Il Fatto 10.9.18
Monarchia assoluta tra marijuana e Aids
La
festa per i cinquant’anni di indipendenza La povertà e un re
spendaccione non piegano un Paese comunque più libero dei vicini
Sudafrica e Mozambico
Monarchia assoluta tra marijuana e Aids
di Cesare Sangalli
Come
rinunciare alla democrazia e vivere felici. Lo Swaziland festeggia
mezzo secolo d’indipendenza in questi giorni e ad aprile ha festeggiato i
50 anni del re Mswati III che nel 2006 ha “archiviato” il parlamento
tornando alla monarchia assoluta, unico regime del genere in Africa, uno
dei pochi del mondo, insieme al Vaticano e alle petromonarchie arabe,
con cui però il regno swazi non ha niente a che vedere. Non solo in
termini di ricchezza: qui non ci sono risorse minerarie da sfruttare; il
prodotto di esportazione più importante, anche se non si può dire
ufficialmente, è sicuramente la marijuana, la “swazi gold”: per il
resto, agricoltura di sussistenza (per tre quarti delle famiglie), e
tanta povertà (quasi metà popolazione vive con un dollaro al giorno).
Ma
la libertà che si vive in Swaziland, i ricchi sudditi degli sceicchi,
degli emiri, e dei re del Golfo, se la possono solo sognare. A partire
dalla libertà di movimento: è facile entrare, è facile uscire, nessuno
si sognerebbe di sequestrare i documenti ai poveri immigrati,
soprattutto dal vicino Mozambico e dallo Zimbabwe, che per lo più sono
in transito verso il Sudafrica, dove magari troveranno lavoro, ma anche
tanta emarginazione, ormai degenerata in xenofobia. E quelli che
arrivano da Pakistan e Bangladesh, qui si danno al commercio al
dettaglio, non sono certo in condizioni di semi schiavitù come nei paesi
di cui condividono la religione, islamici di serie B. Lo Swaziland è
per metà cristiano (soprattutto protestante, ma con una significativa
presenza cattolica) e per metà segue le religioni tradizionali. Fatto
sta che a queste latitudini gli scontri di civiltà, le guerre a sfondo
religioso o etnico, sono solo ipotesi che verrebbero seppellite da un
sorriso.
Vivi e lascia vivere, sembra essere l’atteggiamento degli
swazi: qui nessuno si sente straniero; eppure basta attraversare la
frontiera con il Sudafrica per avvertire tutte le tensioni del dopo
apartheid; e il Mozambico, unico altro paese confinante, ogni tanto vede
riaffacciarsi i fantasmi della guerra civile. Non sono neppure le
dimensioni lillipuziane (lo Swaziland è grande come il Lazio), o la
relativa omogeneità etnica a garantire l’armonia; basta pensare a paesi
altrettanto piccoli, come il Burundi, il Gambia, la Guinea Bissau, con
le loro situazioni di instabilità e violenza politica. No, il segreto di
Eswatini, protettorato inglese fino al 6 settembre 1968, sta innanzi
tutto nel sentimento del popolo nei confronti del re. “Il re rappresenta
l’unità della nazione”, dice Thabo Magagila, 40 anni, assistente
sociale per Save the Children. È la risposta che danno un po’ tutti, una
risposta classica, da diritto costituzionale, che qui però è una realtà
autentica vissuta da tutta la popolazione, un milione e 250mila
persone. Vissuta nel bene e nel male, a quanto pare. Perché, come ogni
giorno porta la sua pena, ogni fase storica ha i suoi pro e i suoi
contro. Lo Swaziland diventò indipendente con un grande re, Sobhuza II.
Nessun altro sovrano ha regnato così a lungo, nel mondo, e, a quanto
pare, nella Storia: quasi un secolo, dai primi del Novecento, alla sua
morte, nel 1982.
Sobhuza era saggio, lungimirante, carismatico,
austero. Un vero capo africano. Era la tradizione che sfidava la
modernità, portandosi dietro i problemi storici del continente nero:
povertà estrema, arretratezza, analfabetismo. Sobhuza, poligamo, padre
di una pletora di figli (“il toro dello Swaziland” era uno dei suoi
attributi regali), rappresentava il Patriarcato, nella sua forma
“buona”. Il Paese cresceva, piano piano, migliorava lentamente i suoi
standard, dava asilo politico ai leader dell’African national congress,
tutti occidentalizzati, nella comune lotta contro l’apartheid; e
accoglieva, per quello che poteva, i profughi che scappavano dalla
guerra civile mozambicana.
Ma il passaggio degli anni Ottanta
segna “l’autunno del Patriarca”, perché non era facile sostituire un
sovrano del genere, e perché troppi cambiamenti erano in corso: stava
per compiersi il “corto circuito” fra tradizione e modernità. L’anno
simbolo è il 1986; due avvenimenti, uno celebrato, l’altro tragicamente
ignorato: Mswati raggiunge la maggior età e diventa re; e viene
registrato il primo caso di Aids.
Il nuovo re non è nemmeno figlio
legittimo di Sobhuza; la versione agiografica vuole che sia il figlio
della donna che il vecchio re ha amato di più, che si dice fosse entrata
a corte come serva, ma poi divenne una delle sue 125 mogli, una delle
più giovani. La versione più prosaica parla di un intrigo di corte, che
vede una regina (Dzeliwe), defilarsi rapidamente, e un’altra (Ntfombi)
prendere il suo posto, entrambe manipolate dagli anziani. Niente trapela
dai palazzi reali: la stampa, che risulta credibile e molta sciolta un
po’ su tutti i temi, sul re attua un’autocensura totale; e se qualche
voce esce dal coro, allora ci pensa il regime ad intervenire, con i
mezzi classici della repressione (licenziamenti, carcere, torture,
espulsioni). Qualcosa è cambiato, nel regno chiamato Swaziland.
Il
nuovo re si rivelerà spendaccione fino al capriccio, lussurioso,
assolutamente incapace di mettere un freno alla sua smodatezza, nemmeno
di fronte ai drammi del paese. E il flagello dell’Aids esploderà negli
anni Novanta con una forza terrificante: i primi contagi avvengono
probabilmente fra gli swazi emigrati, che sono andati a lavorare nelle
miniere del Sudafrica, lasciando le loro famiglie, “consolandosi” con le
prostitute. Insomma, nello Swaziland post-moderno suo malgrado, si
assiste al suicidio del Patriarcato: uomini sempre più assenti, come
capifamiglia; sempre meno poligami (anche perché la dote ora costa
troppo, soprattutto per quelli che cercano fortuna in città) e sempre
più donnaioli.
I codici di condotta saltano; le donne non sono più
mogli, ma compagne, amanti, divertimenti di una notte. Nel caos dei
costumi sessuali, nella promiscuità maschilista, che non si cura di
proteggersi, rifiuta gli esami dell’Hiv, e quando conosce i risultati,
li tiene nascosti per evitare lo stigma sociale, l’Aids trova praterie, e
nel giro di un decennio si arriva al primato mondiale: oltre il 30 per
cento della popolazione è contaminata (!); ma tutti sanno che la stima
ufficiale è abbassata, si può dire che metà della nazione è
sieropositiva.
Il Duemila arriva con proiezioni di ecatombe: le
statistiche mediche dicono che gli swazi potrebbero estinguersi o quasi,
nel giro di alcuni decenni. E invece oggi nella piccola capitale del
regno, 80 mila abitanti di una cittadina dignitosa e pulita, poco
trafficata, poco inquinata, con la Chiesa cattolica di Mater Addolorata
che veglia sui suoi figli da una delle tante colline divise da un fiume,
si celebrano i cinquanta anni di indipendenza con un ottimismo
ritrovato: per quanto i dati restino drammatici, tutte le statistiche
volgono al meglio: non si muore quasi più, grazie all’impiego massiccio
degli antiretrovirali; e le nuove generazioni, le ultime arrivate fra i
“millennials”, nascono sane, libere dal terribile virus che stava
falcidiando un intero Paese.
“Sono le nonne che hanno salvato lo
Swaziland”: non ha dubbi suor Beni Michielin, che questo regno l’ha
visto nascere, essendo arrivata qui pochi mesi prima dell’indipendenza.
Unici capifamiglia per migliaia di famiglie, con nipoti orfani o
rispediti indietro da padri che non pagavano la lobola, la dote; con
figlie ragazze madri, spesso malate a loro volta, queste donne, anziane,
povere, spesso con salute malferma, hanno fatto miracoli. Eroine
sconosciute, hanno traghettato il passato nel futuro; anche perché le
loro figlie, le loro nipoti, sempre di più vanno a scuola, acquistano
sapere e consapevolezza. “La maggior parte di loro sa già tutto, di
anticoncezionali; ma noi puntiamo sul valore della persona, che si
afferma con difficoltà, perché le ragazze sono spesso alla mercé di
maschi più ricchi, più adulti, più forti”: le suore non si fanno certo
problemi ad affrontare i temi della sessualità, stanno in trincea da
troppo tempo; e sanno benissimo che non c’è niente più forte
dell’istruzione; per cui spingono le ragazze a studiare, studiare,
studiare; o comunque a saper fare, a saper gestire.
Lo fanno da
sempre (la prima scuola dello Swaziland è stata fondata dai missionari
Servi di Maria), lo fanno meglio, adesso, perché da un po’ di anni lo
Stato ha aumentato gli investimenti in istruzione, e cerca, saggiamente,
di portare gli avanzamenti tecnologici verso le zone rurali, cioè di
invertire la tendenza alla fuga verso le città. Questo processo va
avanti, si potrebbe dire, “nonostante” il re (che possiede il 60 per
cento della ricchezza intesa come immobili e terre, e contribuisca a
fare dello Swaziland un Paese assai diseguale, comunque migliore del
vicino Sudafrica, che, incredibile ma vero, era più equo ai tempi
dell’apartheid); anche se tutti qui direbbero “grazie a lui”. Le donne,
fra enormi problemi (fra cui la violenza, molto diffusa), avanzano in
silenzio. “Ben scavato, vecchia talpa”, commenterebbe Marx. La plateale
fallocrazia di Eswatini, simboleggiata dalle due cerimonie fondamentali,
la “Danza delle canne” (quando il re sceglie la nuova moglie fra
migliaia di vergini) e la cerimonia dell’Incwala (in cui un toro viene
brutalmente ucciso a mani nude, e i suoi testicoli offerti al re), viene
erosa, anno dopo anno. Qui nessuno sembra avere fretta. E forse questa
lentezza, aiutata probabilmente da un po’ di cannabis, è il vero segreto
di un Paese che riesce a resistere a tutto.