continente sembra infatti dominato da due fazioni certo opposte, ma accomunate dalla scarsa laicità. La prima posizione è quella di chi considera il crocifisso l’emblema dell’Europa minacciata dall’orda islamica. Nella seconda posizione, quasi egemonica a sinistra, si collocano invece le nutrite schiere dei difensori del multiculturalismo, ovvero di tutti coloro che considerano a tal punto positiva la sopravvivenza, tra gli immigrati, e soprattutto tra i musulmani, di strutture comunitarie basate sull’appartenenza religiosa da ritenere che esse vadano incoraggiate, tutelate e finanziate dagli stati europei.
La prima posizione è talmente inaccettabile da non essere nemmeno degna di essere discussa. La seconda invece merita certamente un esame più attento da parte di chi ha a cuore il futuro della democrazia. È quello che ha fatto Cinzia Sciuto nel suo saggio Non c’è fede che tenga. Manifesto contro il multiculturalismo (Feltrinelli). Secondo l’autrice, quella multiculturale è una risposta sbagliata al problema dell’integrazione degli immigrati.
Per esempio, considerare “naturale” che una donna musulmana indossi il velo o rispetti certe leggi della tradizione islamica che ne impongono la sottomissione al maschio vuol dire rafforzare strutture di potere ingiuste e afflittive. Soprattutto è un grave errore analitico e politico considerare a priori quella che accetta volontariamente di indossarlo una donna davvero libera e autonoma. Sarebbe così solo se essa fosse in possesso di tutti gli strumenti culturali, politici ed economici per liberarsi, qualora lo volesse, del peso di quella tradizione, per comportarsi diversamente e andare in giro a capo scoperto o sottrarsi alla subordinazione al marito padrone.
Il dovere degli Stati non è quindi quello di preservare gli aspetti peggiori delle tradizioni culturali, ma di fornire alle persone, alla totalità dei cittadini nuovi e d vecchia data, tutti le risorse, culturali e legali, per compiere delle scelte davvero libere, autonome, personali, insomma per poter fare, citando Michel Foucault, della propria vita un’opera d’arte unica e singolare.
Sciuto identifica correttamente in un malinteso senso di colpa da ex colonialisti l’origine dell’approccio multiculturale. Esso suona più o meno così: dal momento che per secoli abbiamo, come occidentali, dominato e vessato altri popoli, ora dovremmo astenerci da ogni interferenza e considerare i nostri valori equivalenti a quelli dei popoli extraeuropei del terzo e quarto mondo. Si tratta di un ragionamento sbagliato. Come cittadino europeo, io mi vergogno profondamente di una parte rilevante della nostra storia: mi vergogno delle crociate, dei roghi degli eretici, dell’Inquisizione, dello schiavismo, dell’Olocausto, delle abominevoli teorie razziste e delle loro applicazioni pratiche. Non mi vergogno però dell’affermazione dei diritti civili, delle libertà politiche, della democrazia, della separazione dei poteri e di tante altre scoperte certo fatte in Europa, ma che hanno un valore universale, non in quanto “nostre” europee, ma in quanto espressione di una civilizzazione universale che, per una serie di mere contingenze storiche, si è espressa qui prima che altrove. Naturalmente, non è pensabile che questi valori siano (come vaneggiava qualche stupido presidente americano) esportati con la forza, ma nemmeno che siano pericolosamente considerati equivalenti a quelli premoderni della sottomissione e della mutilazione femminile, della legittimità della violenza domestica, della discriminazione degli omosessuali.
La laicità ovviamente, e Sciuto lo ricorda, non vale solo per i musulmani, ma anche per i religiosi di casa nostra. La vita delle chiese e delle sette cristiane, al pari di quella di altri gruppi religiosi, andrebbe attentamente monitorata per evitare che si verifichino, soprattutto a danni dei bambini, forme di manipolazione, plagio e violenza psicologica. In generale, chiese e sette andrebbero tenute lontane dallo spazio pubblico, andrebbe loro sottratta ogni possibilità di ottenere privilegi indebiti, come quello di catechizzare i giovani nella scuola pubblica o di ricevere montagne di denaro dallo stato per poter mantenere in vita i loro costosi apparati burocratici. Pensando all’Italia, la totale separazione dalla sfera pubblica, avrebbe tra l’altro un effetto benefico e rigenerante, se non per le casse almeno per lo spirito della Chiesa Cattolica, che potrebbe finalmente avvicinarsi alla forma delle origini, quella di un “piccolo resto”, di una chiesa povera e per i poveri impegnata soprattutto nell’annuncio del Vangelo.
Il denso libro di Sciuto esamina in profondità questi e molti altri temi. Vorrei chiudere con un’ultima precisazione: una laicità rigorosa che mette al centro gli individui e la loro libertà consapevole non può prescindere dalla distribuzione egalitaria di opportunità e diritti sociali. Per scongiurare l’attrazione fatale del fondamentalismo è necessario che i nuovi europei (soprattutto se di religione islamica) sentano di avere le stesse opportunità di condurre una vita dignitosa che hanno tutti gli altri. Solo così il progetto laico diventerà davvero la promessa mantenuta di un mondo migliore.