lunedì 3 settembre 2018

Corriere 3.9.18
Chi è e cosa vuole Haftar
L’ombra del generale
Pochi hanno dubbi. E i salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu lo dicono chiaro: con la Settima brigata che attacca Tripoli c’è il generale Haftar.
di Francesco Battistini


Una delle cose che il generale Khalifa Haftar ha imparato nei suoi anni americani, dicono, è il vezzo di firmare le bombe. Ha un pennarello speciale. Autografò i razzi che dovevano liberare Sirte dai tagliagole dell’Isis. E lo fece pure quando lanciò la sua Operazione Dignità, che doveva «liberare» l’intera Libia e gli permise di conquistarne metà. Stavolta è improbabile che gli ultimi Grad, piovuti vicino all’ambasciata italiana di Tripoli, portassero la sua firma. Men che meno le pallottole che stanno ripiombando la capitale libica nei peggiori scontri dal 2014. Pochi hanno dubbi, però. E anzi i miliziani delle Forze speciali Radaa, salafiti fedeli al governo sostenuto dall’Onu, lo dicono chiaro. Chi sta attaccando il cuore del potere tripolino non è solo il signore della guerra Salah al Badi, alla testa della Settima Brigata ribelle e delle milizie Al Kani: no, a coprirgli le spalle c’è Haftar. Il generalissimo che si sente il nuovo Rais e in questi anni è stato tenuto fuori dai giochi e ora non s’accontenta più di governare a Est, Tobruk e la Cirenaica, ma vuole prendersi tutto il mazzo.
Chi sta con chi
Tre tregue in quattro giorni non sono bastate. Lo scontro è prima politico, che militare. Delegato alle potenti milizie di Tripoli, Tarhuma, Misurata, Zintan, Zawia. Da una parte, chi sta con Sarraj: i Radaa, la Prima divisione Tbr (Brigate rivoluzionarie di Tripoli, del ministero dell’Interno), la Brigata Abu Selim e gli acerrimi nemici di Haftar, l’Ottava divisione Nawasi; dall’altra, gli uomini di Al Badi, rientrato apposta dalla Turchia, dove s’era rifugiato dopo aver messo a ferro e fuoco la capitale nel 2014. Al Badi ha lanciato un appello alla sollevazione popolare contro «i corrotti che affamano Tripoli», dicendo di voler «combattere per chi non ha cibo e per giorni aspetta in coda lo stipendio».
Un golpe?
Ora, è vero che i miliziani che controllano Tripoli vivono spesso di pizzo&ingiustizia, ma non sfugge che la posta sia ben altra. E che il golpe — perché di questo si tratta, visto che la Settima Brigata aveva giurato fedeltà a Sarraj — coincida con gli interessi di Haftar, dell’Egitto e soprattutto dei francesi, determinati a indire in tutta la Libia elezioni politiche per dicembre. Il generalissimo ha fretta. E non vuole intralci: l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, che un mese fa aveva espresso dubbi sulla possibilità di votare nel 2018, oltre ai Grad a cento metri dall’ufficio, s’è beccato i colpi d’un sito francese, molto vicino agli 007 parigini della Dgse, che ha ipotizzato un suo siluramento.
Trump e noi
La guerriglia di Tripoli è una faccenda che ci riguarda da vicino, anche stavolta. Lo dicono il pubblico sostegno di Trump al premier Conte (peraltro favorevole ad aprire a Haftar) proprio sul dossier libico, la visita del vicepremier Di Maio al Cairo, l’evacuazione della nostra ambasciata. Improvvisamente, la crisi libica s’è rimessa a correre. L’Occidente va a passo di lumaca. Ed è la volpe della Cirenaica, ancora, a rivelarsi la più veloce.