Corriere 26.9.18
Gli Stati e i migranti
Egoismi e illusioni d’Europa
di Sergio Romano
Per
molto tempo i governi europei hanno trattato il problema
dell’immigrazione con rassegnazione e una buona dose di egoismo
nazionale. Sapevamo che l’Africa era diventata un enorme serbatoio di
vite umane ansiose di lasciare il loro continente per cercare fortuna in
Europa. Sapevamo che le crisi mediorientali avrebbero scaricato sulle
nostre coste qualche milione di profughi. Ma ogni Paese cercava
soluzioni nazionali e sperava di scaricare il problema sulle spalle
degli altri.
Il trattato di Dublino, con cui l’Unione Europea
decise che la richiesta di asilo doveva essere indirizzata alle autorità
del primo sbarco, è diventato per molti Paesi un alibi perfetto. Quando
in Italia sbarcò una prima ondata di tunisini, quasi tutti diretti
verso il Paese dove viveva il maggior numero di amici e congiunti, la
Francia di Nicolas Sarkozy chiuse la porta di Ventimiglia. La Gran
Bretagna era una meta desiderata, ma il governo britannico riuscì a
ottenere che le prime pratiche amministrative venissero fatte a Calais
piuttosto che a Dover. Quando la Turchia accettò di vendere la propria
ospitalità a caro prezzo (quasi sei miliardi di euro in due versamenti)
per accogliere due milioni e mezzo di migranti, ci dimenticammo che il
Paese di Erdogan non era un modello di democrazia.
Non mancarono iniziative che avrebbero giovato all’ Europa e avrebbero fatto di Gheddafi il poliziotto del Nord Africa.
I
l trattato che Silvio Berlusconi firmò con il leader libico a Bengasi
nell’agosto del 2008 era certamente discutibile sotto il profilo
umanitario, ma poteva essere migliorato. Non è stato altrettanto
possibile, invece, sostituire Gheddafi, quando tre grandi Paesi
occidentali (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) decisero di
abbandonarlo ai suoi nemici e spalancarono ai migranti africani le porte
del Mediterraneo.
N on mancò nemmeno chi cercò di rendere le
migrazioni meno inquietanti ricordando che avrebbero permesso di
affrontare meglio la crisi della natalità in alcuni Paesi europei. Fu
uno degli argomenti usati dalla cancelliera Merkel quando decise di
accogliere 800 mila siriani. L’analisi era giusta, ma anche le cose
giuste, quando sono dette nei momenti sbagliati, producono effetti
negativi. I profughi giunti nella Repubblica federale nel 2015 sono
diventati la palla al piede della cancelliera tedesca nei suoi
quotidiani duelli con una forza politica, Alternativa per la Germania,
che odora di nazismo.
Questo è il contesto in cui i partiti
populisti e sovranisti hanno cominciato a raccogliere e a interpretare
gli umori della pubblica opinione. Quanto più ogni Paese si dimostrava
privo di una politica efficace, tanto più i sovranisti potevano riempire
il vuoto lasciato dai governi e proclamarsi interpreti autorizzati
della volontà popolare. Il problema delle migrazioni non è il solo
fattore che ha contribuito alla diffusione del populismo. Nel corso
dell’ultimo decennio, gli effetti della grande crisi finanziaria del
2008, alcune sgradite ricadute della globalizzazione, le incertezze
provocate dalla Brexit e un certo malessere della Commissione di
Bruxelles hanno ingrossato la legione populista. Ma niente ha favorito
l’ascesa dei sovranisti quanto il problema dell’immigrazione.
Non
sembra che i governi abbiano imparato la lezione. Oggi si parla più
frequentemente di politica comune e di rafforzamento delle frontiere
europee. Ma nella pratica di ogni giorno la reazione al singolo caso è
ancora strettamente nazionale. Ne abbiamo avuto una dimostrazione quando
all’Aquarius (una nave ben nota alle cronache italiane) e ai suoi 58
migranti è stato impedito lo sbarco a Marsiglia.
Non credo che i
sovranisti, dopo avere conquistato il potere in alcuni Paesi,
cercheranno di trovare insieme una ragionevole soluzione del problema.
La paura dei migranti è diventata il terreno su cui è cresciuta la loro
pianta e continueranno a innaffiarla probabilmente con una sgradevole e
crescente dose di razzismo. Tocca quindi alla Commissione e al
Parlamento europeo prendere l’iniziativa per affrontare la crisi
soprattutto là dove sono le sue origini. Negli scorsi giorni il
presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha proposto un Piano
Marshall per l’Africa. La ricetta è stata usata troppo frequentemente,
spesso a sproposito. Ma in questo caso potrebbe finanziare nel
continente africano strutture e istituzioni capaci di dare ai giovani in
patria il futuro che oggi cercano altrove.