il manifesto 9.8.18
La crescente emigrazione che riguarda gli europei
«Quelli
che se ne vanno», un saggio del sociologo Enrico Pugliese. Per l’Istat,
fra il 2012 e il 2016 sono arrivati in Germania 60.700 italiani
di Luciana Castellina
Si
sussurra, qualche giornalista ogni tanto vi accenna, e però mentre
tutti parlano, nel male soprattutto, degli immigrati, nessuno prende
davvero sul serio il problema che pure è ormai diventato un grosso e
drammatico problema politico: i nuovi emigranti italiani. Certo non
hanno più la valigia di cartone e non arrivano sperduti e carichi di
pacchi alle stazioni del nord come li abbiamo visti in tanti strazianti
bellissimi film neorealisti. Non somigliano a quelli dipinti da Carlo
Levi riprodotti nel manifesto per il congresso del 1967 della storica
Filef (l’organizzazione para sindacale che si occupava di loro). Ora
sembrano ragazzi dell’Erasmus, la felice tribù dei millennials,
beneficiari di uno dei rari regali dell’Unione Europea che consente di
girare il mondo per conoscere altre università e culture. No, non sono
la moderna entusiasmante circolazione delle nuove élites cosmopolite :
sono giovani italiani costretti, come i loro bisnonni, ad andarsene dal
proprio paese per trovare un’occupazione, quale che sia.
GLI
STRANIERI europei se vengono in Italia non è per cercare lavoro, è per
vacanza. Finalmente Enrico Pugliese, che è forse il sociologo che più si
è occupato in Italia di migrazioni, ci ha offerto sul problema un libro
che sarebbe bene leggessero tutti: Quelli che se ne vanno. La nuova
emigrazione italiana (Il Mulino, pp. 160, euro 14). Ora che l’ho letto, e
conosco una quantità di dati fondamentali, comincio a capire.
Quanti
sono? Difficile da calcolare, perché all’Aire, che è l’organismo
consolare cui debbono iscriversi gli italiani residenti all’estero, in
molti nemmeno ci vanno: il lavoro che hanno trovato è così precario che a
un cambio di residenza nemmeno ci pensano, si tengono quella della loro
città di provenienza. Così quelli che sono ufficialmente registrati
come partenti sono molti di meno di quelli che risultano arrivati. Fra
il 2012 e il 2016, per esempio, secondo l’Istat hanno lasciato l’Italia
per la Germania 60.700 persone, secondo l’ufficio statistico tedesco ne
sono arrivati 274mila. Idem per l’Inghilterra: negli ultimi due anni
sarebbero 39mila per l’ufficio italiano, 158mila per quello britannico.
Bisogna
poi calcolare una quota difficilmente decifrabile ma in crescita:
quella dei cosiddetti «sun migrants»: i pensionati che decidono di
passare gli ultimi anni della loro vita in qualche paesino del sud
portoghese o spagnolo perché in Italia non ce la fanno a sopravvivere.
DA
DOVE VENGONO? Anche qui una differenza, ma solo apparente: la
maggioranza dalla Lombardia, e però poi si va a guardare e si scopre che
sono quasi tutti calabresi o siciliani. La regione più ricca d’Italia è
stata, per loro, solo un primo passaggio, un tentativo, fra una
precarietà e l’altra.
Chi sono? Una grande novità, anche questa
dovuta al femminismo: il 45% sono donne che partono da sole. Sia loro
che i maschi sono giovani fra i 18 e i 35 anni. Non è vero che sono
tutti cervelli in fuga, fuggono anche braccia: sebbene nessuno sembra
averli avvistati, la maggioranza sono ancora operai. Per lo più
«esuberi» delle fabbriche in crisi o delocalizzate. I laureati sono
comunque tanti: solo il 30%, che però è molto visto che in Italia di
laureati ce ne sono meno che in Grecia e Spagna.
Cosa vanno a fare e
dove? Vanno quasi tutti in Germania e in Inghilterra (e ora con la
Brexit sarà un bel guaio). Lì finiscono per lo più nella logistica,
ristorazione, alberghi, servizi di pulizia. Tutto lavoro precario,
naturalmente. Ma regolato. In Inghilterra il contratto si chiama «a zero
ore», che vuol dire che tu puoi lavorare ( ed essere pagato) per due
ore al giorno o per 10, dipende dalle esigenze dell’impresa. E però
l’ora è pagata circa 15 euro, in Italia, in Puglia, non si arriva ai 3.
Pugliese ci dice che siamo difronte a una crescente, già enorme sfera di
precariato internazionale, composta dai giovani del sud e dell’est
Europa, cui si mischiano quelli che vengono dagli altri continenti e che
però transitano nei nostri paesi, di cui alcuni sono diventati
cittadini, altri non hanno più patria. Non è proletariato in senso
proprio, perché questo termine è associato a stabilità e anche ad azioni
rivendicative collettive.
IL PRECARIO è invece abituato
all’instabilità, è un individuo e tale si sente, è privo di cultura
sindacale, anche perché sia nei paesi di origine che in quelli d’arrivo
le grandi e pur ancora potenti confederazioni del lavoro oggi degli
emigrati si interessano poco. In comune hanno solo che sia gli stabili
che i non sono il bersagio di una identica politica finalizzata,
ovunque, alla crescente flessibiizzazione del lavoro.
Di questa nuova
emigrazione nessuno si interessa. Niente a che vedere con quando, negli
anni ‘50 e ancora ’60, andavamo alle stazioni di transito dei treni
speciali a incontrare, con cibo bevande e bandiere rosse, i nostri
emigrati di ritorno per votare. «Tornare per votare, votare per tornare»
era lo slogan, che non ebbe esiti: tornarono solo un po’ di vecchi a
morire nel paese natale, figli e nipoti sono ormai tedeschi svizzeri
belgi. Erano quasi tutti meridionali, allora.
Anche quelli di oggi, a
maggioranza. Ma l’emigrazione attuale è per il sud assai peggio di
quanto fu allora, quando, con le rimesse, molti contadini riuscirono a
uscire dalla miseria. Oggi – ci avverte Pugliese – si sta producendo un
nuovo dualismo nord-sud. Perché al nord la popolazione cresce nel
mezzogiorno manca all’appello quasi mezzo milione di giovani, di cui
312mila laureati. All’epoca delle grandi migrazioni meridionali il Sud
veniva considerato sovrappopolato, oggi non è più vero.
NON SOLO:
l’abbandono dei giovani ha prodotto una ferita demografica così profonda
che ha inciso sulla stessa struttura economica di quelle regioni dove
vive ormai una popolazione vecchia e sempre più dipendente e dove sempre
meno sono le possibilità di una ripresa.
A casa, al sud, visto
questo contesto, non torna ormai più quasi nessuno, non solo i
lavoratori emigrati, ma quasi nemmeno più gli studenti che vanno a
studiare nelle università del centronord. Un vulcano che forse non si
colmerà mai più.
il manifesto 9.8.18
Amnesty: «Italia e Malta colluse con la Libia»
Migranti. «Vite umane usate per contrattare»
di Marina Della Croce
Non
è vero che tenendo i migranti bloccati in Libia e impedendogli di
attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia gli si salva la
vita. Così come non è vero che al calo degli arrivi nel nostro paese
corrisponde una diminuzione delle tragedie in mare. Anzi, è vero proprio
il contrario. Tra giugno e luglio del 2018, cioè nei due mesi appena
trascorsi, sono stati ben 721 i rifugiati e i migranti che hanno perso
la vita nel Mediterraneo centrale dopo essersi imbarcati in Libia, 1
ogni 16 rispetto all’1 ogni 64 registrato nei primi cinque mesi
dell’anno, vale a dire prima che le politiche ulteriormente restrittive
del nuovo governo giallo verde entrassero in vigore.
A denunciare
quanto davvero accade quotidianamente nel tratto di mare tra Libia e
Italia è Amnesty international in un rapporto intitolato «Tra i diavolo e
il mare blu profondo. L’Europa viene meno ai rifugiati e ai migranti
nel Mediterraneo centrale», 27 pagine in cui l’ong accusa Italia, Malta e
la stessa Unione europea di complicità con i libici per le continue
violazioni dei diritti umani perpetrate a danno dei migranti nel paese
nordafricano. Ma nelle quali si spiega anche come continuare rifornire
di mezzi la Guardia costiera libica (il decreto che autorizza la
fornitura di altre 12 motovedette a Tripoli è stato approvato solo tre
giorni fa dal parlamento) serva solo a far aumentare il numero di
reclusi nei centri di detenzione libici, donne e bambini compresi.
«Nonostante il calo del numero di persone che tentano di attraversare il
Mediterraneo negli ultimi mesi, il numero dei morti è aumentato»,
spiega Matteo de Bellis. ricercatore su asilo e migrazione per Amnesty.
«La responsabilità per il crescente numero di vittime è riconducibile ai
governi europei che sono più preoccupati di tenere le persone lontane
che a salvare vite umane».
Sono anni che si conoscono le condizioni
disumane in cui i migranti vengono tenuti prigionieri nei centri libici,
anche quelli gestiti da Tripoli e non solo dai trafficanti. Al punto
che dopo il vertice tra Unione europea e unione africana che si è tenuto
nel novembre scorso in Costa d’Avorio, si è deciso di avviare un lavoro
di svuotamento – seppure lento – dei campi con il contributo dell’Unhcr
e dell’Oim e il trasferimento in Niger delle persone che vi sono
rinchiuse.
Centri di detenzione, denuncia adesso Amnesty, che si
stanno di nuovo riempiendo proprio per le operazioni di contrasto della
Guardia costiera libica, tanto che negli ultimi mesi il numero dei
detenuti è più che raddoppiato, passando dalle 4.400 persone di marzo
(nei centri governativi) alle oltre 10.000 della fine di luglio, tra le
quali circa 2.000 sono donne e bambini. «Praticamente tutti sono stati
portati nei centri dopo essere stati intercettati in mare e riportati in
Libia dalla Guardia costiera libica, che è equipaggiata, addestrata e
supportata dai governi europei», accusa il rapporto. U concetto reso
ancora più esplicito da de Bellis: «Le politiche europee hanno
autorizzato la Guardia costiera libica a intercettare le persone in
mare, tolto la priorità ai salvataggi e ostacolato il lavoro vitale
delle Ong – spiega il ricercatore -. Il recente aumento delle morti in
mare non è solo una tragedia: è una vergogna».
A peggiorare la
situazione c’è l’incapacità dimostrata dalla Ue di arrivare a una
modifica del regolamento di Dublino che eliminasse il principio del
paese di primo sbarco, permettendo una distribuzione dei richiedenti
asilo tra gli Stati membri. «In risposta a ciò – prosegue de Bellis –
l’Italia ha cominciato a negare l’ingresso nei suoi porti alle navi che
trasportavano persone salvate», divieto rivolto no solo alle navi delle
ong, ma anche a quelle mercantili e perfino a quelle militari straniere,
costringendo così persone spesso già fortemente traumatizzate a
prolungare la loro permanenza in mare. «nel suo insensibile rifiuto di
permettere ai rifugiati e ai migranti di sbarcare nei suoi porti,
l’Italia sta usando vite umane come merce di contrattazione – conclude
de Bellis -. Inoltre le autorità italiane e maltesi hanno denigrato,
intimidito e criminalizzato le ong che cercando di salvare vite in mare,
rifiutando alle loro barche il permesso di sbarcare e le ha anche
confiscate».
Il rapporto si chiude chiedendo agli stati e alle
istituzioni europee di riprendere le operazioni di salvataggio nel
Mediterraneo assicurando «che i soccorsi siano sbarcati tempestivamente
in paesi in cui non saranno esposti a gravi abusi e dove possono
chiedere asilo».
«Il ministro dell’Interno Salvini non può continuare
a far finta di niente, autoincensandosi – ha commentato l’esponente di
Possibile -: il suo operato disumano sta facendo aumentare il numero di
persone morte in mare. Tutte le storielle che racconta su business
dell’immigrazione si stanno rivelando per quello che sono: fandonie e
propaganda sulla pelle degli ultimi».
il manifesto 9.8.18
Quei musi neri di Marcinelle
Anniversari.
L’8 agosto del 1956 la strage di minatori fece scoprire le terribili
condizioni di vita dei lavoratori italiani in Belgio. Ma un giornale di
sinistra scriveva: «Vogliono vivere così»
di Angelo Mastrandrea
Stretti
l’uno all’altro in gabbie che non raggiungono il metro e mezzo
d’altezza. Come polli in batteria, con l’immancabile caschetto sulla
testa e le tute di lavoro annerite, pronti a inabissarsi fino ai 945
metri dove spaleranno carbone in cunicoli non più alti di 50 centimetri e
dove, alle 8,10 di mattina dell’8 agosto 1956, una scintilla elettrica
scatenerà un incendio e la morte di 262 persone di undici nazionalità
diverse, 138 delle quali italiane, la metà di questi abruzzesi e, tra
questi ultimi, una quarantina provenienti dal piccolo comune di
Manoppello, nel pescarese. È forse questa l’immagine più emblematica dei
«musi neri» di Marcinelle, oggi esposta nell’ex miniera trasformata in
museo e dichiarata Patrimonio mondiale dell’umanità.
LA STRAGE AL
BOIS DU CAZIERS, com’era chiamata la miniera sulle colline sopra la
città di Charleroi, nel sud del Belgio, fece scoprire agli italiani fino
a che punto decine di migliaia di nostri concittadini nel paese
nordeuropeo fossero sfruttati sul lavoro. Il Corriere della Sera il
giorno dopo titolò «Tragedia nostra» un commento affidato a Dino
Buzzati, che scrisse: «Bois du Cazier, questo lontano posto che non si
era mai sentito nominare, diventa Italia».
Ruben Tedeschi, l’inviato
dell’Unità, dettò a braccio le seguenti parole: «Uno spettacolo pauroso
si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli
della miniera. Il fumo – un fumo denso, nero, acre – oscurava il cielo e
rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia
silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da
lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una
folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento
trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si
accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e
ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. Le informazioni che
costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile
contraddittorietà contribuivano ad alimentare l’incertezza e la
confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive:
invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la
pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte
lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma soprattutto in italiano,
perché italiani sono in massima parte i sepolti vivi e italiani i loro
figli e le loro mogli».
IL GOVERNO ITALIANO fu costretto, sull’onda
dell’emozione pubblica e delle polemiche causate dall’incidente, ad
aprire gli occhi e sospese l’accordo siglato nel 1946 con il Belgio, che
prevedeva duecento chilogrammi al giorno di carbone per ogni
lavoratore, per duemila operai sotto i 35 anni a settimana, sottoposti a
visita medica preliminare e controllo politico – se «sovversivi»
sarebbero stati rimpatriati – fino a un massimo di 50 mila.
NON
ALTRETTANTO ACCADDE nel paese diviso tra fiamminghi e valloni e che oggi
ospita la capitale d’Europa. All’indomani della strage, Le peuple, un
quotidiano di ispirazione socialista e vicino al sindacato, scrisse: «Se
avesse voluto (il lavoratore italiano, ndr), forse avrebbe trovato, ai
margini delle tetre periferie industriali, una casetta e un giardino. Ma
lo spostamento gli sarebbe costato e vuole risparmiare molto per
restare il minor tempo possibile in Belgio. E poi si sarebbe trovato
solo, in mezzo a stranieri, mentre a lui piace sentire cantare nella sua
lingua, mangiare le specialità della sua cucina e sfogarsi tra i suoi».
Per questo, concludeva, «accetta di vivere ai piedi dei terreni di
scarico, dietro alle mura di vecchi accampamenti dei prigionieri di
guerra», «chiude gli occhi sui canali che scaricano l’acqua sporca del
bucato e non vede più la sua baracca coperta di bitume, non sente più il
triste odore che sale dall’accampamento».
A SMENTIRE LA CATERVA di
pregiudizi xenofobi di cui l’articolo era permeato ci ha pensato il
tempo. Oggi le cantines, le baracche di legno dove si viveva ammassati
su letti di paglia, senza acqua, riscaldamento né servizi igienici, e le
cosiddette «case di ferro», hangar militari in cui si moriva di freddo
d’inverno e di caldo in estate che circondavano quello che era stato un
lager nazista prima e un campo di prigionia per i soldati tedeschi poi,
affittate dalla compagnia mineraria ai lavoratori migranti scalando la
pigione dal salario mensile, sono state trasformate in comode villette
con giardino.
Ci vivono i figli e i nipoti dei «musi neri» del Bois
du Cazier, e qualche anziano ancora in vita. Sono le seconde e terze
generazioni di emigranti, gente con il doppio e a volte triplo
passaporto, discendenti delle migrazioni dal sud e dall’est d’Europa che
si sono accoppiate fra loro durante il lungo secolo novecentesco.
Resistono, a memoria di quel che è stato, i terril, le colline nere
formatesi con i detriti di carbone sulle quali crescono piante ed
erbacce.
IN UNA VILLETTA di quello che oggi è un tranquillo sobborgo
di Charleroi, ex città industriale oggi capitale belga della
disoccupazione, viveva pure Marc Dutroux, un elettricista che, tra il
1985 e il 1996, sequestrò, seviziò e uccise quattro ragazzine. Due
sopravvissero alle sue sevizie e denunciarono tutto. Fu ipotizzato un
giro più ampio di pedofilia, le forze dell’ordine finirono sotto accusa
per non aver subodorato alcunché e il caso traumatizzò l’opinione
pubblica al punto da provocare una «marcia bianca» di 350 mila persone a
Bruxelles e le dimissioni di due ministri, come non era accaduto
quarant’anni prima per la strage della miniera.
GLI ITALIANI
ATTUALMENTE sono la seconda comunità di migranti in Belgio e mantengono
solide radici identitarie, quella che uno studioso di emigrazione
italiana in Belgio, Daniele Comberiati, definisce come «la lingua della
miniera» – un misto di italiano, francese, dialetto e wallon – e
tradizioni anche gastronomiche parzialmente reinventate, a ulteriore
smentita dei pregiudizi belgi. Non è un caso che il Giro d’Italia nel
2006 abbia fatto tappa proprio in questo luogo-simbolo delle tragedie
dell’emigrazione e della «guerra del carbone» che il piccolo Stato belga
decise di combattere per risollevarsi dal conflitto mondiale. Nessuno
si ricorda più delle parole di fuoco dell’epoca contro i “musi neri”
italiani, accusati di fare concorrenza a basso costo ai lavoratori
belgi.
I nostri concittadini furono rimpiazzati da turchi e
marocchini, e il bersaglio del razzismo si spostò su di loro fino alla
chiusura definitiva della miniera, nel 1984. Oggi Charleroi è un’ex
città industriale, che prova a reinventarsi con difficoltà dopo la
chiusura delle sue fabbriche. Sono abbandonate e neppure bonificate pure
le acciaierie della Arcelor Mittal, acquirenti, salvo sorprese,
dell’Ilva di Taranto.
il manifesto 9.8.18
Marcinelle, la Lega attacca Moavero: «Offende gli italiani»
Scontro nel governo. Il ministro colpevole di aver paragonato i nostri migranti a quanti arrivano oggi in Italia
ROMA
Il ricordo della tragedia di Marcinelle si trasforma in uno scontro
all’interno del governo giallo verde, con i capi gruppo leghisti di
Camera e Senato che attaccano il ministro degli Esteri Moavero Milanesi
colpevole, a loro dire, di aver accomunato i migranti italiani del
secolo scorso ai disperati che oggi arrivano in Italia attraverso il
Mediterraneo. Polemica pretestuosa quanto inutile, alla quale si accoda
però anche Fratelli d’Italia che chiede al titolare della Farnesina di
evitare «paragoni impropri e offensivi».
E’ la classica bufera nel
bicchiere, buona solo per soddisfare l’elettorato. Il pretesto per
l’attacco arriva dalle parole con cui in mattinata Enzo Moavero Milanesi
ricorda i 262 minatori, 136 dei quali italiani, morti nell’incendio
scoppiato 62 anni fa nella miniera belga. «Siamo stati, fino ai primi
anni sessanta del ventesimo secolo, appena ieri, una nazione di
emigranti nel mondo», ricorda il ministro degli Esteri. «Anche in Europa
siamo andati stranieri, in paesi stranieri, cercando lavoro».
Parole
che descrivono una realtà ben conosciuta da tutti gli italiani, e che
probabilmente non avrebbero suscitato alcuno scalpore se Moavero non
avesse voluto sottolineare come sia giusto ricordare il nostro passato
«quando vediamo arrivare in Europa i migranti della nostra travagliata
epoca». Gli africani di oggi come gli italiani di ieri, accomunati dallo
stesso desiderio di una vita migliore.
Troppo per la Lega, come se
in passato non fossero partiti anche dal Veneto, dal Piemonte e dalla
Lombardia disperati con la valigia di cartone diretti in cerca di
fortuna in tutto il mondo. Evidentemente per il Carroccio la fame non è
uguale per tutti. E infatti la reazione al paragone fatto da Moavero non
si fa attendere. Per i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari
e Massimiliano Romeo, il ministro «offende gli italiani». «Paragonare
gli italiani che sono emigrati nel mondo, a cui nessuno regalava niente
né pagava pranzi e cene in albergo, ai clandestini che arrivano oggi in
Italia è poco rispettoso della verità, della storia e del buon senso»,
dicono i due parlamentari. Seguiti anche dal capogruppo a Montecitorio
dei fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida, per il quale «gli italiani
che emigrarono hanno portato lavoro e qualità e chi ci ha ospitato ha
preteso che rispettassimo fino all’ultima regola, perseguendo
correttamente chi non lo fece. Il ministro degli Esteri eviti paragoni
impropri».
A rimarcare ancora di più la divisione esistente nella
maggioranza, in mattinata era intervenuto anche il presidente della
camera Roberto Fico ribadendo in sostanza gli stessi concetti espressi
da Moavero. «In una fase storica come quella attuale, in cui il
continente europeo è così profondamente lacerato da posizioni
contrapposte sulla sorte dei migranti – aveva detto l’esponente dei 5
Stelle – queste dolorose testimonianze che affiorano dalla nostra storia
di migrazioni ci aiutano a ricordare quando fuggivamo da condizioni
difficili, alla ricerca di una prospettiva di vita dignitosa».
Repubblica 9.8.18
Austria
La storia del film “L’onda” si ripete il nazismo travolge i banchi di scuola
di Giampaolo Cadalanu
BERLINO
Il genere umano è sempre vulnerabile al fascino malato delle ideologie
brutali, quelle che hanno la sopraffazione di gruppo come denominatore
comune. Lo dimostra la disavventura di una classe della scuola media di
Zurndorf, nel Land austriaco del Burgenland. All’ora di tedesco
l’insegnante aveva proposto la lettura del romanzo L’onda dello
scrittore americano Todd Strasser e la visione del film omonimo del
2008, diretto da Dennis Gansel.
L’onda ( in alto una scena del film)
si basa sull’esperimento tenuto da Ron Jones, professore di Storia
californiano, che nel 1967, per spiegare l’attrazione del nazismo sulle
masse, introdusse con gli studenti del liceo Cubberley di Palo Alto una
serie di comportamenti volti a enfatizzare la disciplina e lo spirito di
corpo. Lo scopo era replicare i meccanismi sociali che avevano permesso
di dare via libera a Hitler. L’esperimento finì quando era chiaro che
anche i liceali erano accecati dai rituali e non esercitavano più
capacità critiche. Non diverso è stato il risultato nella scuola di
Zurndorf: fra libro e film, l’insegnante era convinta che avessero
compreso il senso della lezione. Ma negli intervalli qualche allievo ha
cominciato a ripetere le scene del film. Poi in palestra un gruppo ha
deciso di impersonare le SS, un altro faceva la parte dei deportati
ebrei. A questo punto, ogni senso del limite è sparito. I ragazzi che
facevano la parte di deportati, racconta il quotidiano Kurier, si sono
sentiti chiamare «ebrei di m…» e sono stati rinchiusi in un magazzino
per attrezzature sportive. Un giovane di quindici anni, che il giornale
chiama “Lenni”, ha rivestito le parti del Führer, e si faceva salutare
con il braccio teso, al grido di «Heil Lenni!». I ragazzi che
rifiutavano finivano nella “camera a gas”, cioè il deposito di materassi
della palestra.
Una storia che non poteva passar liscia, in Austria
meno che altrove. Dopo la denuncia di una professoressa, la vicenda è
arrivata all’Ufficio per la protezione della Costituzione.
L’indagine
ha chiarito che non ci sono state violenze, e che «la stanza dei
materassi non poteva essere sbarrata», quindi il fascicolo è stato
chiuso. Resta aperta l’inchiesta sulla possibile apologia del nazismo da
parte di “Lenni”. Il giovane ha cercato di chiarire: «Era una recita,
nessuno la prendeva sul serio. Ma dopo aver approfondito il tema con
alcuni documentari, mi sono sentito male».
La Stampa 9.8.18
Addio ai soldi per le periferie
Scoppia la rivolta dei Comuni
Scure del governo. Il Pd: schiaffo ai cittadini. Il M5S: sbloccati altri fondi
di Nicola Lillo
Il
piano Periferie lanciato dal governo di Matteo Renzi viene fermato e
sospeso per due anni, facendo infuriare i Comuni. La maggioranza Lega-
Cinque Stelle ha infatti votato un emendamento al decreto Milleproroghe
che prevede il differimento al 2020 di 2,1 miliardi di finanziamenti,
soldi che comunque finora non erano stati spesi. Il M5S rivendica al
tempo stesso di aver approvato un altro emendamento che ha liberato un
miliardo per gli investimenti destinati a tutti i Comuni, e non solo a
quelli che avevano firmato una convenzione con la presidenza del
Consiglio.
«Lo stop di Lega e M5S al Bando Periferie dei governi
Renzi e Gentiloni è uno schiaffo ai cittadini e un danno ai Comuni»,
attaccano dal Pd, che comunque ha approvato l’emendamento definendolo
però «involuto». Finora sono stati firmati 120 accordi con i Comuni: il 6
marzo dello scorso anno sono stati siglati i primi 24 (che restano) e a
dicembre gli altri 96 (che ora vengono posticipati al 2020). I progetti
della prima tranche erano già stati presentati a Palazzo Chigi e
potranno procedere con il loro iter.
Non è un problema per Laura
Castelli, sottosegretario Cinque Stelle all’Economia. «Con un nostro
emendamento abbiamo liberato un miliardo per gli investimenti dei
Comuni, che miglioreranno la vita dei cittadini», spiega attaccando il
Pd: «Parlano di tagli, ma gli unici che i cittadini ricordano sono
quelli fatti dai loro governi».
Scontro M5S-Pd
Ma chi ha ragione
tra i due partiti (mentre la Lega sul tema tace)? Con il Milleproroghe,
approvato al Senato e che in settembre arriverà alla Camera, sono stati
effettivamente sbloccati 140 milioni di euro per il 2018, 320 per il
2019, 350 per il 2020 e 220 per il 2021. Risorse che si sommano a quelle
già stanziate dalla precedente legge di Bilancio. Per i Dem è in realtà
semplicemente lo spostamento di soldi già previsti. Mentre per la
maggioranza sono risorse che ora vengono distribuite a tutti senza
finalità precise, che le amministrazioni comunali dunque potranno usare
liberamente e non solo per le periferie.
La reazione dei sindaci
A
criticare la decisione del governo sono i sindaci delle più importanti
città (tutte a guida centrosinistra), Giuseppe Sala di Milano, Luigi De
Magistris di Napoli, Virginio Merola di Bologna e Dario Nardella di
Firenze. A Roma e Torino invece - dove ci sono amministrazioni Cinque
Stelle - minimizzano. «Nessuno stop per i progetti di Roma Capitale
dedicati alle periferie della città», spiegano dal Campidoglio. Mentre
da Torino si limitano a dire di «seguire con attenzione attraverso i
propri uffici l’evolversi della situazione legata al futuro del Bando
Periferie».
Molto critici invece i due ex premier Pd, Matteo Renzi e
Paolo Gentiloni, che hanno portato avanti il progetto: «L’ossessione di
smontare le decisioni dei governi precedenti ora prende di mira le
periferie. Togliere i soldi alle città per ripicca politica sarebbe una
follia. Una delle tante», spiega Gentiloni. Per Renzi invece si tratta
di «una delle migliori idee del mio governo. Spero che davvero l’attuale
esecutivo non voglia tornare indietro anche su questo e che sia tutto
un equivoco».
La Stampa 9.8.18
“È stato uno scippo. Pronti alle barricate”
di Flavia Amabile
L’elenco
dei sindaci che hanno protestato contro la sospensione delle
convenzioni del bando periferie è lunghissimo. Comprende Comuni guidati
dal Pd ma anche da Forza Italia e anche tra i sindaci del M5S si
percepisce tensione all’idea di non poter realizzare i progetti
promessi. Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci,
l’associazione dei comuni italiani, annuncia battaglia.
«Siamo di
fronte a una via di mezzo tra il furto con destrezza e il gioco delle
tre carte. Il governo ha agito in modo inqualificabile: di notte, con un
emendamento nascosto nel decreto Milleproroghe, ha deciso di sospendere
le convenzioni del Bando periferie per 96 tra città e aree
metropolitane per un totale di 300 comuni e 2,1 miliardi di
finanziamenti da parte dello Stato di opere essenziali per i Comuni.
Dall’altro però ha avviato la procedura per sbloccare un miliardo di
avanzi di amministrazione e ne rivendica il merito. Ma in questo caso si
tratta di un obbligo dopo le sentenze della Corte Costituzionale, le
due misure non possono essere assolutamente equiparate».
La
sottosegretaria all’Economia Laura Castelli sostiene che si tratti di
fondi illegittimi come aveva stabilito la Corte Costituzionale in una
sentenza.
«Assolutamente falso. La sentenza sostiene che i fondi
dell’articolo 140 non possono essere utilizzati perché di competenza
delle Regioni ma i fondi per le periferie sono invece contenuti in un
Dpcm che ha ottenuto il parere favorevole dalla Conferenza unificata
Stato Regioni, non sono oggetto della sentenza».
Nel frattempo però alcuni Comuni hanno già ottenuto i fondi. E gli altri?
«C’è
stata una prima tranche di 24 progetti che sono già stati completati.
Il governo Gentiloni ne ha poi finanziati altri 96. Su questi non
sappiamo che cosa accadrà. Ma sono stati firmati dal presidente del
Consiglio e da noi sindaci in modo ufficiale. Ci sono Comuni che hanno
già speso le prime somme, che hanno bandito le gare d’appalto, che hanno
promesso ai loro cittadini opere per riqualificare le periferie. Come
si può ora cancellare tutto questo creando problemi anche di bilancio
per i Comuni?».
Che cosa pensate di fare?
«Tutto quello che è in
nostro potere. Dalla diffida alla presidenza del Consiglio a richiedere
un intervento del Presidente della Repubblica fino alle barricate».
Repubblica 9.8.18
«Un furto con destrezza Ci appelleremo al Quirinale»
di An. Duc.
«Sembra
il gioco delle tre carte. A stabilire il libero utilizzo degli avanzi
di amministrazione sono ben due sentenze della Corte costituzionale. E
poi come dovranno regolarsi i sindaci che non dispongono di avanzi in
bilancio?». ,Il governo nega il taglio e rivendica di avere liberato un
miliardo grazie agli avanzi di bilancio degli anni precedenti. ,«Molti
sindaci stanno scrivendo al governo. Poi solleciteremo direttamente il
presidente della Repubblica». ,Che cosa farete adesso? ,«Bisognerebbe
chiedere a loro. Credo non si siano accorti, per questo si configura
come un furto con destrezza, uno scippo istituzionale». ,Ma i senatori
del suo partito, il Pd, hanno votato a favore... ,«È stata sottoscritta
una convenzione con il governo precedente, un contratto sulla base del
quale molti sindaci hanno appaltato i lavori, assumendo così un impegno
di spesa. Rinviare, significa ritrovarsi con un buco in bilancio».
,Perché traditi? , sindaci si sentono traditi, ci tolgono 1,6 miliardi
senza condividere alcunché e con un emendamento votato di notte». A
dirlo è il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro.
Corriere 9.8.18
Azzerato il bonus degli 80 euro I fondi? Sulla flat tax
Nuovi sgravi . Piano per congelare l’aumento dell’Iva Salvini pronto allo scontro con la Ue. M5S e Tria frenano
di Mario Sensini
ROMA
Convince tutti, politicamente suona bene, ma soprattutto serve come il
pane alla manovra. Lega e Movimento 5 Stelle hanno deciso di «rottamare»
il bonus Renzi degli 80 euro. Introdotto nel 2016 dall’allora
presidente del Consiglio, che ne fece una battaglia quasi personale con
Angelino Alfano e Pier Carlo Padoan, il «premio» da 80 euro lordi
mensili per i lavoratori dipendenti sotto i 26 mila euro di reddito
costa la bellezza di 9 miliardi euro l’anno e finisce nelle tasche di 11
milioni di contribuenti.
Nel vertice di ieri sera a Palazzo Chigi
tra il premier Giuseppe Conte e i ministri economici sembra sia stata
pronunciata la sentenza definitiva. Sarà azzerato, e utilizzato per
finanziare il primo modulo della flat tax per le persone fisiche, che
debutterà con la legge di Bilancio del 2019, insieme all’estensione
della tassa forfettaria del 15% per le imprese.
Per il ministro
dell’Economia, Giovanni Tria, il «bonus Renzi» è troppo complicato. Non è
uno sgravio (e non riduce la pressione fiscale complessiva, cosa che
faceva dannare Padoan), e crea problemi al momento dei conguagli, con
troppa gente costretta a restituirlo in tutto o in parte per aver
superato il tetto di reddito. Meglio utilizzare i 9 miliardi per una
prima riduzione delle aliquote o un accorpamento degli scaglioni Irpef.
Il primo modulo della flat tax per i cittadini, appunto.
L’idea,
confermata dal vertice di ieri sera, è quella definire da subito, con la
legge di Bilancio del 2019, ma triennale, il percorso dei tagli fiscali
sulle famiglie per l’intero arco della legislatura. Un programma a
tappe, ma credibile perché scritto in una legge. Il governo sfrutterebbe
l’effetto annuncio, capace di incidere positivamente sui consumi e
sulla crescita, ed avrebbe tempi più comodi per le coperture. Qualsiasi
sgravio fiscale si decidesse per il 2019,avrebbe i principali effetti
contabili nel 2020, cioè nel momento della dichiarazione dei redditi. Lo
stesso discorso vale per le imprese. Qui il piano è ancora più
semplice, perché basta alzare i tetti di fatturato sotto i quali si
applica il regime forfettario dei minimi, con l’aliquota già al 15%.
Sia
la Lega che il Movimento sono decisi a varare gli sgravi sia per le
famiglie che per le imprese e dare così un segnale di cambiamento
all’economia. Sulla copertura della manovra fiscale c‘è ancora qualche
distanza. Se il sacrificio del bonus Renzi mette tutti d’accordo, come
la «pace fiscale» che però darebbe un gettito una tantum, ci sono
differenze sulla linea da tenere con la Ue nel negoziato per ottenere la
possibilità di fare un deficit un po’ più alto. Salvini e i suoi sono
prontissimi allo scontro, mentre Di Maio appoggia la linea di Tria della
«compatibilità».
Con la flat tax, l’avvio del reddito di
cittadinanza e probabilmente un primo allentamento della legge Fornero
sulle pensioni, la manovra del 2019 costerebbe sulla carta circa 25
miliardi di euro, di cui metà per sterilizzare gli aumenti dell’Iva. Sul
fronte delle coperture, per ora, ci sono il bonus Renzi, un paio di
miliardi di altre detrazioni per le imprese che potrebbero sparire, e il
gettito della «pace fiscale». Altro fronte delicato tra Lega e 5
Stelle, con questi ultimi che puntano a circoscrivere la sanatoria solo
ai piccoli contribuenti, mentre la Lega la ipotizza anche per le
imprese. Da come la si imposta dipenderanno anche gli incassi, che
oscillano tra uno e 3 miliardi.
Nelle intenzioni dell’esecutivo le
coperture dovrebbero fermarsi qui. Metà manovra, 12 miliardi su 25,
dovrebbe dunque essere finanziata in deficit per evitare che tagli di
spesa o nuove entrate deprimano troppo l’economia. Non è detto che la Ue
sia daccordo. Il negoziato è in corso e per il momento non depone male.
Ma anche ieri sera i ministri della Lega sono stati chiari. Il
programma di governo deve essere attuato. Checché ne dica Bruxelles.
Repubblica 9.8.18
l voto al Senato
Il vento di protesta nelle periferie
di Piero Colaprico
Le
città, si dice, non finiscono in periferia, ma le città cominciano
dalla periferia. Questo concetto fa fatica a passare. Anzi da qualunque
prospettiva le si guardi, resta il fatto che le periferie d’Italia erano
e sono “eterne incompiute”. Le figlie sfortunate del dio minore delle
metropoli. E da ieri, almeno ad ascoltare il vento di protesta che s’è
alzato e soffia da Nord a Sud, dall’Anci a Forza Italia, dal sindaco
Sala di Milano al sindaco Pizzarotti di Parma, a Reggio Calabria e
Udine, le periferie si risvegliano nervose, e dentro un collettivo
“abbandono percepito”. L’allarme è cominciato l’altra sera. Appena è
stato votato in Senato il decreto Milleproroghe del governo Lega M5S, ci
si è accorti che si concretizzava il gigantesco rischio di veder
congelati d’improvviso, e senza condivisione tra amministratori
pubblici, moltissimi progetti di rinnovamento, ricostruzione,
risanamento. Quelli che erano passati grazie al precedente governo di
centrosinistra attraverso il Bando delle periferie di Matteo Renzi.
Siccome
il Senato ha votato all’unanimità, Renzi stesso ha mandato in fretta un
messaggio ai sindaci pd, per dire che “l’emendamento è stato letto male
dai nostri (…) la cazzata è del governo (…) combatteremo, ma non
facciamo polemiche”. A leggere centinaia di dichiarazioni, non è che gli
abbiano dato retta. Il coro delle proteste è cresciuto di ora in ora,
parlando di “schiaffo” e “furto con destrezza”. E liquidarlo come
“sinistra all’attacco” è fuori luogo. Anzi, a dimostrare il livello di
aggrovigliata confusione del governo, ci sono volute mattina e
pomeriggio prima che dalla stanza dei bottoni gialloverde si levasse una
voce, per tentare di far rientrare l’allarme generale. La frittata è
stata girata in positivo: passano — così sostengono — 24 progetti, per
501 milioni (meno di un quarto dei 2 miliardi e 100 milioni previsti
dallo Stato).
In cambio dell’uso delle cesoie, è previsto un
“contentino”: se i Comuni hanno soldi in cassa, possono spenderli. Il
che equivale a sottolineare un tema, in verità preoccupante in questo
periodo di crescenti differenze: chi è ricco ed è forte di un gettito
fiscale rassicurante, spenda pure, chi è povero e ha debiti, beh, si
potrebbe dire che per quel Comune senza risorse e per le sue periferie
“è finita la pacchia”. Anche se la pacchia, nelle periferie, non c’è mai
stata, anzi. Nelle nostre periferie, da quelle più “pensate”, come il
QT8 di Milano, quartiere triennale 8, firmato da architetti prestigiosi,
alle più disastrate, come l’iper-citata Scampia, ormai assurta dopo la
fiction Gomorra a metafora dello Stato assente, manca sempre qualcosa
per dire “adesso ci siamo”. E al momento, salvo una marcia indietro,
sempre possibile quando il voto passerà alla Camera, e al di là delle
rassicurazioni campate per aria del governo, il “non ci siamo” è
devastante e collettivo. Restano fuori dal circuito dei soldi pubblici
96 città. E, siccome alcune sono città metropolitane, quasi 300 Comuni
sono out. Cioè, il “rammendo” delle periferie, di cui parla nei convegni
l’architetto Renzo Piano, o “l’ossessione per la periferia” del sindaco
milanese Beppe Sala (a Milano non arrivano 18 milioni), finiscono nel
freezer della nuova politica: quella che ha i conti da far quadrare per
che cosa? Per trovare i soldi per l’avventura della Flat tax e del
reddito di cittadinanza.
C’è poi da dire che i comizi di Matteo
Salvini nei luoghi più sperduti hanno spesso promesso il riscatto delle
periferie e sfruttato le tragedie nel solco della “politica della
paura”: ma ancora una volta, alla prova dei fatti, i non-luoghi sembrano
servire per riempire le urne, poi tornano nel dimenticatoio. Tanto
“l’insicurezza percepita” dipende sempre da rom, migranti, profughi. Mai
da chi, da Roma, taglia i fondi per risanare.
La Stampa 9.8.18
Vaccini, arriva lo stop dei presidi
“In aula solo con certificato dell’Asl”
I dirigenti scolastici: “Per noi resta in vigore la legge Lorenzin”. E dicono no all’ipotesi di classi “differenziali”
di Paolo Russo
Altro
che slittamento di un anno del divieto di ingresso a materne ed asili.
Per i presidi italiani senza regolare certificato dell’Asl che attesti
l’avvenuta vaccinazione i cancelli di asili e materne resteranno chiusi.
Anche se i genitori sventoleranno le autocertificazioni che la
circolare della ministra della Salute, Giulia Grillo, ha prorogato come
valide fino al 30 settembre. Ma non per l’Anp, l’Associazione nazionale
presidi, che senza giri di parole hanno annunciato che per loro «resta
in vigore la legge Lorenzin», poiché «il diritto alla salute è
prioritario rispetto a quello all’istruzione».
Lo scontro col governo
Una
presa di posizione destinata a confondere ancora più le idee ai
genitori che ancora non hanno iscritto a scuola i propri figli, che
prima hanno sentito parlare di autocertificazioni, poi addirittura di
cancellazione del divieto d’ingresso ai non vaccinati in virtù di un
emendamento al decreto «Milleproroghe», che dovendo ancora essere
approvato vale però come un testo scritto sull’acqua. Tanto più che la
ministra Grillo quell’emendamento non l’avrebbe preso proprio bene, a
tal punto da spingere la maggioranza a una qualche nuova modifica
prevista per settembre.
Iscrizione valida
Ma intanto la confusione
regna sovrana. Tanto più dopo il muro alzato dai direttori d’istituto.
«Diciamo solo che fin quando non c’è il certificato della Asl la
frequenza non è possibile ma l’iscrizione rimane». L’ingresso in aula,
mette in chiaro l’Anp «può avvenire dopo la consegna della
documentazione a scuola».
Conte: «Mio figlio vaccinato»
E i
presidi al capo di gabinetto del ministero della Salute hanno ribadito
il loro no anche alla prospettata possibilità di classi «differenziali»,
composte dai soli bambini vaccinati, nelle quali inserire i 10 mila
bambini immunodepressi che i vaccini non posso farli.
«Mio figlio
l’ho fatto vaccinare. L’ho accompagnato io personalmente. E questa è la
linea del governo», ha chiarito proprio ieri il premier Giuseppe Conte.
Ma il caso vaccini resta più che mai un rebus.
Corriere 9.8.18
Vaccini, lo stop dei presidi: solo chi ha il certificato entrerà in nidi e materne
I dirigenti: la circolare di Grillo? Vale la legge Lorenzin
Polemica per la frase della ministra sulle morti inevitabili
di Margherita De Bac
RomaPresidi
contro governo. «Allo stato attuale se non verrà presentato all’inizio
dell’anno il certificato di avvenuta vaccinazione della Asl, non potremo
permettere la frequenza dei bimbi a nidi e materne». Si spalanca un
solco profondo tra l’Anp, l’associazione nazionale che rappresenta i
massimi dirigenti scolastici, e il ministro della Salute Giulia Grillo.
Sua e di Marco Bussetti (Istruzione) la circolare del 5 luglio che ha
rotto gli indugi. Secondo le nuove disposizioni basterà la sola
autocertificazione per assicurare l’ingresso in classe.
I presidi
però non ci stanno ritenendo: «Non è possibile far prevalere la nuova
circolare. Il diritto alla salute è prioritario. Per ora ci atteniamo
alla legge Lorenzin, sarà quest’ultima ad essere applicata». Le norme
del 2017 prevedono che se inadempienti all’obbligo i piccoli non
entrino. Ieri un incontro tra l’associazione e il capo di gabinetto del
Ministero, Alfonso Celotto.
Il presidente Antonello Giannelli ha
espresso «netto dissenso sulle classi differenziali composte da soli
vaccinati in cui inserire alunni immunodepressi, con problemi di non
idoneità alla profilassi. Resta il rischio degli spazi comuni dove il
pericolo di contagio aumenta».
La situazione ribolle e siamo a meno
di un mese dalla riapertura delle lezioni con tanti input in ballo. Da
una parte la circolare che introduce l’autocertificazione, in contrasto
con una legge del 2000 che esclude la certificazione medica dalla
documentazione amministrativa. Poi l’emendamento al decreto
Milleproroghe approvato dal Senato, in discussione alla Camera dall’11
settembre, che posticipa al 2019-20 l’applicazione delle sanzioni per le
famiglie non in regola ammorbidendo il principio dell’obbligo. Infine
il disegno di legge parlamentare, pare ancora più orientato verso la
libertà di scelta.
Le Regioni non arretrano. Al ritorno dalle ferie
il coordinatore per la sanità Antonio Saitta, assessore in Piemonte,
definirà assieme ai colleghi dissenzienti le azioni da intraprendere.
«Noi non stiamo portando avanti nessuna proposta», afferma replicando
all’intervista di Grillo sul Corriere della Sera. «Se il Parlamento non
elimina l’emendamento noi lo impugneremo di fronte alla Consulta»,
traccia la prima ipotesi Saitta.
La seconda: ordinamenti regionali
per mantenere l’attuate sistema: «Noi ci avevamo lavorato molto col
ministero e invece da parte di questo ministero nessun confronto. Non si
può buttare via tutto». Ieri intanto l’immunologo Roberto Burioni ha
risposto alla Grillo, che al Corriere aveva detto che «non si può
illudere la gente che non morirà nessuno» di morbillo. Lui replica: «Il
ministro dovrebbe sapere che dove c’è l’immunità di gregge non muore
nessuno di morbillo. Il suo dovere sarebbe di portarci in quella
“illusione”. Andiamo bene».
il manifesto 9.8.18
Argentina, sull’aborto legale le donne non arretrano
Ni
una menos. Dopo il sì della Camera alla legalizzazione, palla al
Senato. Partiti spaccati, piazze piene. Le iniziative di Non una di
meno: le ancelle di Atwood e metropolitane inondate di musica. Nel 2018
tre uccise da interventi chirurgici clandestini, nel 2016 43 vittime
di Claudia Fanti
Si
chiamava Liliana Herrera, aveva 22 anni ed era madre di due figli. Era
arrivata il 4 agosto all’Ospedale regionale di Santiago del Estero con
un’emorragia dovuta a un aborto clandestino. Non c’è stato niente da
fare.
È lei l’ultima vittima in Argentina di una legge, risalente
addirittura al 1921, che punisce l’aborto con una pena fino a quattro
anni di carcere, ammettendolo solo in caso di stupro o di minaccia alla
salute della madre.
Prima di lei altre due donne sono morte
quest’anno nello stesso ospedale (nel 2016, 43 in tutto il Paese),
mentre un’altra si trova ora ricoverata in gravi condizioni a Mendoza,
proprio mentre il Senato è impegnato a votare – il risultato si
conoscerà in Italia probabilmente solo all’alba di oggi – il progetto di
legge, già approvato alla Camera dei deputati il 14 giugno, per la
legalizzazione dell’aborto entro la quattordicesima settimana (e anche
oltre in caso di stupro, di pericolo per la vita della donna e di gravi
malformazioni fetali).
Non sono molte le speranze di un esito
favorevole: sulla carta i contrari sono 39 e 31 i favorevoli, benché
l’incontenibile marea di donne di tutte le età, ma specialmente giovani e
adolescenti, che si è riversata sulla Plaza del Congreso – un’onda
verde come il foulard diventato simbolo della lotta per un aborto
legale, sicuro e gratuito – confidi ancora nella possibilità di una
vittoria all’ultimo minuto.
La frattura tra favorevoli e contrari,
decisamente profonda nella società argentina, attraversa tutti i
partiti, anche se in misura assai minore il kirchnerista Frente por la
Victoria dove, su 9 senatori e senatrici, solo una (Silvina García
Larraburu) ha annunciato a sorpresa il suo voto contrario, mentre tra
quelli della coalizione di maggioranza Cambiemos quattro voteranno a
favore e sei contro.
La palma per la maggiore ipocrisia va comunque
all’ex presidente Carlos Menem, che si è espresso contro il progetto di
legge malgrado in passato avesse accompagnato personalmente ad abortire
la sua prima moglie, Zulema Yoma, secondo quanto lei stessa raccontò nel
1999.
E c’è anche chi, come l’esponente del partito radicale Inés
Olga Brizuela y Doria, è schierata attivamente contro la legalizzazione
dell’aborto, mentre sua figlia è in piazza con il foulard verde.
Fino
a che punto la lotta delle donne per il diritto all’aborto sia stata
una corsa a ostacoli lo indicano anche le divisioni all’interno degli
stessi movimenti popolari, a cominciare dalla Confederación de
Trabajadores de la Economía Popular, protagonista il 7 agosto, proprio
alla vigilia del voto, della grande marcia di San Cayetano per «terra,
casa e lavoro» contro le politiche di Macri.
Se il peso della
componente cristiana nella Ctep spiega la resistenza dell’organizzazione
a schierarsi a favore del progetto di legge – estremamente aggressiva è
stata la campagna contro l’interruzione di gravidanza portava avanti
dalla Chiesa cattolica –, non poco sconcerto hanno prodotto le
dichiarazioni del suo leader Juan Grabois, noto per la sua stretta
vicinanza a papa Francesco che ha affermato di non essere «personalmente
a favore della legalizzazione dell’aborto»: «Tra i militanti più attivi
– ha detto – la maggioranza è a favore della depenalizzazione, ma a
livello di base la divisione è ben più netta».
Le donne tuttavia non
hanno arretrato di un millimetro, realizzando iniziative e
manifestazioni, ininterrottamente. Scendendo in piazza silenziosamente
davanti alla sede del Congresso con i costumi – cuffie bianche e
mantelli rossi – della serie televisiva Il racconto dell’ancella
ispirata al romanzo di Margaret Atwood (centrato sui temi della
sottomissione della donna e dei mezzi impiegati per asservire il corpo
femminile e le sue funzioni riproduttive).
O inondando di verde, di
canti e di musica tutte le linee della metropolitana, per iniziativa
dell’ormai celebre movimento Ni una menos, nato nel 2015 dalla protesta
di un gruppo di giornaliste, scrittrici, attiviste e artiste argentine
contro l’inarrestabile strage di donne e fin dall’inizio impegnato nella
difesa di tre rivendicazioni strettamente intrecciate: «Educazione
sessuale per poter decidere. Anticoncezionali per non abortire. Aborto
legale per non morire».
A morire, o a rischiare la vita, sono invece
in tante in Argentina, e quasi tutte povere: chi può permetterselo ha
pur sempre la possibilità di rivolgersi ai medici privati per un aborto
chirurgico sicuro.
Le stime ufficiali parlano di 500mila aborti ogni
anno, 1.369 al giorno, 57 all’ora. E parlano di 298 adolescenti tra i 15
e i 18 anni che partoriscono quotidianamente e di otto bambine tra i 10
e i 14 che ogni giorno diventano madri.
Il Fatto 9.8.18
I quaderni delle mazzette affossano la Kirchner
L’ex presidentessa oggi in Tribunale per lo scandalo corruzione che investe il sistema di potere fondato dal marito
di Guido Gazzoli
L’ex
vicepresidente Amado Boudou è stato condannato a 5 anni e 8 mesi di
prigione e inabilitato a vita a incarichi pubblici. È accusato di
corruzione e trattative incompatibili con la sua funzione pubblica: il
tutto si riferisce a un fatto del 2012, quando Boudou si vide coinvolto,
attraverso l’affarista Alejandro Vandenbroele in qualità di prestanome,
nell’acquisto della Compagnia di Valori Sudamericana, azienda privata
per la stampa di banconote. Negli anni diversi giudici e magistrati,
nonostante le indagini dimostrassero con chiarezza la colpevolezza
dell’imputato, hanno annullato o posticipato le 10 cause nelle quali era
coinvolto l’ex vicepresidente, delle quali quella della grafica,
chiamata “Ciccone” dal nome degli ex proprietari, è la più importante.
Secondo i magistrati Boudou accettò come tangente il 70% delle azioni
della società; inizialmente venne arrestato il 2 novembre 2017 con
l’accusa di riciclaggio di denaro sempre collegato alla stessa causa, e
posto in carcerazione preventiva.
Dopo 70 giorni venne liberato, ma
da martedì, completato il processo, è stato nuovamente trasferito nelle
carceri di Ezeiza: la prima sentenza confermata nel processo contro la
corruzione, che la settimana scorsa ha vissuto il momento-chiave con la
consegna alle autorità e pubblicazione dei quaderni sui quali l’autista
di Roberto Baratta , numero 2 del ministro della Pianificazione Julio De
Vido, Oscar Centeno annotava appuntamenti e cifre del giro di tangenti
delle Opere Pubbliche. Fatto che ha portato a 16 arresti e inviti a
comparire presso il Tribunale di Buenos Aires da parte di politici,
imprenditori e membri della magistratura legati all’ex governo
kirchnerista.
Ieri è stato il turno dell’ex giudice Norberto Oyarbide
che, durante la sua audizione, ha dichiarato di aver subito pressioni
per favorire nelle innumerevoli cause che li riguardavano non solo i
vari membri dei governi, ma anche gli stessi Néstor e Cristina Kirchner.
Tra le quali quelle di arricchimento illecito quando nel 2008 respinse
la richiesta di chiarire l’aumento del 168% annuo del patrimonio della
famiglia presidenziale e quella chiamata “Sueños Compartidos” (Sogni
condivisi) nella quale erano coinvolte le Madri di Plaza de Mayo
accusate di aver ricevuto ingenti somme dallo Stato per la costruzione
di case destinate ai poveri e non aver mai portato a compimento solo una
minima quantità di alloggi, girando parte dei soldi ricevuti alle casse
dell’Fpv (Frente para la Victoria), il partito kirchnerista.
Sebbene
nel corso della carriera Oyarbide abbia collezionato 47 denunce per
mala prassi e 43 richieste di giudizio politico, nessuna ha seguito il
suo corso a causa delle protezioni politiche di cui ha sempre goduto. Un
personaggio chiave quindi degli ultimi 15 anni di storia, sotto le cui
mani finivano “per sorteggio” le cause più delicate che implicavano il
potere trovandone sempre un fedele alleato, che ora pare destinato ad
aprire il “vaso di Pandora”, aggiungendosi al gruppo di pentiti che
collabora con la giustizia.
Oggi il Senato deve dare l’assenso alla
perquisizione di uno degli appartamenti di Cristina Kirchner a Buenos
Aires, che dovrà anche comparire in Tribunale per essere interrogata: si
stringe sempre più il cerchio attorno all’ex presidente, da molti
testimoni citata come “il capo della banda” e ormai isolata all’interno
di un peronismo che potrebbe finire con lo “scaricarla”.
Repubblica 9.8.18
Turchia, la guerra finanziaria che Erdogan non riesce a vincere
di Marco Ansaldo
«Le
recenti fluttuazioni dei mercati finanziari, che non possono essere
spiegate su base economica, prima o poi si calmeranno». Con questo
approccio serenamente fideistico il partito conservatore turco, di
ispirazione religiosa, reagisce alla nuova crisi economica, la più
difficile da quella drammatica del 2001, risolta un anno prima
dell’arrivo al potere di Recep Tayyip Erdogan.
Un annuncio, quello
dell’esperto economico Cevdet Yilmaz, numero due della compagine
monocolore al governo, capace di mescolare la tecnologia più in voga
(dichiarazione fatta su Twitter) con una speranza di tipo squisitamente
trascendentale. E che agli osservatori, persino i più distaccati,
imprime il senso di un’impreparazione totale, foriera di scenari da
precipizio senza il pronto intervento di un soccorso adeguato.
L’altro
giorno la lira turca ha battuto il suo record negativo, scendendo a
5,99 contro l’euro. Ci vogliono cioè 6 lire turche per comprare 1 euro,
quando fino a un paio di anni fa le due valute erano in parità perfetta.
In sette giorni la lira è scivolata a 5,4250 contro il dollaro, minimo
mai conosciuto prima, con un calo di oltre il 25% dall’inizio dell’anno.
Un crollo che promette iper-inflazione.
Lira ai minimi, rendimento
dei titoli di Stato al 20%, potere d’acquisto dei cittadini in flessione
continua con la gente che nei negozi fatica a stare dietro ai prezzi
dei prodotti alimentari.
La Turchia di Erdogan, consolidato nel suo
potere dalle elezioni di fine giugno, torna a guardare l’abisso della
crisi. Voci di restrizioni ai movimenti di capitali, e soprattutto di un
possibile intervento del Fondo monetario internazionale aumentano la
paura.
Da mesi la situazione si trascina, con investimenti stranieri
in sofferenza per gli imbarazzi crescenti a trattare con Erdogan, e il
turismo per troppi anni privo di presenze occidentali davanti ai timori
per il terrorismo (solo la stagione in corso sta andando meglio). «Non
c’è alcun dubbio che oggi è l’economia il problema principale della
Turchia», scrivono i giornali. E allora occorre ricordare che proprio
per arginare possibili accuse il leader aveva deciso di convocare
elezioni anticipate a giugno, ben sapendo che nel 2019 la crisi
finanziaria l’avrebbe trascinato verso una possibile sconfitta.
Scommessa
vinta, così come il voto — il Sultano ha un invidiabile fiuto politico —
ma la patata bollente dell’economia è tutta da risolvere.
Le aziende
lamentano un’esposizione di 337 miliardi, 217,3 al netto degli attivi.
La Banca centrale è costretta ad aumentare le disponibilità di liquidità
in dollari per 2,2 miliardi, cercando di togliere pressione alla lira e
dare ossigeno alle aziende nel trovare finanziamenti. Erdogan tenta di
correre ai ripari, e vara “un piano dei 100 giorni” in 400 punti, il cui
focus è concentrato sulla crisi. «La Turchia sta fronteggiando una
guerra economica. Ma non siate preoccupati, la vinceremo come abbiamo
fatto nel passato», spiega. Gelando poi tutti quando aggiunge:
«Convertite i vostri risparmi di valuta straniera e il vostro oro in
lire turche». Appello accolto nello scetticismo.
Pesano le sue
scelte, e il suo imporsi in un ambiente che non è quello del contesto
strettamente politico di cui è principe assoluto.
La sua ostinazione nell’opporsi all’aumento dei tassi di interesse.
Pesano
le decisioni politiche interne, con la costruzione di edifici colossali
miranti a consolidare il suo potere, ma di difficile sostentamento.
Pesano soprattutto i troppi fronti aperti di una politica estera che ha
finito per allontanare i partner occidentali, aprendo a russi, arabi e
africani, ma intimorendo gli alleati della Nato.
Molta diffidenza ha
suscitato poi la promozione di suo genero, sposo della figlia velata
Esra, a ministro di Finanze e Tesoro, a numero tre del governo dopo sé
stesso e il ministro degli Esteri. Il giovane Berat Albayrak mostra
fiducia: «Disciplineremo l’inflazione e la ridurremo nel 2019 dal 15%
attuale a una sola cifra». Inshallah. Se Dio vuole. Il turco della
strada, o meglio il cittadino anatolico, prototipo dell’elettore di
Erdogan, lo spera.
Come scriveva ieri su Hurriyet l’editorialista
Erdal Saglam: «Siamo diventati un Paese dove la prima cosa che la gente
fa al mattino, quando si sveglia, è controllare il tasso di cambio delle
valute. Persino in vacanza».
il manifesto 9.8.18
ExtraTerrestre
A Firenze le piante si emozionano
Arte.
Palazzo Strozzi una mostra dell’artista tedesco Carsten Höller, con il
neurobiologo Stefano Mancuso, mette in relazione i visitatori con i
vegetali. Che provano gioia o paura. È The Florence Experiment
di Luca Aterini
Le
piante respirano senza polmoni, si nutrono senza bocca, digeriscono
senza stomaco: sono così lontane da noi animali da apparirci come
qualcosa di radicalmente diverso, con cui sarebbe impossibile intessere
un rapporto. Forse anche poco interessante: da Aristotele in poi siamo
abituati a collocare il mondo vegetale in una posizione di subalternità
rispetto a quello animale. Eppure le piante vivono con successo sulla
terraferma da ben 520 milioni di anni, ovvero da molto più tempo di noi,
e forse è arrivato il momento di osservarle sotto una luce diversa: è
questa la proposta sottesa a The Florence Experiment, un avveniristico
progetto italo-tedesco che unisce arte e scienza studiando l’interazione
tra piante ed esseri umani, di cui sono stati appena resi noti i primi
risultati.
RISULTATI CHE ARRIVANO da uno dei più importanti edifici
rinascimentali di Firenze, Palazzo Strozzi: qui fino al 26 agosto avrà
sede una mostra-esperimento realizzata dal celebre artista tedesco
Carsten Höller – un ex ricercatore di entomologia con un dottorato in
fitopatologia – insieme a Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio
internazionale di neurobiologia vegetale (Linv) dell’Ateneo fiorentino.
Finora
oltre 40 mila persone hanno partecipato direttamente al progetto,
composto di due parti: nella prima i visitatori sono chiamati a
intraprendere una discesa di 20 metri di altezza dal loggiato del
secondo piano al cortile rinascimentale – utilizzando due grandi scivoli
appositamente installati da Höller – portando con sé una pianta di
fagiolo per consegnarla poi a un team di scienziati, chiamato ad
analizzarne i parametri fotosintetici e le molecole emesse come reazione
alla discesa. La seconda parte dell’esperimento ha luogo invece negli
spazi della Strozzina, dove sono allestite due speciali sale
cinematografiche: in una sono proiettate scene di film horror,
nell’altra spezzoni di film comici. La paura o il divertimento dei
visitatori producono composti chimici volatili differenti che,
attraverso due condotti di aspirazione, sono trasportati sulla facciata
di Palazzo Strozzi, influenzando la crescita di piante di glicine
rampicanti disposte su grandi strutture tubolari.
I DATI FINORA
RACCOLTI mostrano che le piante coinvolte nell’esperimento non rimangono
indifferenti all’esperimento, tutt’altro: «I risultati paiono
confermare l’interazione tra uomini e piante, proprio nella direzione
del messaggio ecologico di comunione tra mondo umano e mondo vegetale
che The Florence Experiment voleva portare», annuncia il curatore del
progetto e direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino.
SONO
TRE I PRINCIPALI FATTORI emersi dall’interazione tra uomo e piante. Il
primo: tutte le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa sullo
scivolo, con o senza la presenza dell’uomo, presentano un livello
fotosintetico alterato rispetto alle piante cosiddette di controllo,
ovvero quegli esemplari che sono stati lasciati in laboratorio in un
ambiente e in condizioni ottimali per la loro crescita; in particolare,
le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa sullo scivolo con
la presenza dell’uomo presentano la più bassa fotosintesi rispetto a
quelle che hanno fatto l’esperienza in solitaria.
Il secondo: in
assenza dell’uomo si è accertato un aumento significativo dell’emissione
da parte delle piante di fagiolo di alcuni composti volatili, rispetto
agli esemplari che hanno effettuato la discesa con la presenza
dell’uomo.
Il terzo: la crescita di ognuna delle otto piante di
glicine posizionate sulla facciata di Palazzo Strozzi risulta
influenzata dalla paura o dalla gioia dei visitatori presenti nelle due
speciali sale cinematografiche allestite negli spazi della Strozzina, e
la direzione dominante del glicine è stata quella della gioia per cinque
piante, mentre le rimanenti tre hanno scelto la direzione della paura.
«In
conclusione, sembra confermato l’effetto che la presenza dell’uomo ha
sulle piante – spiega Mancuso – la riduzione della fotosintesi e
dell’emissione di composti volatili in presenza dell’uomo sono
statisticamente significative, e denotano il fatto che le piante ci
percepiscano».
IN ATTESA DI ESSERE VERIFICATI con ulteriori dati
sperimentali – in primis da quelli che verranno elaborati alla
conclusione di The Florence Experiment – questi risultati già
suggeriscono un dirompente cambio di paradigma. Le piante si sono
evolute per sopravvivere rimanendo ferme, ed è per questo che tutte le
funzioni che negli animali sono concentrate all’interno di organi
specializzati – polmoni, bocca, stomaco, cervello, etc – nelle piante
sono diffuse nell’intero corpo; gli organi singoli o doppi sono dei
punti deboli, che un essere vivente non in grado di muoversi per
sfuggire a predatori e pericoli non può permettersi di avere, se vuole
sopravvivere. Eppure, pur non avendo neanche un cervello, le piante
mostrano sia una certa intelligenza – intesa come l’abilità di risolvere
problemi – sia possibilità di percezione, il che apre a una domanda di
enorme portata: le piante sono esseri che integrano informazione, dotati
di coscienza?
Esplorando quest’interrogativo, The Florence
Experiment propone una riflessione moderna sul concetto di ecologia,
mirando a creare una nuova consapevolezza di come gli esseri umani
conoscono e interagiscono con gli altri esseri viventi. Un lavoro che,
se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe aiutarci a capire non
solo la vita delle piante, ma anche la nostra.
Il Fatto 9.8.18
Michele Serra, il maschilismo non ha partito
di Silvia Truzzi
Dovendo
aver da ridere con un Serra, preferiremmo sempre si trattasse del
finanziere Davide. Stavolta ci è andata male perché dovremo qui
contestare alcune affermazioni di Michele, che tanti sorrisi di
ammirazione ci ha strappato nella sua carriera. La premessa: ieri su
Repubblica Serra ha scritto una pagina contro “il sovranismo di genere”,
ultima frontiera del rigurgito reazionario che scuote il mondo: “Il
nuovo potere si vendica delle donne”. Lo spunto è un’immagine degli
attivisti argentini di “Pro Vida” che manifestano contro l’aborto (dei
quali noi pensiamo tutto il male possibile, sottoscrivendo le sacrosante
parole che Serra dedica all’interruzione di gravidanza in relazione
all’autodeterminazione delle donne). “Potrebbero benissimo essere, al
primo sguardo”, aggiunge, “manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci
in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante
curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei.
Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore
e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da
supporter, mai, comunque, da leader”. In “Europa abbiamo imparato a
chiamarli sovranisti”: e qui abbiamo una prima obiezione,
costituzionale. La nostra Carta è così “sovranista” che mette la
sovranità al primo articolo, affermando che appartiene al popolo. Popolo
e sovranità che sono stati trasformati nel lessico comune – nel lessico
della sinistra, purtroppo – in termini spregiativi, “populismo” e
“sovranismo”.
C’è poi la questione etnica, il “maschio bianco”. Una
riflessione che ha senso negli Stati Uniti, assai meno in stati come
Polonia, Austria, Ungheria o Italia: semplicemente perché si tratta di
Nazioni in cui l’immigrazione è più recente e numericamente meno
significativa rispetto agli Usa.
E, ultima ma non ultima, la
politica: non sono solo la crisi economica e della democrazia ad
alimentare le nuove destre. Ma anche, dice Serra, un neo maschilismo che
si vede nel “trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i
nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a
Orbán e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra…)
negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana”. Ora, a
non voler essere pignoli citando le signore Marine Le Pen in Francia e
Alice Weidel di Afd in Germania, ci tocca dire che una parentesi non
basta a raccontare che il problema della rappresentanza femminile è
assolutamente trasversale.
Non si spiegherebbe altrimenti la rivolta
delle donne di quel che resta del Pd (Towanda!) all’indomani delle
elezioni. O lo scivolone dell’Espresso, di cui il direttore s’è
diffusamente scusato, nel test dell’estate. La domanda era: “Idee
politiche a parte, fareste sesso con…” seguivano le foto di quattro
politici maschi (Macron, Fico, Giorgetti e Casaleggio) e quattro
politiche donne (Le Pen, Appendino, Santanchè, Bongiorno). Per gli
uomini le motivazioni erano “perché sa come si fa, perché è poliedrico,
perché è indecifrabile”. Per le donne: “per zittirla, per svegliarla” e
perfino “per sculacciarla” (davvero). Il che suggerisce un’idea di
passività e sottomissione (o, al contrario, di dominio) che poco
s’accorda col femminismo che a sinistra va per la maggiore.
Il fatto è
che la discriminazione di genere non ha colore ed è diffusissima a vari
livelli della società: si vedano i dati su gender gap salariale,
rappresentanza politica, disoccupazione; o si veda, per stare ai media,
la mappatura delle prime pagine dei giornali che va facendo Michela
Murgia. A malinCuore ricorderemo ciò che sostiene ne Il caso Joseph
Conrad: “Esser donna è terribilmente difficile perché consiste
soprattutto nell’aver a che fare con gli uomini”.
Il Fatto 8.8.18
La fratellanza degli hacker. Occhio all’apocalisse digitale
Si confrontano i senza identità - Black hat
La fratellanza degli hacker. Occhio all’apocalisse digitale
di Michela A. G. Iaccarino
Se
sei un hacker, adesso sei tra deserto e casinò. “Pronto, qui parla il
passato”. Sono ancora le 2 di notte al fuso di Las Vegas. Fuori dalla
finestra del suo albergo si vedono “altri alberghi”. Lui è uno di quelli
che da bambini rompevano i giochi solo “per vedere come funzionano”. In
città “l’aria è piena di pericoli, le hall degli hotel gravide di
nerd”. Questa settimana migliaia di hacker come lui sono in giro per le
strade. Nel deserto del Nevada è scoppiata come ogni anno “l’apocalisse
digitale”.
È iniziato il Black Hat, il raduno di hacker – di tutte le
età, nazionalità, categorie, – più grande del mondo, fondato da Jeff
Moss negli anni 90, l’esperto di sicurezza noto come Tangente Nera. Ci
sono network, aziende, agenzie di sicurezza in giro, servizi segreti
compresi. È Black hat “perché in gergo si dice che ogni hacker indossi
un cappello: può essere nero, se usi le tue conoscenze per attaccare,
trovare il bug, bucare il sistema, bianco se le usi per difendere”.
Tertium datur: ci sono i cappelli grigi. Comunque la regola vuole che
“dove c’è un buco, prima o poi arriva un hacker”.
Nella città dove
tutto luccica, sul badge d’ingresso puoi scrivere “il nome che vuoi,
tanto qui tutti sanno che puoi falsificare tutto, documenti compresi,
falsificare è alla base della nostra attitudine, l’hanno fatto tutti
almeno una volta nella vita.”. “Il miglior hacker è quello che non sai
nemmeno che esiste”. Fisiologia nerd: nessun nome, la prudenza è quella
tradizionale della categoria, una paranoia, che “aiuta alla
sopravvivenza”.
Finisci a Las Vegas perché hai cominciato craccando
videogiochi falsi da bambino. Sotto il cappello nero, da adolescente,
hai sognato di cambiare il mondo. Ma “la verità ha un prezzo, la
curiosità ne ha un altro. Se li sommi, sono altissimi”. E allora cresci,
indossi il cappello bianco: finisci per lavorare per un’agenzia di
sicurezza americana sulla spiaggia di una città d’Europa. Diventi un
esperto per quelle aziende che vogliono essere difese da quelli che ti
assomigliavano una volta. Non rimpiangi il tuo Paese, che non ti ha mai
proposto quello stipendio e quella carriera: l’Italia.
Dentro le mura
del Mandala Bay hotel adesso si vedono “orde di nerd al pascolo verso
convention, suoni metallici post apocalittici. E paranoia nell’aria”.
Per cosa? “Per tutto. You know, hackers”. Tutto rimane nelle cassette di
sicurezza: ogni chip si può bucare, da quello del passaporto a quello
delle carte di credito. Tutti i cellulari sono in modalità aereo:
“questo è il luogo perfetto per testare i tuoi sistemi”.
È un gioco a
specchio di scambio di competenze, di chiavi e soluzioni digitali.
Seminari del Cappello Nero: come iniziare una cyberguerra. come
sbloccare gli iPhone senza controllo Apple, infosec, jailbreak, la Nord
Corea digitale. Malware reverse engineering, diciture di efficienza
ibrida, formule incomprensibili per i non addetti ai lavori. Talk che a
volte vengono annullati, “se le informazioni che stanno per essere rese
pubbliche, diventano pericolose”: ma “tutto è legale, finché è ricerca,
finché è teoria, non si può bloccare la conoscenza solo perché qualcuno
la può usare in maniera sbagliata. Non esiste legale e illegale, uso i
termini positivo e negativo, tutto dipende dalla tua coscienza”.
Fuori
dal Mandala Bay: pubblicità di prostitute che possono arrivare
direttamente nella tua stanza d’albergo a qualsiasi ora del giorno e
della notte, cattedrali di insegne tecnicolor, spogliarelliste e pixel.
Ogni promessa di inviolabilità totale di un sistema è come quella città
di lustrini e fuliggine: temporanea, evanescente. In quel pezzo
d’America costruito sui byte, miliardi di dati gestiti da sistemi
elettronici, tutto può andare in tilt, parcometri compresi, quando loro
sono in città e tutti sono in allerta. “Don’t fuck with casino è la
regola, con le slot, perché quelli della sicurezza sparano”. Poi
comincia la notte dove le luci cancellano il buio e assomiglia poco
all’universo nerd che tutti immaginano. Ci sono i dollari. Il resto è
laser e afterparty, che all’alba evaporano in nubi di malawere.
La Stampa 9.8.18
Cent’anni fa il Vate volava su Vienna
Lanciando volantini sulla capitale nemica dimostrava le capacità ignorate dell’aviazione
di Gianni Riotta
Il
9 agosto del 1918 il maggiore Gabriele d’Annunzio volava, con la sua
squadriglia aerea 87, Serenissima, sulla capitale nemica Vienna, non per
bombardarla, ma per lanciare volantini inneggianti all’Italia. Due mesi
prima, il 4 giugno, il colonnello Giulio Douhet, che di D’Annunzio era
amico e con lui condivideva la fede nell’aviazione, lasciava l’esercito,
sdegnato per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere la guerra
aerea, che gli era costata perfino una condanna al carcere militare.
Il
maggiore poeta D’Annunzio e il colonnello stratega Dohuet, l’autore de
Il piacere, 1889, e il futuro autore del manuale militare di aviazione,
Il dominio dell’aria, 1921, avevano redatto, terzo firmatario l’ingegner
Gianni Caproni, un memorandum per il generale Carlo Porro, datato 3
luglio 1917. Chiedevano ai burocrati, come il vetusto generale Cadorna,
di fondare un’aviazione indipendente, per ottenere «il dominio
dell’aria».
Pionieri
Né il «Vate», come i fedelissimi appellavano
D’Annunzio, né Douhet vengono ascoltati, ma non mollano. E D’Annunzio,
malgrado l’incidente del gennaio ’16, che l’ha reso guercio, decide che
se l’aviazione non può vincere la guerra con i bombardamenti strategici
prescritti da Douhet, almeno potrà servire a un’audace azione di
propaganda. Sorvolare l’orgogliosa Vienna, non per seminare bombe, ma,
con «sprezzatura» cara agli Arditi, volantini con messaggi di resa per
gli austriaci. D’Annunzio amava il volo da quando aveva visto uno dei
primi show aerei a Brescia, nel 1909, tra gli spettatori anche lo
scrittore Franz Kafka, e per aver volato col pioniere Wilbur Wright. Il
suo innato senso di comunicazione estetica, lo porta subito a due raid
con volantini, agosto e settembre 1915, su Trento e Trieste in mano agli
austriaci.
Il poeta malvisto
Se un’idea lo anima diventa slogan,
stavolta «Donec ad metam: Vienna!», lo stato maggiore non può sbatterlo
in carcere con Douhet, ma lo considera uno scocciatore, e quando concede
il permesso per il raid, lo fa senza entusiasmo. Ricorda lo scrittore
Giordano Bruno Guerri, biografo di D’Annunzio e presidente del
Vittoriale, casa-museo del poeta: «ll Comando Supremo glielo impedì,
nonostante i mille chilometri percorsi in una sorvolata dimostrativa
sulle Alpi per esibire la propria resistenza alla fatica. Temevano un
fallimento, o addirittura la prigionia o la morte del poeta-soldato.
Dopo le sue insistenze, il Comando Supremo e il Governo decisero di
autorizzarlo all’impresa, di un’audacia mai tentata prima».
La
clausola è però ferrea, se maltempo, caccia nemici o guasti, avessero
indebolito la squadriglia di undici Ansaldo Sva (sigla dei progettisti
Savoja, Verduzio, Ansaldo), il raid sarebbe stato cancellato.
D’Annunzio, sempre «d’annunziano», fa giurare invece ai piloti di andare
avanti a ogni costo. Il 2 agosto 1918 la squadriglia è fermata dalla
nebbia. L’8, dal vento. Gli equipaggi erano esposti a intemperie e gelo,
soli strumenti bussole e mappe, si volava a vista, accecati da una
nuvola.
Due volantini diversi
D’Annunzio ha a bordo 50.000
volantini in italiano, sul sito Ebay se ne vende ancora qualcuno,
redatti da lui in prosa magniloquente: «In questo mattino d’agosto,
mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e
luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza... l’ala
tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si
volge. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non
siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza...Il rombo della giovane
ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo
mattutino...o Viennesi. Viva l’Italia! »
Con maggiore realismo
politico, il comando fa tradurre in tedesco un altro volantino, 350.000
copie, autore il critico Ugo Ojetti, che si conclude con un appello agli
alleati, «Viva l’Italia, viva l’Intesa!» e il 10 agosto, in un
dispaccio di prima pagina, il New York Times, cita proprio Ojetti, pur
elogiando l’impresa di D’Annunzio, «oltre 1600 chilometri percorsi, 800
su territorio nemico» https://goo.gl/RXLv8g . Il raid avrà echi
straordinari, la folla di Vienna ha visto i velivoli (parola coniata da
D’Annunzio) volteggiare a 800 metri, con il poeta che cerca il museo con
l’immagine di Santa Caterina d’Alessandria e ordina al copilota Natale
Palli di incrociare indietro. La Frankfurter Zeitung lamenterà che la
contraerea tedesca non abbia intercettato gli Ansaldo, l’Arbeiter
Zeitung accuserà di codardia gli intellettuali «Dove sono i nostri
D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di
presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile,
ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo
ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella
sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta
italiano...Anche tra noi si contano...quelli che allo scoppiar della
guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio
di fare l’aviatore!».
L’elogio del nemico è sempre il migliore. Ma
l’Italia, pioniera del volo nell’industria, nel disegno, nella
strategia, non darà seguito al raid di Vienna. D’Annunzio finirà, dopo
l’occupazione di Fiume, isolato, Douhet non avrà il tempo di completare
il progetto per una grande aviazione. E durante la Seconda guerra
mondiale le nostre città scopriranno, con dolore, la differenza tra
volantini poetici e bombe vere, tra poesia decadente e strategia
efficiente, tra bel gesto e industria di massa.
Repubblica 9.8.18
Padre Pio cent’anni di beatitudine
“Aspettando
un miracolo” è la serie estiva con cui Marino Niola racconta luoghi e
santi che la tradizione vuole legati a eventi miracolosi. A questi ci si
affida ancora, in un’epoca di crisi dei modelli razionali. Dopo San
Gennaro e lo scioglimento del sangue a Napoli, Sant’Antonio da Padova e
Santa Rita da Cascia, oggi è la volta di Padre Pio
di Marino Niola
Secondo
la tradizione, nel 1918 il frate di Pietrelcina riceveva le stimmate
Iniziava così la popolarità di un uomo diventato santo da vivo per
acclamazione dei devoti. Anche grazie alla potenza, non solo simbolica,
del suo corpo
Igrandi santi non amano fare miracoli, li fanno solo
perché gli forzano la mano, diceva Emil Cioran. Sembra il ritratto di
Padre Pio, che ha trascorso la vita miracolando i suoi devoti e al tempo
stesso mettendoli neghittosamente in guardia dal credere che dipendesse
da lui.
Eppure è stato il santo più pregato, idolatrato e
sovraesposto del Novecento. In presa diretta col popolo di Dio. Perché
ha sempre parlato alla pancia cattolica del Paese. Usando un linguaggio
schietto, vernacolare, ruvido, a volte urticante. Più da predicatore di
campagna che da teologo. Ma al tempo stesso oscuramente arcaico,
imbozzolato in quel saio marrone che a stento riusciva a contenere i
suoi lampi carismatici, a disciplinare le sue intemperanze liturgiche, a
smorzare le sue eccedenze profetiche. Che commuovevano le folle, perché
smentivano le pallide astrazioni della teologia, stracciavano i velluti
della prudenza curiale.
Le celebri stimmate, che impiagavano le sue
mani grosse da contadino sannita, facevano implodere il dogma e
mostravano nel linguaggio muto e incoercibile del corpo, che il Cristo
non si trova nelle parole disincarnate del Libro, ma nella sofferenza
dei poveri cristi. E proprio quelle ferite, ricevute esattamente cento
anni fa, diventarono subito il segno più plateale che una energia
speciale attraversava quel cappuccino con le mani bendate.
Un’aura
soprannaturale che per un verso lo ha trasformato in un santo vivo agli
occhi dei milioni di pellegrini che accorrevano al santuario di San
Giovanni Rotondo — dove è vissuto fino al 1968, anno della sua morte —
per poter vedere e toccare quelle segnature misteriose. Ma, dall’altro,
ne ha fatto una spina nel fianco della gerarchia ecclesiastica,
spiazzata da quella forza perturbante e debordante, da quello tsunami
sacrale, da quella potenza oracolare che venivano da lontano, come
un’onda di ritorno del tempo. E riportavano indietro le lancette della
storia verso un orizzonte premoderno, dove i santi erano i medici di
Dio, gli elemosinieri della grazia, i giustizieri del cielo, i funamboli
della carità, gli sciamani della misericordia.
Resuscitando un’idea
così antica, ma proprio per questo così popolare, di una santità incisa
soprattutto sul corpo. Che diventa un miracolo esso stesso. Un
palinsesto di meraviglie che smentisce le leggi della natura. E
sostituisce la fisica con la metafisica. Proprio come i grandi
taumaturghi della cristianità. Ma, prima ancora, come gli eroi, gli dèi e
gli sciamani delle grandi civiltà indoeuropee. La cui incandescenza
corporea diventava un indizio di ardore sacro, di fervore mistico, di
collera guerriera. In ogni caso si trattava di eroici furori. Come
quelli di Alessandro Magno, la cui temperatura infuocata era
direttamente proporzionale all’istinto bellicoso. E al suo odore
delizioso che, a detta di Plutarco, era degno dei migliori profumi
d’Arabia. O come i calori divini del mitico condottiero celtico
Cuchullain, che dopo ogni battaglia veniva gettato sfrigolante
nell’acqua gelida per temperarne il bollore.
Anche l’ipertermia di
Padre Pio apparteneva di diritto a questo catalogo di anime ferventi e
di corpi ardenti. E le voci misteriose sulle sue febbri che sforavano i
quarantotto gradi, alimentavano l’aura soprannaturale di quelle caldane
fuori scala che mandavano in tilt i termometri.
E questo superamento
delle possibilità umane, era già di per sé un indizio miracoloso. Che al
calore associa spesso un profumo altrettanto soprannaturale, proprio
come nel caso dell’imperatore macedone, dei mistici orientali e di molti
celebri santi del passato. È quel che comunemente si chiama odore di
santità. Un’espressione nata dal fatto che dopo la morte, questi esseri
fuori dalla norma, questi cadaveri eccellenti, emanerebbero un aroma
soavissimo. E San Pio di odore di santità ne aveva e ne ha tuttora da
vendere! Molti dei fedeli miracolati da lui, infatti, affermano di
averne avvertito la presenza proprio dal profumo avvolgente di fiori,
violette, gelsomini, rose, mughetti, che riempiva l’aria al momento
della grazia.
Ma i superpoteri del frate di Pietrelcina non si
fermano qui. Ad arricchirne il book miracolistico c’è anche la
bilocazione. La capacità di essere insieme da una parte e dall’altra.
Esattamente come i berserker, i guerrieri scandinavi sacri a Wotan, il
dio del furore e della profezia, che potevano andare in combattimento
mentre il loro corpo dormiva sonni tranquilli nella tenda.
E adesso
la bilocazione del frate si è trasformata in ubiquità, da quando la sua
statua, acquistabile anche su Amazon ed eBay, punteggia come un feticcio
i giardinetti di tutte le periferie del Belpaese. Simbolo di una
urbanistica fai da te, che reinventa spazi comunitari e li sacralizza a
modo suo, bypassando sia l’autorità amministrativa sia quella religiosa.
Ultimo totem di un movimentismo devoto, dove uno vale uno. E di una
religione liberista come quella dei fedeli di Atlantic City in New
Jersey, che hanno costruito una chiesa monumentale, dove ogni settimana
si espone un frammento di un guanto del santo, si enumerano i suoi
continui miracoli, mentre all’esterno gli smartphone catturano angeli di
luce tra gli alberi.
A Pio viene attribuito anche il dono della
cardiognosi, la capacità, ai confini della telepatia, di leggere nel
cuore e nell’animo delle persone che andavano a confessarsi da lui. E
venivano puntualmente infilate in contropiede dall’uomo di Dio che gli
spiattellava in anticipo i loro peccati. Non è un caso che molti
pranoterapeuti e altri guaritori gli siano particolarmente devoti e gli
attribuiscano spesso la rivelazione e in un certo qual modo la
legittimazione dei loro poteri.
Sono proprio questi tratti da
sciamano carismatico a spiegare la straordinaria popolarità di questa
star della santità, canonizzata prima a furor di popolo e infine elevata
da Wojtyla alla gloria degli altari nel 2002.
Grazie soprattutto
alle sue guarigioni miracolose, ma anche a quella sorta di miracoli
quotidiani compiuti nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, che
lui stesso ha fondato a San Giovanni Rotondo nel 1956. Oggi è
un’eccellenza della sanità meridionale, che lega taumaturgia e scienza,
natura e soprannatura.
Coniugando al presente una concezione della
religione come servizio pubblico, come assistenza agli ultimi, come
consolazione dei sofferenti. E della ricerca medica come continuazione
della provvidenza con altri mezzi.
- 4. Continua