Corriere La Lettura 16.9.18
Distopie. Un centro tropicale, giovanissimi visitatori semptre più aggressvu: è l’incubo di Anfré Barba
Apparizione.
Sono 32 fra gli 0tt0 e i tredici anni, non sono indios, ma non si sa da
dove vengano, parlano una lingua incimprensibile...
Fanno spavento i bambini usciti dalla giungla
di Giorgio Montefoschi
«Ci
affascina ciò che ci esclude», scrive Andrés Barba verso la metà della
Repubblica luminosa, il romanzo, pubblicato da La nave di Teseo,
luminoso e oscuro come lo sono tutti i romanzi che sprofondano nei
territori delle verità più nascoste e più segrete, difficilmente
riconducibili alle forme del linguaggio di superfice. «Ma la
fascinazione non è garanzia di un pensiero logico». È la frase centrale
di questo libro insolito, per certi versi straordinario — apparentabile,
con il suo autore, ad altri libri e ad altri scrittori, e invece
diverso intimamente da tutti quelli — con la quale, all’improvviso, il
lettore che fino a quel momento ha seguito con una naturale diffidenza, e
un ancor più naturale stupore, le vicende narrate da Barba, si libera
di ogni costrizione mentale e, insieme al narratore, precipita in un
percorso di «dislocazione» e di eventi che, di pagina in pagina, lo
cattura lasciandolo senza fiato.
Siamo, ai primi anni Novanta del
secolo scorso, nella cittadina tropicale di San Cristóbal, una cittadina
immaginaria e nello stesso tempo assolutamente reale, come potrebbe
essere quella di un romanzo di García Márquez. Il narratore, funzionario
di fresca nomina agli Affari sociali, vi ritorna, insieme alla moglie
Maia, insegnante di violino, e alla bambina che lei ha avuto da un altro
uomo, dopo un breve periodo di assenza.
Non ha particolari
sorprese; piuttosto la conferma che la coltivazione del tè e degli
agrumi favorita dai lavori dell’impresa idroelettrica, insieme ai
commerci favoriti dal grande fiume limaccioso, largo in alcuni tratti
come il mare, sul quale una volta affacciavano i magazzini rudimentali e
le abitazioni, hanno ulteriormente trasformato la vita dei suoi
abitanti, tant’è che sul lungo fiume si possono veder correre lussuose
automobili, le case sono solide, e, al posto dei negozietti, è sorto —
come in Occidente — addirittura un supermercato: il Dakota.
Certo,
tutto intorno, San Cristóbal è circondata dalla selva, e la selva è un
muro verde intricato, minaccioso, popolato di insetti velenosi e di
serpenti, ma è sufficiente ignorarla, tenersene lontani, perché
l’esistenza proceda senza scosse. Senonché, un bel giorno, a turbare
questa placida esistenza, succede un fatto del tutto inaspettato: prima
uno, poi un altro, poi tre o quattro in gruppo, maschi e femmine,
sbucano dal nulla 32 bambini sconosciuti che nessuno ha mai visto. Non
sono figli degli indigeni, infatti, né tanto meno appartengono alla
discendenza spagnola: hanno fra gli 8 e i 13 anni, la pelle scura non si
capisce se per la sporcizia o il sole, sguardi impertinenti.
Da
dove vengono? Certo non dal cielo, come i ragazzini superstiti
dell’incidente aereo del Signore delle mosche, il romanzo famoso di
William Golding. Quelli, si capisce presto, sono ragazzini-adulti già
avvelenati da ogni possibile seduzione del male; questi, con quelle
zazzere scomposte, quegli occhi neri a spillo, quella lingua sconosciuta
che parlano fra di loro e nessuno capisce, hanno una carica selvaggia
che adombra l’innocenza: non si mischiano ai locali, non cercano
amicizie, chiedono l’elemosina, scompaiono. Dove vanno? Tornano nella
selva? Hanno qualche nascondiglio?
Gli abitanti di San Cristóbal
sono confusi, interdetti. Tanto più lo diventano quando l’accattonaggio
di queste creature misteriose si trasforma in aggressione e violenza:
furti, scippi, rapine, per finire con un vero e proprio assalto all’arma
bianca, e due morti, niente meno che al supermercato Dakota, distrutto —
senza furti — per la primitiva gioia della distruzione, in una nuvola
di farina e zucchero sparsa al vento. Ma questo è troppo. I ragazzini
scompaiono nella selva e a tratti fanno solitarie apparizioni notturne;
la città vive un’ossessione.
Chi sono questi 32 componenti,
strettamente uniti uno all’altro, di questo corpo estraneo che si
nasconde, forse, nella selva? È possibile che in quel luogo di terrore e
di morte una comunità infantile proveniente chissà da dove sia stata
abbandonata al proprio destino? È possibile che dei bambini siano
riusciti a organizzarsi un mondo sotto cupole di fogliame che permettono
a stento il passaggio della luce: in quel verde «che tutto divora, la
grande massa assetata, intricata, soffocante e poderosa dove i deboli
sostengono i forti, i grandi tolgono la luce ai piccoli e soltanto ciò
che è minuto o addirittura microscopico riesce a far vacillare i
giganti»? Infine, non è possibile che i componenti di questo nucleo
primordiale — sprezzante del buio e della morte — abbiano poteri magici,
sovrannaturali e riescano a far sentire i propri battiti appena sotto
la terra rossa delle strade, sotto le mattonelle del pavimento?
Gli
abitanti di San Cristóbal che, fino a questo momento, hanno formulato
le più improbabili congetture su di loro, hanno riempito il vuoto che
hanno lasciato con tutti gli incubi che possono devastare il vuoto,
hanno creduto come ebeti alle fandonie che si sono inventati dei piccoli
mascalzoni e, spesso, come i rispettivi figli, hanno accostato
l’orecchio al pavimento per ascoltare il battito di quel cuore estraneo e
animale, non ne possono più. Vogliono farla finita, con questi
ragazzini. Vogliono annientarli.
Si attrezzano. Parte una
spedizione. Anche il narratore, il funzionario degli Affari sociali,
partecipa alla spedizione, lugubre e comica al medesimo tempo, che
inizia dalla selva e si concluderà con una sorpresa che, per ovvi
motivi, non possiamo rivelare al lettore. Ma lui — questo, invece, il
lettore lo ha capito da un pezzo — non teme quei ragazzini. Li ama. Li
ha amati fin da quando li ha visti, silenziosi, presidiare i crocicchi
di San Cristóbal. Li ama e partecipa alla spedizione con profonda
trepidazione. Perché sa che la loro salvezza coincide con la sua
salvezza, e quella degli altri.