giovedì 9 agosto 2018

il manifesto 9.8.18
La crescente emigrazione che riguarda gli europei
«Quelli che se ne vanno», un saggio del sociologo Enrico Pugliese. Per l’Istat, fra il 2012 e il 2016 sono arrivati in Germania 60.700 italiani
di Luciana Castellina

Si sussurra, qualche giornalista ogni tanto vi accenna, e però mentre tutti parlano, nel male soprattutto, degli immigrati, nessuno prende davvero sul serio il problema che pure è ormai diventato un grosso e drammatico problema politico: i nuovi emigranti italiani. Certo non hanno più la valigia di cartone e non arrivano sperduti e carichi di pacchi alle stazioni del nord come li abbiamo visti in tanti strazianti bellissimi film neorealisti. Non somigliano a quelli dipinti da Carlo Levi riprodotti nel manifesto per il congresso del 1967 della storica Filef (l’organizzazione para sindacale che si occupava di loro). Ora sembrano ragazzi dell’Erasmus, la felice tribù dei millennials, beneficiari di uno dei rari regali dell’Unione Europea che consente di girare il mondo per conoscere altre università e culture. No, non sono la moderna entusiasmante circolazione delle nuove élites cosmopolite : sono giovani italiani costretti, come i loro bisnonni, ad andarsene dal proprio paese per trovare un’occupazione, quale che sia.
GLI STRANIERI europei se vengono in Italia non è per cercare lavoro, è per vacanza. Finalmente Enrico Pugliese, che è forse il sociologo che più si è occupato in Italia di migrazioni, ci ha offerto sul problema un libro che sarebbe bene leggessero tutti: Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana (Il Mulino, pp. 160, euro 14). Ora che l’ho letto, e conosco una quantità di dati fondamentali, comincio a capire.
Quanti sono? Difficile da calcolare, perché all’Aire, che è l’organismo consolare cui debbono iscriversi gli italiani residenti all’estero, in molti nemmeno ci vanno: il lavoro che hanno trovato è così precario che a un cambio di residenza nemmeno ci pensano, si tengono quella della loro città di provenienza. Così quelli che sono ufficialmente registrati come partenti sono molti di meno di quelli che risultano arrivati. Fra il 2012 e il 2016, per esempio, secondo l’Istat hanno lasciato l’Italia per la Germania 60.700 persone, secondo l’ufficio statistico tedesco ne sono arrivati 274mila. Idem per l’Inghilterra: negli ultimi due anni sarebbero 39mila per l’ufficio italiano, 158mila per quello britannico.
Bisogna poi calcolare una quota difficilmente decifrabile ma in crescita: quella dei cosiddetti «sun migrants»: i pensionati che decidono di passare gli ultimi anni della loro vita in qualche paesino del sud portoghese o spagnolo perché in Italia non ce la fanno a sopravvivere.
DA DOVE VENGONO? Anche qui una differenza, ma solo apparente: la maggioranza dalla Lombardia, e però poi si va a guardare e si scopre che sono quasi tutti calabresi o siciliani. La regione più ricca d’Italia è stata, per loro, solo un primo passaggio, un tentativo, fra una precarietà e l’altra.
Chi sono? Una grande novità, anche questa dovuta al femminismo: il 45% sono donne che partono da sole. Sia loro che i maschi sono giovani fra i 18 e i 35 anni. Non è vero che sono tutti cervelli in fuga, fuggono anche braccia: sebbene nessuno sembra averli avvistati, la maggioranza sono ancora operai. Per lo più «esuberi» delle fabbriche in crisi o delocalizzate. I laureati sono comunque tanti: solo il 30%, che però è molto visto che in Italia di laureati ce ne sono meno che in Grecia e Spagna.
Cosa vanno a fare e dove? Vanno quasi tutti in Germania e in Inghilterra (e ora con la Brexit sarà un bel guaio). Lì finiscono per lo più nella logistica, ristorazione, alberghi, servizi di pulizia. Tutto lavoro precario, naturalmente. Ma regolato. In Inghilterra il contratto si chiama «a zero ore», che vuol dire che tu puoi lavorare ( ed essere pagato) per due ore al giorno o per 10, dipende dalle esigenze dell’impresa. E però l’ora è pagata circa 15 euro, in Italia, in Puglia, non si arriva ai 3. Pugliese ci dice che siamo difronte a una crescente, già enorme sfera di precariato internazionale, composta dai giovani del sud e dell’est Europa, cui si mischiano quelli che vengono dagli altri continenti e che però transitano nei nostri paesi, di cui alcuni sono diventati cittadini, altri non hanno più patria. Non è proletariato in senso proprio, perché questo termine è associato a stabilità e anche ad azioni rivendicative collettive.
IL PRECARIO è invece abituato all’instabilità, è un individuo e tale si sente, è privo di cultura sindacale, anche perché sia nei paesi di origine che in quelli d’arrivo le grandi e pur ancora potenti confederazioni del lavoro oggi degli emigrati si interessano poco. In comune hanno solo che sia gli stabili che i non sono il bersagio di una identica politica finalizzata, ovunque, alla crescente flessibiizzazione del lavoro.
Di questa nuova emigrazione nessuno si interessa. Niente a che vedere con quando, negli anni ‘50 e ancora ’60, andavamo alle stazioni di transito dei treni speciali a incontrare, con cibo bevande e bandiere rosse, i nostri emigrati di ritorno per votare. «Tornare per votare, votare per tornare» era lo slogan, che non ebbe esiti: tornarono solo un po’ di vecchi a morire nel paese natale, figli e nipoti sono ormai tedeschi svizzeri belgi. Erano quasi tutti meridionali, allora.
Anche quelli di oggi, a maggioranza. Ma l’emigrazione attuale è per il sud assai peggio di quanto fu allora, quando, con le rimesse, molti contadini riuscirono a uscire dalla miseria. Oggi – ci avverte Pugliese – si sta producendo un nuovo dualismo nord-sud. Perché al nord la popolazione cresce nel mezzogiorno manca all’appello quasi mezzo milione di giovani, di cui 312mila laureati. All’epoca delle grandi migrazioni meridionali il Sud veniva considerato sovrappopolato, oggi non è più vero.
NON SOLO: l’abbandono dei giovani ha prodotto una ferita demografica così profonda che ha inciso sulla stessa struttura economica di quelle regioni dove vive ormai una popolazione vecchia e sempre più dipendente e dove sempre meno sono le possibilità di una ripresa.
A casa, al sud, visto questo contesto, non torna ormai più quasi nessuno, non solo i lavoratori emigrati, ma quasi nemmeno più gli studenti che vanno a studiare nelle università del centronord. Un vulcano che forse non si colmerà mai più.

il manifesto 9.8.18
Amnesty: «Italia e Malta colluse con la Libia»
Migranti. «Vite umane usate per contrattare»
di Marina Della Croce


Non è vero che tenendo i migranti bloccati in Libia e impedendogli di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Italia gli si salva la vita. Così come non è vero che al calo degli arrivi nel nostro paese corrisponde una diminuzione delle tragedie in mare. Anzi, è vero proprio il contrario. Tra giugno e luglio del 2018, cioè nei due mesi appena trascorsi, sono stati ben 721 i rifugiati e i migranti che hanno perso la vita nel Mediterraneo centrale dopo essersi imbarcati in Libia, 1 ogni 16 rispetto all’1 ogni 64 registrato nei primi cinque mesi dell’anno, vale a dire prima che le politiche ulteriormente restrittive del nuovo governo giallo verde entrassero in vigore.
A denunciare quanto davvero accade quotidianamente nel tratto di mare tra Libia e Italia è Amnesty international in un rapporto intitolato «Tra i diavolo e il mare blu profondo. L’Europa viene meno ai rifugiati e ai migranti nel Mediterraneo centrale», 27 pagine in cui l’ong accusa Italia, Malta e la stessa Unione europea di complicità con i libici per le continue violazioni dei diritti umani perpetrate a danno dei migranti nel paese nordafricano. Ma nelle quali si spiega anche come continuare rifornire di mezzi la Guardia costiera libica (il decreto che autorizza la fornitura di altre 12 motovedette a Tripoli è stato approvato solo tre giorni fa dal parlamento) serva solo a far aumentare il numero di reclusi nei centri di detenzione libici, donne e bambini compresi. «Nonostante il calo del numero di persone che tentano di attraversare il Mediterraneo negli ultimi mesi, il numero dei morti è aumentato», spiega Matteo de Bellis. ricercatore su asilo e migrazione per Amnesty. «La responsabilità per il crescente numero di vittime è riconducibile ai governi europei che sono più preoccupati di tenere le persone lontane che a salvare vite umane».
Sono anni che si conoscono le condizioni disumane in cui i migranti vengono tenuti prigionieri nei centri libici, anche quelli gestiti da Tripoli e non solo dai trafficanti. Al punto che dopo il vertice tra Unione europea e unione africana che si è tenuto nel novembre scorso in Costa d’Avorio, si è deciso di avviare un lavoro di svuotamento – seppure lento – dei campi con il contributo dell’Unhcr e dell’Oim e il trasferimento in Niger delle persone che vi sono rinchiuse.
Centri di detenzione, denuncia adesso Amnesty, che si stanno di nuovo riempiendo proprio per le operazioni di contrasto della Guardia costiera libica, tanto che negli ultimi mesi il numero dei detenuti è più che raddoppiato, passando dalle 4.400 persone di marzo (nei centri governativi) alle oltre 10.000 della fine di luglio, tra le quali circa 2.000 sono donne e bambini. «Praticamente tutti sono stati portati nei centri dopo essere stati intercettati in mare e riportati in Libia dalla Guardia costiera libica, che è equipaggiata, addestrata e supportata dai governi europei», accusa il rapporto. U concetto reso ancora più esplicito da de Bellis: «Le politiche europee hanno autorizzato la Guardia costiera libica a intercettare le persone in mare, tolto la priorità ai salvataggi e ostacolato il lavoro vitale delle Ong – spiega il ricercatore -. Il recente aumento delle morti in mare non è solo una tragedia: è una vergogna».
A peggiorare la situazione c’è l’incapacità dimostrata dalla Ue di arrivare a una modifica del regolamento di Dublino che eliminasse il principio del paese di primo sbarco, permettendo una distribuzione dei richiedenti asilo tra gli Stati membri. «In risposta a ciò – prosegue de Bellis – l’Italia ha cominciato a negare l’ingresso nei suoi porti alle navi che trasportavano persone salvate», divieto rivolto no solo alle navi delle ong, ma anche a quelle mercantili e perfino a quelle militari straniere, costringendo così persone spesso già fortemente traumatizzate a prolungare la loro permanenza in mare. «nel suo insensibile rifiuto di permettere ai rifugiati e ai migranti di sbarcare nei suoi porti, l’Italia sta usando vite umane come merce di contrattazione – conclude de Bellis -. Inoltre le autorità italiane e maltesi hanno denigrato, intimidito e criminalizzato le ong che cercando di salvare vite in mare, rifiutando alle loro barche il permesso di sbarcare e le ha anche confiscate».
Il rapporto si chiude chiedendo agli stati e alle istituzioni europee di riprendere le operazioni di salvataggio nel Mediterraneo assicurando «che i soccorsi siano sbarcati tempestivamente in paesi in cui non saranno esposti a gravi abusi e dove possono chiedere asilo».
«Il ministro dell’Interno Salvini non può continuare a far finta di niente, autoincensandosi – ha commentato l’esponente di Possibile -: il suo operato disumano sta facendo aumentare il numero di persone morte in mare. Tutte le storielle che racconta su business dell’immigrazione si stanno rivelando per quello che sono: fandonie e propaganda sulla pelle degli ultimi».

il manifesto 9.8.18
Quei musi neri di Marcinelle
Anniversari. L’8 agosto del 1956 la strage di minatori fece scoprire le terribili condizioni di vita dei lavoratori italiani in Belgio. Ma un giornale di sinistra scriveva: «Vogliono vivere così»
di Angelo Mastrandrea

Stretti l’uno all’altro in gabbie che non raggiungono il metro e mezzo d’altezza. Come polli in batteria, con l’immancabile caschetto sulla testa e le tute di lavoro annerite, pronti a inabissarsi fino ai 945 metri dove spaleranno carbone in cunicoli non più alti di 50 centimetri e dove, alle 8,10 di mattina dell’8 agosto 1956, una scintilla elettrica scatenerà un incendio e la morte di 262 persone di undici nazionalità diverse, 138 delle quali italiane, la metà di questi abruzzesi e, tra questi ultimi, una quarantina provenienti dal piccolo comune di Manoppello, nel pescarese. È forse questa l’immagine più emblematica dei «musi neri» di Marcinelle, oggi esposta nell’ex miniera trasformata in museo e dichiarata Patrimonio mondiale dell’umanità.
LA STRAGE AL BOIS DU CAZIERS, com’era chiamata la miniera sulle colline sopra la città di Charleroi, nel sud del Belgio, fece scoprire agli italiani fino a che punto decine di migliaia di nostri concittadini nel paese nordeuropeo fossero sfruttati sul lavoro. Il Corriere della Sera il giorno dopo titolò «Tragedia nostra» un commento affidato a Dino Buzzati, che scrisse: «Bois du Cazier, questo lontano posto che non si era mai sentito nominare, diventa Italia».
Ruben Tedeschi, l’inviato dell’Unità, dettò a braccio le seguenti parole: «Uno spettacolo pauroso si è presentato ai nostri occhi quando siamo giunti davanti ai cancelli della miniera. Il fumo – un fumo denso, nero, acre – oscurava il cielo e rendeva l’aria irrespirabile. Dal cielo buio cadeva una pioggia silenziosa di fuliggine. Di tratto in tratto, l’oscurità era lacerata da lingue di fuoco che guizzavano ruggendo dalle miniere della terra. Una folla composta in massima parte di donne e di bambini, a stento trattenuta da cordoni di gendarmi, faceva ressa per avere notizie, si accalcava intorno ai membri delle squadre di soccorso che, dopo ore e ore di durissimo lavoro, tornavano alla superficie. Le informazioni che costoro recavano non erano rassicuranti, e, nella loro inevitabile contraddittorietà contribuivano ad alimentare l’incertezza e la confusione. Dalla folla si levavano lamenti, invocazioni e invettive: invettive contro il destino, ma anche contro coloro che portavano la pesante responsabilità della sciagura. Erano frasi gridate in molte lingue: in francese, in fiammingo, in greco, ma soprattutto in italiano, perché italiani sono in massima parte i sepolti vivi e italiani i loro figli e le loro mogli».
IL GOVERNO ITALIANO fu costretto, sull’onda dell’emozione pubblica e delle polemiche causate dall’incidente, ad aprire gli occhi e sospese l’accordo siglato nel 1946 con il Belgio, che prevedeva duecento chilogrammi al giorno di carbone per ogni lavoratore, per duemila operai sotto i 35 anni a settimana, sottoposti a visita medica preliminare e controllo politico – se «sovversivi» sarebbero stati rimpatriati – fino a un massimo di 50 mila.
NON ALTRETTANTO ACCADDE nel paese diviso tra fiamminghi e valloni e che oggi ospita la capitale d’Europa. All’indomani della strage, Le peuple, un quotidiano di ispirazione socialista e vicino al sindacato, scrisse: «Se avesse voluto (il lavoratore italiano, ndr), forse avrebbe trovato, ai margini delle tetre periferie industriali, una casetta e un giardino. Ma lo spostamento gli sarebbe costato e vuole risparmiare molto per restare il minor tempo possibile in Belgio. E poi si sarebbe trovato solo, in mezzo a stranieri, mentre a lui piace sentire cantare nella sua lingua, mangiare le specialità della sua cucina e sfogarsi tra i suoi». Per questo, concludeva, «accetta di vivere ai piedi dei terreni di scarico, dietro alle mura di vecchi accampamenti dei prigionieri di guerra», «chiude gli occhi sui canali che scaricano l’acqua sporca del bucato e non vede più la sua baracca coperta di bitume, non sente più il triste odore che sale dall’accampamento».
A SMENTIRE LA CATERVA di pregiudizi xenofobi di cui l’articolo era permeato ci ha pensato il tempo. Oggi le cantines, le baracche di legno dove si viveva ammassati su letti di paglia, senza acqua, riscaldamento né servizi igienici, e le cosiddette «case di ferro», hangar militari in cui si moriva di freddo d’inverno e di caldo in estate che circondavano quello che era stato un lager nazista prima e un campo di prigionia per i soldati tedeschi poi, affittate dalla compagnia mineraria ai lavoratori migranti scalando la pigione dal salario mensile, sono state trasformate in comode villette con giardino.
Ci vivono i figli e i nipoti dei «musi neri» del Bois du Cazier, e qualche anziano ancora in vita. Sono le seconde e terze generazioni di emigranti, gente con il doppio e a volte triplo passaporto, discendenti delle migrazioni dal sud e dall’est d’Europa che si sono accoppiate fra loro durante il lungo secolo novecentesco. Resistono, a memoria di quel che è stato, i terril, le colline nere formatesi con i detriti di carbone sulle quali crescono piante ed erbacce.
IN UNA VILLETTA di quello che oggi è un tranquillo sobborgo di Charleroi, ex città industriale oggi capitale belga della disoccupazione, viveva pure Marc Dutroux, un elettricista che, tra il 1985 e il 1996, sequestrò, seviziò e uccise quattro ragazzine. Due sopravvissero alle sue sevizie e denunciarono tutto. Fu ipotizzato un giro più ampio di pedofilia, le forze dell’ordine finirono sotto accusa per non aver subodorato alcunché e il caso traumatizzò l’opinione pubblica al punto da provocare una «marcia bianca» di 350 mila persone a Bruxelles e le dimissioni di due ministri, come non era accaduto quarant’anni prima per la strage della miniera.
GLI ITALIANI ATTUALMENTE sono la seconda comunità di migranti in Belgio e mantengono solide radici identitarie, quella che uno studioso di emigrazione italiana in Belgio, Daniele Comberiati, definisce come «la lingua della miniera» – un misto di italiano, francese, dialetto e wallon – e tradizioni anche gastronomiche parzialmente reinventate, a ulteriore smentita dei pregiudizi belgi. Non è un caso che il Giro d’Italia nel 2006 abbia fatto tappa proprio in questo luogo-simbolo delle tragedie dell’emigrazione e della «guerra del carbone» che il piccolo Stato belga decise di combattere per risollevarsi dal conflitto mondiale. Nessuno si ricorda più delle parole di fuoco dell’epoca contro i “musi neri” italiani, accusati di fare concorrenza a basso costo ai lavoratori belgi.
I nostri concittadini furono rimpiazzati da turchi e marocchini, e il bersaglio del razzismo si spostò su di loro fino alla chiusura definitiva della miniera, nel 1984. Oggi Charleroi è un’ex città industriale, che prova a reinventarsi con difficoltà dopo la chiusura delle sue fabbriche. Sono abbandonate e neppure bonificate pure le acciaierie della Arcelor Mittal, acquirenti, salvo sorprese, dell’Ilva di Taranto.

il manifesto 9.8.18
Marcinelle, la Lega attacca Moavero: «Offende gli italiani»
Scontro nel governo. Il ministro colpevole di aver paragonato i nostri migranti a quanti arrivano oggi in Italia


ROMA  Il ricordo della tragedia di Marcinelle si trasforma in uno scontro all’interno del governo giallo verde, con i capi gruppo leghisti di Camera e Senato che attaccano il ministro degli Esteri Moavero Milanesi colpevole, a loro dire, di aver accomunato i migranti italiani del secolo scorso ai disperati che oggi arrivano in Italia attraverso il Mediterraneo. Polemica pretestuosa quanto inutile, alla quale si accoda però anche Fratelli d’Italia che chiede al titolare della Farnesina di evitare «paragoni impropri e offensivi».
E’ la classica bufera nel bicchiere, buona solo per soddisfare l’elettorato. Il pretesto per l’attacco arriva dalle parole con cui in mattinata Enzo Moavero Milanesi ricorda i 262 minatori, 136 dei quali italiani, morti nell’incendio scoppiato 62 anni fa nella miniera belga. «Siamo stati, fino ai primi anni sessanta del ventesimo secolo, appena ieri, una nazione di emigranti nel mondo», ricorda il ministro degli Esteri. «Anche in Europa siamo andati stranieri, in paesi stranieri, cercando lavoro».
Parole che descrivono una realtà ben conosciuta da tutti gli italiani, e che probabilmente non avrebbero suscitato alcuno scalpore se Moavero non avesse voluto sottolineare come sia giusto ricordare il nostro passato «quando vediamo arrivare in Europa i migranti della nostra travagliata epoca». Gli africani di oggi come gli italiani di ieri, accomunati dallo stesso desiderio di una vita migliore.
Troppo per la Lega, come se in passato non fossero partiti anche dal Veneto, dal Piemonte e dalla Lombardia disperati con la valigia di cartone diretti in cerca di fortuna in tutto il mondo. Evidentemente per il Carroccio la fame non è uguale per tutti. E infatti la reazione al paragone fatto da Moavero non si fa attendere. Per i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo, il ministro «offende gli italiani». «Paragonare gli italiani che sono emigrati nel mondo, a cui nessuno regalava niente né pagava pranzi e cene in albergo, ai clandestini che arrivano oggi in Italia è poco rispettoso della verità, della storia e del buon senso», dicono i due parlamentari. Seguiti anche dal capogruppo a Montecitorio dei fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida, per il quale «gli italiani che emigrarono hanno portato lavoro e qualità e chi ci ha ospitato ha preteso che rispettassimo fino all’ultima regola, perseguendo correttamente chi non lo fece. Il ministro degli Esteri eviti paragoni impropri».
A rimarcare ancora di più la divisione esistente nella maggioranza, in mattinata era intervenuto anche il presidente della camera Roberto Fico ribadendo in sostanza gli stessi concetti espressi da Moavero. «In una fase storica come quella attuale, in cui il continente europeo è così profondamente lacerato da posizioni contrapposte sulla sorte dei migranti – aveva detto l’esponente dei 5 Stelle – queste dolorose testimonianze che affiorano dalla nostra storia di migrazioni ci aiutano a ricordare quando fuggivamo da condizioni difficili, alla ricerca di una prospettiva di vita dignitosa».

Repubblica 9.8.18
Austria
La storia del film “L’onda” si ripete il nazismo travolge i banchi di scuola
di Giampaolo Cadalanu


BERLINO Il genere umano è sempre vulnerabile al fascino malato delle ideologie brutali, quelle che hanno la sopraffazione di gruppo come denominatore comune. Lo dimostra la disavventura di una classe della scuola media di Zurndorf, nel Land austriaco del Burgenland. All’ora di tedesco l’insegnante aveva proposto la lettura del romanzo L’onda dello scrittore americano Todd Strasser e la visione del film omonimo del 2008, diretto da Dennis Gansel.
L’onda ( in alto una scena del film) si basa sull’esperimento tenuto da Ron Jones, professore di Storia californiano, che nel 1967, per spiegare l’attrazione del nazismo sulle masse, introdusse con gli studenti del liceo Cubberley di Palo Alto una serie di comportamenti volti a enfatizzare la disciplina e lo spirito di corpo. Lo scopo era replicare i meccanismi sociali che avevano permesso di dare via libera a Hitler. L’esperimento finì quando era chiaro che anche i liceali erano accecati dai rituali e non esercitavano più capacità critiche. Non diverso è stato il risultato nella scuola di Zurndorf: fra libro e film, l’insegnante era convinta che avessero compreso il senso della lezione. Ma negli intervalli qualche allievo ha cominciato a ripetere le scene del film. Poi in palestra un gruppo ha deciso di impersonare le SS, un altro faceva la parte dei deportati ebrei. A questo punto, ogni senso del limite è sparito. I ragazzi che facevano la parte di deportati, racconta il quotidiano Kurier, si sono sentiti chiamare «ebrei di m…» e sono stati rinchiusi in un magazzino per attrezzature sportive. Un giovane di quindici anni, che il giornale chiama “Lenni”, ha rivestito le parti del Führer, e si faceva salutare con il braccio teso, al grido di «Heil Lenni!». I ragazzi che rifiutavano finivano nella “camera a gas”, cioè il deposito di materassi della palestra.
Una storia che non poteva passar liscia, in Austria meno che altrove. Dopo la denuncia di una professoressa, la vicenda è arrivata all’Ufficio per la protezione della Costituzione.
L’indagine ha chiarito che non ci sono state violenze, e che «la stanza dei materassi non poteva essere sbarrata», quindi il fascicolo è stato chiuso. Resta aperta l’inchiesta sulla possibile apologia del nazismo da parte di “Lenni”. Il giovane ha cercato di chiarire: «Era una recita, nessuno la prendeva sul serio. Ma dopo aver approfondito il tema con alcuni documentari, mi sono sentito male».

La Stampa 9.8.18
Addio ai soldi per le periferie
Scoppia la rivolta dei Comuni
Scure del governo. Il Pd: schiaffo ai cittadini. Il M5S: sbloccati altri fondi
di Nicola Lillo


Il piano Periferie lanciato dal governo di Matteo Renzi viene fermato e sospeso per due anni, facendo infuriare i Comuni. La maggioranza Lega- Cinque Stelle ha infatti votato un emendamento al decreto Milleproroghe che prevede il differimento al 2020 di 2,1 miliardi di finanziamenti, soldi che comunque finora non erano stati spesi. Il M5S rivendica al tempo stesso di aver approvato un altro emendamento che ha liberato un miliardo per gli investimenti destinati a tutti i Comuni, e non solo a quelli che avevano firmato una convenzione con la presidenza del Consiglio.
«Lo stop di Lega e M5S al Bando Periferie dei governi Renzi e Gentiloni è uno schiaffo ai cittadini e un danno ai Comuni», attaccano dal Pd, che comunque ha approvato l’emendamento definendolo però «involuto». Finora sono stati firmati 120 accordi con i Comuni: il 6 marzo dello scorso anno sono stati siglati i primi 24 (che restano) e a dicembre gli altri 96 (che ora vengono posticipati al 2020). I progetti della prima tranche erano già stati presentati a Palazzo Chigi e potranno procedere con il loro iter.
Non è un problema per Laura Castelli, sottosegretario Cinque Stelle all’Economia. «Con un nostro emendamento abbiamo liberato un miliardo per gli investimenti dei Comuni, che miglioreranno la vita dei cittadini», spiega attaccando il Pd: «Parlano di tagli, ma gli unici che i cittadini ricordano sono quelli fatti dai loro governi».
Scontro M5S-Pd
Ma chi ha ragione tra i due partiti (mentre la Lega sul tema tace)? Con il Milleproroghe, approvato al Senato e che in settembre arriverà alla Camera, sono stati effettivamente sbloccati 140 milioni di euro per il 2018, 320 per il 2019, 350 per il 2020 e 220 per il 2021. Risorse che si sommano a quelle già stanziate dalla precedente legge di Bilancio. Per i Dem è in realtà semplicemente lo spostamento di soldi già previsti. Mentre per la maggioranza sono risorse che ora vengono distribuite a tutti senza finalità precise, che le amministrazioni comunali dunque potranno usare liberamente e non solo per le periferie.
La reazione dei sindaci
A criticare la decisione del governo sono i sindaci delle più importanti città (tutte a guida centrosinistra), Giuseppe Sala di Milano, Luigi De Magistris di Napoli, Virginio Merola di Bologna e Dario Nardella di Firenze. A Roma e Torino invece - dove ci sono amministrazioni Cinque Stelle - minimizzano. «Nessuno stop per i progetti di Roma Capitale dedicati alle periferie della città», spiegano dal Campidoglio. Mentre da Torino si limitano a dire di «seguire con attenzione attraverso i propri uffici l’evolversi della situazione legata al futuro del Bando Periferie».
Molto critici invece i due ex premier Pd, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, che hanno portato avanti il progetto: «L’ossessione di smontare le decisioni dei governi precedenti ora prende di mira le periferie. Togliere i soldi alle città per ripicca politica sarebbe una follia. Una delle tante», spiega Gentiloni. Per Renzi invece si tratta di «una delle migliori idee del mio governo. Spero che davvero l’attuale esecutivo non voglia tornare indietro anche su questo e che sia tutto un equivoco».

La Stampa 9.8.18
“È stato uno scippo. Pronti alle barricate”
di Flavia Amabile


L’elenco dei sindaci che hanno protestato contro la sospensione delle convenzioni del bando periferie è lunghissimo. Comprende Comuni guidati dal Pd ma anche da Forza Italia e anche tra i sindaci del M5S si percepisce tensione all’idea di non poter realizzare i progetti promessi. Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani, annuncia battaglia.
«Siamo di fronte a una via di mezzo tra il furto con destrezza e il gioco delle tre carte. Il governo ha agito in modo inqualificabile: di notte, con un emendamento nascosto nel decreto Milleproroghe, ha deciso di sospendere le convenzioni del Bando periferie per 96 tra città e aree metropolitane per un totale di 300 comuni e 2,1 miliardi di finanziamenti da parte dello Stato di opere essenziali per i Comuni. Dall’altro però ha avviato la procedura per sbloccare un miliardo di avanzi di amministrazione e ne rivendica il merito. Ma in questo caso si tratta di un obbligo dopo le sentenze della Corte Costituzionale, le due misure non possono essere assolutamente equiparate».
La sottosegretaria all’Economia Laura Castelli sostiene che si tratti di fondi illegittimi come aveva stabilito la Corte Costituzionale in una sentenza.
«Assolutamente falso. La sentenza sostiene che i fondi dell’articolo 140 non possono essere utilizzati perché di competenza delle Regioni ma i fondi per le periferie sono invece contenuti in un Dpcm che ha ottenuto il parere favorevole dalla Conferenza unificata Stato Regioni, non sono oggetto della sentenza».
Nel frattempo però alcuni Comuni hanno già ottenuto i fondi. E gli altri?
«C’è stata una prima tranche di 24 progetti che sono già stati completati. Il governo Gentiloni ne ha poi finanziati altri 96. Su questi non sappiamo che cosa accadrà. Ma sono stati firmati dal presidente del Consiglio e da noi sindaci in modo ufficiale. Ci sono Comuni che hanno già speso le prime somme, che hanno bandito le gare d’appalto, che hanno promesso ai loro cittadini opere per riqualificare le periferie. Come si può ora cancellare tutto questo creando problemi anche di bilancio per i Comuni?».
Che cosa pensate di fare?
«Tutto quello che è in nostro potere. Dalla diffida alla presidenza del Consiglio a richiedere un intervento del Presidente della Repubblica fino alle barricate».

Repubblica 9.8.18
«Un furto con destrezza Ci appelleremo al Quirinale»
di An. Duc.


«Sembra il gioco delle tre carte. A stabilire il libero utilizzo degli avanzi di amministrazione sono ben due sentenze della Corte costituzionale. E poi come dovranno regolarsi i sindaci che non dispongono di avanzi in bilancio?». ,Il governo nega il taglio e rivendica di avere liberato un miliardo grazie agli avanzi di bilancio degli anni precedenti. ,«Molti sindaci stanno scrivendo al governo. Poi solleciteremo direttamente il presidente della Repubblica». ,Che cosa farete adesso? ,«Bisognerebbe chiedere a loro. Credo non si siano accorti, per questo si configura come un furto con destrezza, uno scippo istituzionale». ,Ma i senatori del suo partito, il Pd, hanno votato a favore... ,«È stata sottoscritta una convenzione con il governo precedente, un contratto sulla base del quale molti sindaci hanno appaltato i lavori, assumendo così un impegno di spesa. Rinviare, significa ritrovarsi con un buco in bilancio». ,Perché traditi? , sindaci si sentono traditi, ci tolgono 1,6 miliardi senza condividere alcunché e con un emendamento votato di notte». A dirlo è il presidente dell’Anci e sindaco di Bari, Antonio Decaro.

Corriere 9.8.18
Azzerato il bonus degli 80 euro I fondi? Sulla flat tax
Nuovi sgravi . Piano per congelare l’aumento dell’Iva Salvini pronto allo scontro con la Ue. M5S e Tria frenano
di Mario Sensini


ROMA Convince tutti, politicamente suona bene, ma soprattutto serve come il pane alla manovra. Lega e Movimento 5 Stelle hanno deciso di «rottamare» il bonus Renzi degli 80 euro. Introdotto nel 2016 dall’allora presidente del Consiglio, che ne fece una battaglia quasi personale con Angelino Alfano e Pier Carlo Padoan, il «premio» da 80 euro lordi mensili per i lavoratori dipendenti sotto i 26 mila euro di reddito costa la bellezza di 9 miliardi euro l’anno e finisce nelle tasche di 11 milioni di contribuenti.
Nel vertice di ieri sera a Palazzo Chigi tra il premier Giuseppe Conte e i ministri economici sembra sia stata pronunciata la sentenza definitiva. Sarà azzerato, e utilizzato per finanziare il primo modulo della flat tax per le persone fisiche, che debutterà con la legge di Bilancio del 2019, insieme all’estensione della tassa forfettaria del 15% per le imprese.
Per il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, il «bonus Renzi» è troppo complicato. Non è uno sgravio (e non riduce la pressione fiscale complessiva, cosa che faceva dannare Padoan), e crea problemi al momento dei conguagli, con troppa gente costretta a restituirlo in tutto o in parte per aver superato il tetto di reddito. Meglio utilizzare i 9 miliardi per una prima riduzione delle aliquote o un accorpamento degli scaglioni Irpef. Il primo modulo della flat tax per i cittadini, appunto.
L’idea, confermata dal vertice di ieri sera, è quella definire da subito, con la legge di Bilancio del 2019, ma triennale, il percorso dei tagli fiscali sulle famiglie per l’intero arco della legislatura. Un programma a tappe, ma credibile perché scritto in una legge. Il governo sfrutterebbe l’effetto annuncio, capace di incidere positivamente sui consumi e sulla crescita, ed avrebbe tempi più comodi per le coperture. Qualsiasi sgravio fiscale si decidesse per il 2019,avrebbe i principali effetti contabili nel 2020, cioè nel momento della dichiarazione dei redditi. Lo stesso discorso vale per le imprese. Qui il piano è ancora più semplice, perché basta alzare i tetti di fatturato sotto i quali si applica il regime forfettario dei minimi, con l’aliquota già al 15%.
Sia la Lega che il Movimento sono decisi a varare gli sgravi sia per le famiglie che per le imprese e dare così un segnale di cambiamento all’economia. Sulla copertura della manovra fiscale c‘è ancora qualche distanza. Se il sacrificio del bonus Renzi mette tutti d’accordo, come la «pace fiscale» che però darebbe un gettito una tantum, ci sono differenze sulla linea da tenere con la Ue nel negoziato per ottenere la possibilità di fare un deficit un po’ più alto. Salvini e i suoi sono prontissimi allo scontro, mentre Di Maio appoggia la linea di Tria della «compatibilità».
Con la flat tax, l’avvio del reddito di cittadinanza e probabilmente un primo allentamento della legge Fornero sulle pensioni, la manovra del 2019 costerebbe sulla carta circa 25 miliardi di euro, di cui metà per sterilizzare gli aumenti dell’Iva. Sul fronte delle coperture, per ora, ci sono il bonus Renzi, un paio di miliardi di altre detrazioni per le imprese che potrebbero sparire, e il gettito della «pace fiscale». Altro fronte delicato tra Lega e 5 Stelle, con questi ultimi che puntano a circoscrivere la sanatoria solo ai piccoli contribuenti, mentre la Lega la ipotizza anche per le imprese. Da come la si imposta dipenderanno anche gli incassi, che oscillano tra uno e 3 miliardi.
Nelle intenzioni dell’esecutivo le coperture dovrebbero fermarsi qui. Metà manovra, 12 miliardi su 25, dovrebbe dunque essere finanziata in deficit per evitare che tagli di spesa o nuove entrate deprimano troppo l’economia. Non è detto che la Ue sia daccordo. Il negoziato è in corso e per il momento non depone male. Ma anche ieri sera i ministri della Lega sono stati chiari. Il programma di governo deve essere attuato. Checché ne dica Bruxelles.

Repubblica 9.8.18
l voto al Senato
Il vento di protesta nelle periferie
di Piero Colaprico


Le città, si dice, non finiscono in periferia, ma le città cominciano dalla periferia. Questo concetto fa fatica a passare. Anzi da qualunque prospettiva le si guardi, resta il fatto che le periferie d’Italia erano e sono “eterne incompiute”. Le figlie sfortunate del dio minore delle metropoli. E da ieri, almeno ad ascoltare il vento di protesta che s’è alzato e soffia da Nord a Sud, dall’Anci a Forza Italia, dal sindaco Sala di Milano al sindaco Pizzarotti di Parma, a Reggio Calabria e Udine, le periferie si risvegliano nervose, e dentro un collettivo “abbandono percepito”. L’allarme è cominciato l’altra sera. Appena è stato votato in Senato il decreto Milleproroghe del governo Lega M5S, ci si è accorti che si concretizzava il gigantesco rischio di veder congelati d’improvviso, e senza condivisione tra amministratori pubblici, moltissimi progetti di rinnovamento, ricostruzione, risanamento. Quelli che erano passati grazie al precedente governo di centrosinistra attraverso il Bando delle periferie di Matteo Renzi.
Siccome il Senato ha votato all’unanimità, Renzi stesso ha mandato in fretta un messaggio ai sindaci pd, per dire che “l’emendamento è stato letto male dai nostri (…) la cazzata è del governo (…) combatteremo, ma non facciamo polemiche”. A leggere centinaia di dichiarazioni, non è che gli abbiano dato retta. Il coro delle proteste è cresciuto di ora in ora, parlando di “schiaffo” e “furto con destrezza”. E liquidarlo come “sinistra all’attacco” è fuori luogo. Anzi, a dimostrare il livello di aggrovigliata confusione del governo, ci sono volute mattina e pomeriggio prima che dalla stanza dei bottoni gialloverde si levasse una voce, per tentare di far rientrare l’allarme generale. La frittata è stata girata in positivo: passano — così sostengono — 24 progetti, per 501 milioni (meno di un quarto dei 2 miliardi e 100 milioni previsti dallo Stato).
In cambio dell’uso delle cesoie, è previsto un “contentino”: se i Comuni hanno soldi in cassa, possono spenderli. Il che equivale a sottolineare un tema, in verità preoccupante in questo periodo di crescenti differenze: chi è ricco ed è forte di un gettito fiscale rassicurante, spenda pure, chi è povero e ha debiti, beh, si potrebbe dire che per quel Comune senza risorse e per le sue periferie “è finita la pacchia”. Anche se la pacchia, nelle periferie, non c’è mai stata, anzi. Nelle nostre periferie, da quelle più “pensate”, come il QT8 di Milano, quartiere triennale 8, firmato da architetti prestigiosi, alle più disastrate, come l’iper-citata Scampia, ormai assurta dopo la fiction Gomorra a metafora dello Stato assente, manca sempre qualcosa per dire “adesso ci siamo”. E al momento, salvo una marcia indietro, sempre possibile quando il voto passerà alla Camera, e al di là delle rassicurazioni campate per aria del governo, il “non ci siamo” è devastante e collettivo. Restano fuori dal circuito dei soldi pubblici 96 città. E, siccome alcune sono città metropolitane, quasi 300 Comuni sono out. Cioè, il “rammendo” delle periferie, di cui parla nei convegni l’architetto Renzo Piano, o “l’ossessione per la periferia” del sindaco milanese Beppe Sala (a Milano non arrivano 18 milioni), finiscono nel freezer della nuova politica: quella che ha i conti da far quadrare per che cosa? Per trovare i soldi per l’avventura della Flat tax e del reddito di cittadinanza.
C’è poi da dire che i comizi di Matteo Salvini nei luoghi più sperduti hanno spesso promesso il riscatto delle periferie e sfruttato le tragedie nel solco della “politica della paura”: ma ancora una volta, alla prova dei fatti, i non-luoghi sembrano servire per riempire le urne, poi tornano nel dimenticatoio. Tanto “l’insicurezza percepita” dipende sempre da rom, migranti, profughi. Mai da chi, da Roma, taglia i fondi per risanare.

La Stampa 9.8.18
Vaccini, arriva lo stop dei presidi
“In aula solo con certificato dell’Asl”
I dirigenti scolastici: “Per noi resta in vigore la legge Lorenzin”. E dicono no all’ipotesi di classi “differenziali”
di Paolo Russo


Altro che slittamento di un anno del divieto di ingresso a materne ed asili. Per i presidi italiani senza regolare certificato dell’Asl che attesti l’avvenuta vaccinazione i cancelli di asili e materne resteranno chiusi. Anche se i genitori sventoleranno le autocertificazioni che la circolare della ministra della Salute, Giulia Grillo, ha prorogato come valide fino al 30 settembre. Ma non per l’Anp, l’Associazione nazionale presidi, che senza giri di parole hanno annunciato che per loro «resta in vigore la legge Lorenzin», poiché «il diritto alla salute è prioritario rispetto a quello all’istruzione».
Lo scontro col governo
Una presa di posizione destinata a confondere ancora più le idee ai genitori che ancora non hanno iscritto a scuola i propri figli, che prima hanno sentito parlare di autocertificazioni, poi addirittura di cancellazione del divieto d’ingresso ai non vaccinati in virtù di un emendamento al decreto «Milleproroghe», che dovendo ancora essere approvato vale però come un testo scritto sull’acqua. Tanto più che la ministra Grillo quell’emendamento non l’avrebbe preso proprio bene, a tal punto da spingere la maggioranza a una qualche nuova modifica prevista per settembre.
Iscrizione valida
Ma intanto la confusione regna sovrana. Tanto più dopo il muro alzato dai direttori d’istituto. «Diciamo solo che fin quando non c’è il certificato della Asl la frequenza non è possibile ma l’iscrizione rimane». L’ingresso in aula, mette in chiaro l’Anp «può avvenire dopo la consegna della documentazione a scuola».
Conte: «Mio figlio vaccinato»
E i presidi al capo di gabinetto del ministero della Salute hanno ribadito il loro no anche alla prospettata possibilità di classi «differenziali», composte dai soli bambini vaccinati, nelle quali inserire i 10 mila bambini immunodepressi che i vaccini non posso farli.
«Mio figlio l’ho fatto vaccinare. L’ho accompagnato io personalmente. E questa è la linea del governo», ha chiarito proprio ieri il premier Giuseppe Conte. Ma il caso vaccini resta più che mai un rebus.

Corriere 9.8.18
Vaccini, lo stop dei presidi: solo chi ha il certificato entrerà in nidi e materne
I dirigenti: la circolare di Grillo? Vale la legge Lorenzin
Polemica per la frase della ministra sulle morti inevitabili
di Margherita De Bac


RomaPresidi contro governo. «Allo stato attuale se non verrà presentato all’inizio dell’anno il certificato di avvenuta vaccinazione della Asl, non potremo permettere la frequenza dei bimbi a nidi e materne». Si spalanca un solco profondo tra l’Anp, l’associazione nazionale che rappresenta i massimi dirigenti scolastici, e il ministro della Salute Giulia Grillo. Sua e di Marco Bussetti (Istruzione) la circolare del 5 luglio che ha rotto gli indugi. Secondo le nuove disposizioni basterà la sola autocertificazione per assicurare l’ingresso in classe.
I presidi però non ci stanno ritenendo: «Non è possibile far prevalere la nuova circolare. Il diritto alla salute è prioritario. Per ora ci atteniamo alla legge Lorenzin, sarà quest’ultima ad essere applicata». Le norme del 2017 prevedono che se inadempienti all’obbligo i piccoli non entrino. Ieri un incontro tra l’associazione e il capo di gabinetto del Ministero, Alfonso Celotto.
Il presidente Antonello Giannelli ha espresso «netto dissenso sulle classi differenziali composte da soli vaccinati in cui inserire alunni immunodepressi, con problemi di non idoneità alla profilassi. Resta il rischio degli spazi comuni dove il pericolo di contagio aumenta».
La situazione ribolle e siamo a meno di un mese dalla riapertura delle lezioni con tanti input in ballo. Da una parte la circolare che introduce l’autocertificazione, in contrasto con una legge del 2000 che esclude la certificazione medica dalla documentazione amministrativa. Poi l’emendamento al decreto Milleproroghe approvato dal Senato, in discussione alla Camera dall’11 settembre, che posticipa al 2019-20 l’applicazione delle sanzioni per le famiglie non in regola ammorbidendo il principio dell’obbligo. Infine il disegno di legge parlamentare, pare ancora più orientato verso la libertà di scelta.
Le Regioni non arretrano. Al ritorno dalle ferie il coordinatore per la sanità Antonio Saitta, assessore in Piemonte, definirà assieme ai colleghi dissenzienti le azioni da intraprendere. «Noi non stiamo portando avanti nessuna proposta», afferma replicando all’intervista di Grillo sul Corriere della Sera. «Se il Parlamento non elimina l’emendamento noi lo impugneremo di fronte alla Consulta», traccia la prima ipotesi Saitta.
La seconda: ordinamenti regionali per mantenere l’attuate sistema: «Noi ci avevamo lavorato molto col ministero e invece da parte di questo ministero nessun confronto. Non si può buttare via tutto». Ieri intanto l’immunologo Roberto Burioni ha risposto alla Grillo, che al Corriere aveva detto che «non si può illudere la gente che non morirà nessuno» di morbillo. Lui replica: «Il ministro dovrebbe sapere che dove c’è l’immunità di gregge non muore nessuno di morbillo. Il suo dovere sarebbe di portarci in quella “illusione”. Andiamo bene».

il manifesto 9.8.18
Argentina, sull’aborto legale le donne non arretrano
Ni una menos. Dopo il sì della Camera alla legalizzazione, palla al Senato. Partiti spaccati, piazze piene. Le iniziative di Non una di meno: le ancelle di Atwood e metropolitane inondate di musica. Nel 2018 tre uccise da interventi chirurgici clandestini, nel 2016 43 vittime
di Claudia Fanti


Si chiamava Liliana Herrera, aveva 22 anni ed era madre di due figli. Era arrivata il 4 agosto all’Ospedale regionale di Santiago del Estero con un’emorragia dovuta a un aborto clandestino. Non c’è stato niente da fare.
È lei l’ultima vittima in Argentina di una legge, risalente addirittura al 1921, che punisce l’aborto con una pena fino a quattro anni di carcere, ammettendolo solo in caso di stupro o di minaccia alla salute della madre.
Prima di lei altre due donne sono morte quest’anno nello stesso ospedale (nel 2016, 43 in tutto il Paese), mentre un’altra si trova ora ricoverata in gravi condizioni a Mendoza, proprio mentre il Senato è impegnato a votare – il risultato si conoscerà in Italia probabilmente solo all’alba di oggi – il progetto di legge, già approvato alla Camera dei deputati il 14 giugno, per la legalizzazione dell’aborto entro la quattordicesima settimana (e anche oltre in caso di stupro, di pericolo per la vita della donna e di gravi malformazioni fetali).
Non sono molte le speranze di un esito favorevole: sulla carta i contrari sono 39 e 31 i favorevoli, benché l’incontenibile marea di donne di tutte le età, ma specialmente giovani e adolescenti, che si è riversata sulla Plaza del Congreso – un’onda verde come il foulard diventato simbolo della lotta per un aborto legale, sicuro e gratuito – confidi ancora nella possibilità di una vittoria all’ultimo minuto.
La frattura tra favorevoli e contrari, decisamente profonda nella società argentina, attraversa tutti i partiti, anche se in misura assai minore il kirchnerista Frente por la Victoria dove, su 9 senatori e senatrici, solo una (Silvina García Larraburu) ha annunciato a sorpresa il suo voto contrario, mentre tra quelli della coalizione di maggioranza Cambiemos quattro voteranno a favore e sei contro.
La palma per la maggiore ipocrisia va comunque all’ex presidente Carlos Menem, che si è espresso contro il progetto di legge malgrado in passato avesse accompagnato personalmente ad abortire la sua prima moglie, Zulema Yoma, secondo quanto lei stessa raccontò nel 1999.
E c’è anche chi, come l’esponente del partito radicale Inés Olga Brizuela y Doria, è schierata attivamente contro la legalizzazione dell’aborto, mentre sua figlia è in piazza con il foulard verde.
Fino a che punto la lotta delle donne per il diritto all’aborto sia stata una corsa a ostacoli lo indicano anche le divisioni all’interno degli stessi movimenti popolari, a cominciare dalla Confederación de Trabajadores de la Economía Popular, protagonista il 7 agosto, proprio alla vigilia del voto, della grande marcia di San Cayetano per «terra, casa e lavoro» contro le politiche di Macri.
Se il peso della componente cristiana nella Ctep spiega la resistenza dell’organizzazione a schierarsi a favore del progetto di legge – estremamente aggressiva è stata la campagna contro l’interruzione di gravidanza portava avanti dalla Chiesa cattolica –, non poco sconcerto hanno prodotto le dichiarazioni del suo leader Juan Grabois, noto per la sua stretta vicinanza a papa Francesco che ha affermato di non essere «personalmente a favore della legalizzazione dell’aborto»: «Tra i militanti più attivi – ha detto – la maggioranza è a favore della depenalizzazione, ma a livello di base la divisione è ben più netta».
Le donne tuttavia non hanno arretrato di un millimetro, realizzando iniziative e manifestazioni, ininterrottamente. Scendendo in piazza silenziosamente davanti alla sede del Congresso con i costumi – cuffie bianche e mantelli rossi – della serie televisiva Il racconto dell’ancella ispirata al romanzo di Margaret Atwood (centrato sui temi della sottomissione della donna e dei mezzi impiegati per asservire il corpo femminile e le sue funzioni riproduttive).
O inondando di verde, di canti e di musica tutte le linee della metropolitana, per iniziativa dell’ormai celebre movimento Ni una menos, nato nel 2015 dalla protesta di un gruppo di giornaliste, scrittrici, attiviste e artiste argentine contro l’inarrestabile strage di donne e fin dall’inizio impegnato nella difesa di tre rivendicazioni strettamente intrecciate: «Educazione sessuale per poter decidere. Anticoncezionali per non abortire. Aborto legale per non morire».
A morire, o a rischiare la vita, sono invece in tante in Argentina, e quasi tutte povere: chi può permetterselo ha pur sempre la possibilità di rivolgersi ai medici privati per un aborto chirurgico sicuro.
Le stime ufficiali parlano di 500mila aborti ogni anno, 1.369 al giorno, 57 all’ora. E parlano di 298 adolescenti tra i 15 e i 18 anni che partoriscono quotidianamente e di otto bambine tra i 10 e i 14 che ogni giorno diventano madri.

Il Fatto 9.8.18
I quaderni delle mazzette affossano la Kirchner
L’ex presidentessa oggi in Tribunale per lo scandalo corruzione che investe il sistema di potere fondato dal marito
di Guido Gazzoli


L’ex vicepresidente Amado Boudou è stato condannato a 5 anni e 8 mesi di prigione e inabilitato a vita a incarichi pubblici. È accusato di corruzione e trattative incompatibili con la sua funzione pubblica: il tutto si riferisce a un fatto del 2012, quando Boudou si vide coinvolto, attraverso l’affarista Alejandro Vandenbroele in qualità di prestanome, nell’acquisto della Compagnia di Valori Sudamericana, azienda privata per la stampa di banconote. Negli anni diversi giudici e magistrati, nonostante le indagini dimostrassero con chiarezza la colpevolezza dell’imputato, hanno annullato o posticipato le 10 cause nelle quali era coinvolto l’ex vicepresidente, delle quali quella della grafica, chiamata “Ciccone” dal nome degli ex proprietari, è la più importante. Secondo i magistrati Boudou accettò come tangente il 70% delle azioni della società; inizialmente venne arrestato il 2 novembre 2017 con l’accusa di riciclaggio di denaro sempre collegato alla stessa causa, e posto in carcerazione preventiva.
Dopo 70 giorni venne liberato, ma da martedì, completato il processo, è stato nuovamente trasferito nelle carceri di Ezeiza: la prima sentenza confermata nel processo contro la corruzione, che la settimana scorsa ha vissuto il momento-chiave con la consegna alle autorità e pubblicazione dei quaderni sui quali l’autista di Roberto Baratta , numero 2 del ministro della Pianificazione Julio De Vido, Oscar Centeno annotava appuntamenti e cifre del giro di tangenti delle Opere Pubbliche. Fatto che ha portato a 16 arresti e inviti a comparire presso il Tribunale di Buenos Aires da parte di politici, imprenditori e membri della magistratura legati all’ex governo kirchnerista.
Ieri è stato il turno dell’ex giudice Norberto Oyarbide che, durante la sua audizione, ha dichiarato di aver subito pressioni per favorire nelle innumerevoli cause che li riguardavano non solo i vari membri dei governi, ma anche gli stessi Néstor e Cristina Kirchner. Tra le quali quelle di arricchimento illecito quando nel 2008 respinse la richiesta di chiarire l’aumento del 168% annuo del patrimonio della famiglia presidenziale e quella chiamata “Sueños Compartidos” (Sogni condivisi) nella quale erano coinvolte le Madri di Plaza de Mayo accusate di aver ricevuto ingenti somme dallo Stato per la costruzione di case destinate ai poveri e non aver mai portato a compimento solo una minima quantità di alloggi, girando parte dei soldi ricevuti alle casse dell’Fpv (Frente para la Victoria), il partito kirchnerista.
Sebbene nel corso della carriera Oyarbide abbia collezionato 47 denunce per mala prassi e 43 richieste di giudizio politico, nessuna ha seguito il suo corso a causa delle protezioni politiche di cui ha sempre goduto. Un personaggio chiave quindi degli ultimi 15 anni di storia, sotto le cui mani finivano “per sorteggio” le cause più delicate che implicavano il potere trovandone sempre un fedele alleato, che ora pare destinato ad aprire il “vaso di Pandora”, aggiungendosi al gruppo di pentiti che collabora con la giustizia.
Oggi il Senato deve dare l’assenso alla perquisizione di uno degli appartamenti di Cristina Kirchner a Buenos Aires, che dovrà anche comparire in Tribunale per essere interrogata: si stringe sempre più il cerchio attorno all’ex presidente, da molti testimoni citata come “il capo della banda” e ormai isolata all’interno di un peronismo che potrebbe finire con lo “scaricarla”.

Repubblica 9.8.18
Turchia, la guerra finanziaria che Erdogan non riesce a vincere
di Marco Ansaldo


«Le recenti fluttuazioni dei mercati finanziari, che non possono essere spiegate su base economica, prima o poi si calmeranno». Con questo approccio serenamente fideistico il partito conservatore turco, di ispirazione religiosa, reagisce alla nuova crisi economica, la più difficile da quella drammatica del 2001, risolta un anno prima dell’arrivo al potere di Recep Tayyip Erdogan.
Un annuncio, quello dell’esperto economico Cevdet Yilmaz, numero due della compagine monocolore al governo, capace di mescolare la tecnologia più in voga (dichiarazione fatta su Twitter) con una speranza di tipo squisitamente trascendentale. E che agli osservatori, persino i più distaccati, imprime il senso di un’impreparazione totale, foriera di scenari da precipizio senza il pronto intervento di un soccorso adeguato.
L’altro giorno la lira turca ha battuto il suo record negativo, scendendo a 5,99 contro l’euro. Ci vogliono cioè 6 lire turche per comprare 1 euro, quando fino a un paio di anni fa le due valute erano in parità perfetta. In sette giorni la lira è scivolata a 5,4250 contro il dollaro, minimo mai conosciuto prima, con un calo di oltre il 25% dall’inizio dell’anno. Un crollo che promette iper-inflazione.
Lira ai minimi, rendimento dei titoli di Stato al 20%, potere d’acquisto dei cittadini in flessione continua con la gente che nei negozi fatica a stare dietro ai prezzi dei prodotti alimentari.
La Turchia di Erdogan, consolidato nel suo potere dalle elezioni di fine giugno, torna a guardare l’abisso della crisi. Voci di restrizioni ai movimenti di capitali, e soprattutto di un possibile intervento del Fondo monetario internazionale aumentano la paura.
Da mesi la situazione si trascina, con investimenti stranieri in sofferenza per gli imbarazzi crescenti a trattare con Erdogan, e il turismo per troppi anni privo di presenze occidentali davanti ai timori per il terrorismo (solo la stagione in corso sta andando meglio). «Non c’è alcun dubbio che oggi è l’economia il problema principale della Turchia», scrivono i giornali. E allora occorre ricordare che proprio per arginare possibili accuse il leader aveva deciso di convocare elezioni anticipate a giugno, ben sapendo che nel 2019 la crisi finanziaria l’avrebbe trascinato verso una possibile sconfitta.
Scommessa vinta, così come il voto — il Sultano ha un invidiabile fiuto politico — ma la patata bollente dell’economia è tutta da risolvere.
Le aziende lamentano un’esposizione di 337 miliardi, 217,3 al netto degli attivi. La Banca centrale è costretta ad aumentare le disponibilità di liquidità in dollari per 2,2 miliardi, cercando di togliere pressione alla lira e dare ossigeno alle aziende nel trovare finanziamenti. Erdogan tenta di correre ai ripari, e vara “un piano dei 100 giorni” in 400 punti, il cui focus è concentrato sulla crisi. «La Turchia sta fronteggiando una guerra economica. Ma non siate preoccupati, la vinceremo come abbiamo fatto nel passato», spiega. Gelando poi tutti quando aggiunge: «Convertite i vostri risparmi di valuta straniera e il vostro oro in lire turche». Appello accolto nello scetticismo.
Pesano le sue scelte, e il suo imporsi in un ambiente che non è quello del contesto strettamente politico di cui è principe assoluto.
La sua ostinazione nell’opporsi all’aumento dei tassi di interesse.
Pesano le decisioni politiche interne, con la costruzione di edifici colossali miranti a consolidare il suo potere, ma di difficile sostentamento. Pesano soprattutto i troppi fronti aperti di una politica estera che ha finito per allontanare i partner occidentali, aprendo a russi, arabi e africani, ma intimorendo gli alleati della Nato.
Molta diffidenza ha suscitato poi la promozione di suo genero, sposo della figlia velata Esra, a ministro di Finanze e Tesoro, a numero tre del governo dopo sé stesso e il ministro degli Esteri. Il giovane Berat Albayrak mostra fiducia: «Disciplineremo l’inflazione e la ridurremo nel 2019 dal 15% attuale a una sola cifra». Inshallah. Se Dio vuole. Il turco della strada, o meglio il cittadino anatolico, prototipo dell’elettore di Erdogan, lo spera.
Come scriveva ieri su Hurriyet l’editorialista Erdal Saglam: «Siamo diventati un Paese dove la prima cosa che la gente fa al mattino, quando si sveglia, è controllare il tasso di cambio delle valute. Persino in vacanza».

il manifesto 9.8.18
ExtraTerrestre   
A Firenze le piante si emozionano
Arte. Palazzo Strozzi una mostra dell’artista tedesco Carsten Höller, con il neurobiologo Stefano Mancuso, mette in relazione i visitatori con i vegetali. Che provano gioia o paura. È The Florence Experiment
di Luca Aterini


Le piante respirano senza polmoni, si nutrono senza bocca, digeriscono senza stomaco: sono così lontane da noi animali da apparirci come qualcosa di radicalmente diverso, con cui sarebbe impossibile intessere un rapporto. Forse anche poco interessante: da Aristotele in poi siamo abituati a collocare il mondo vegetale in una posizione di subalternità rispetto a quello animale. Eppure le piante vivono con successo sulla terraferma da ben 520 milioni di anni, ovvero da molto più tempo di noi, e forse è arrivato il momento di osservarle sotto una luce diversa: è questa la proposta sottesa a The Florence Experiment, un avveniristico progetto italo-tedesco che unisce arte e scienza studiando l’interazione tra piante ed esseri umani, di cui sono stati appena resi noti i primi risultati.
RISULTATI CHE ARRIVANO da uno dei più importanti edifici rinascimentali di Firenze, Palazzo Strozzi: qui fino al 26 agosto avrà sede una mostra-esperimento realizzata dal celebre artista tedesco Carsten Höller – un ex ricercatore di entomologia con un dottorato in fitopatologia – insieme a Stefano Mancuso, direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (Linv) dell’Ateneo fiorentino.
Finora oltre 40 mila persone hanno partecipato direttamente al progetto, composto di due parti: nella prima i visitatori sono chiamati a intraprendere una discesa di 20 metri di altezza dal loggiato del secondo piano al cortile rinascimentale – utilizzando due grandi scivoli appositamente installati da Höller – portando con sé una pianta di fagiolo per consegnarla poi a un team di scienziati, chiamato ad analizzarne i parametri fotosintetici e le molecole emesse come reazione alla discesa. La seconda parte dell’esperimento ha luogo invece negli spazi della Strozzina, dove sono allestite due speciali sale cinematografiche: in una sono proiettate scene di film horror, nell’altra spezzoni di film comici. La paura o il divertimento dei visitatori producono composti chimici volatili differenti che, attraverso due condotti di aspirazione, sono trasportati sulla facciata di Palazzo Strozzi, influenzando la crescita di piante di glicine rampicanti disposte su grandi strutture tubolari.
I DATI FINORA RACCOLTI mostrano che le piante coinvolte nell’esperimento non rimangono indifferenti all’esperimento, tutt’altro: «I risultati paiono confermare l’interazione tra uomini e piante, proprio nella direzione del messaggio ecologico di comunione tra mondo umano e mondo vegetale che The Florence Experiment voleva portare», annuncia il curatore del progetto e direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, Arturo Galansino.
SONO TRE I PRINCIPALI FATTORI emersi dall’interazione tra uomo e piante. Il primo: tutte le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa sullo scivolo, con o senza la presenza dell’uomo, presentano un livello fotosintetico alterato rispetto alle piante cosiddette di controllo, ovvero quegli esemplari che sono stati lasciati in laboratorio in un ambiente e in condizioni ottimali per la loro crescita; in particolare, le piante di fagiolo che hanno effettuato la discesa sullo scivolo con la presenza dell’uomo presentano la più bassa fotosintesi rispetto a quelle che hanno fatto l’esperienza in solitaria.
Il secondo: in assenza dell’uomo si è accertato un aumento significativo dell’emissione da parte delle piante di fagiolo di alcuni composti volatili, rispetto agli esemplari che hanno effettuato la discesa con la presenza dell’uomo.
Il terzo: la crescita di ognuna delle otto piante di glicine posizionate sulla facciata di Palazzo Strozzi risulta influenzata dalla paura o dalla gioia dei visitatori presenti nelle due speciali sale cinematografiche allestite negli spazi della Strozzina, e la direzione dominante del glicine è stata quella della gioia per cinque piante, mentre le rimanenti tre hanno scelto la direzione della paura.
«In conclusione, sembra confermato l’effetto che la presenza dell’uomo ha sulle piante – spiega Mancuso – la riduzione della fotosintesi e dell’emissione di composti volatili in presenza dell’uomo sono statisticamente significative, e denotano il fatto che le piante ci percepiscano».
IN ATTESA DI ESSERE VERIFICATI con ulteriori dati sperimentali – in primis da quelli che verranno elaborati alla conclusione di The Florence Experiment – questi risultati già suggeriscono un dirompente cambio di paradigma. Le piante si sono evolute per sopravvivere rimanendo ferme, ed è per questo che tutte le funzioni che negli animali sono concentrate all’interno di organi specializzati – polmoni, bocca, stomaco, cervello, etc – nelle piante sono diffuse nell’intero corpo; gli organi singoli o doppi sono dei punti deboli, che un essere vivente non in grado di muoversi per sfuggire a predatori e pericoli non può permettersi di avere, se vuole sopravvivere. Eppure, pur non avendo neanche un cervello, le piante mostrano sia una certa intelligenza – intesa come l’abilità di risolvere problemi – sia possibilità di percezione, il che apre a una domanda di enorme portata: le piante sono esseri che integrano informazione, dotati di coscienza?
Esplorando quest’interrogativo, The Florence Experiment propone una riflessione moderna sul concetto di ecologia, mirando a creare una nuova consapevolezza di come gli esseri umani conoscono e interagiscono con gli altri esseri viventi. Un lavoro che, se portato alle sue estreme conseguenze, potrebbe aiutarci a capire non solo la vita delle piante, ma anche la nostra.

Il Fatto 9.8.18
Michele Serra, il maschilismo non ha partito
di Silvia Truzzi


Dovendo aver da ridere con un Serra, preferiremmo sempre si trattasse del finanziere Davide. Stavolta ci è andata male perché dovremo qui contestare alcune affermazioni di Michele, che tanti sorrisi di ammirazione ci ha strappato nella sua carriera. La premessa: ieri su Repubblica Serra ha scritto una pagina contro “il sovranismo di genere”, ultima frontiera del rigurgito reazionario che scuote il mondo: “Il nuovo potere si vendica delle donne”. Lo spunto è un’immagine degli attivisti argentini di “Pro Vida” che manifestano contro l’aborto (dei quali noi pensiamo tutto il male possibile, sottoscrivendo le sacrosante parole che Serra dedica all’interruzione di gravidanza in relazione all’autodeterminazione delle donne). “Potrebbero benissimo essere, al primo sguardo”, aggiunge, “manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter, mai, comunque, da leader”. In “Europa abbiamo imparato a chiamarli sovranisti”: e qui abbiamo una prima obiezione, costituzionale. La nostra Carta è così “sovranista” che mette la sovranità al primo articolo, affermando che appartiene al popolo. Popolo e sovranità che sono stati trasformati nel lessico comune – nel lessico della sinistra, purtroppo – in termini spregiativi, “populismo” e “sovranismo”.
C’è poi la questione etnica, il “maschio bianco”. Una riflessione che ha senso negli Stati Uniti, assai meno in stati come Polonia, Austria, Ungheria o Italia: semplicemente perché si tratta di Nazioni in cui l’immigrazione è più recente e numericamente meno significativa rispetto agli Usa.
E, ultima ma non ultima, la politica: non sono solo la crisi economica e della democrazia ad alimentare le nuove destre. Ma anche, dice Serra, un neo maschilismo che si vede nel “trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orbán e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra…) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana”. Ora, a non voler essere pignoli citando le signore Marine Le Pen in Francia e Alice Weidel di Afd in Germania, ci tocca dire che una parentesi non basta a raccontare che il problema della rappresentanza femminile è assolutamente trasversale.
Non si spiegherebbe altrimenti la rivolta delle donne di quel che resta del Pd (Towanda!) all’indomani delle elezioni. O lo scivolone dell’Espresso, di cui il direttore s’è diffusamente scusato, nel test dell’estate. La domanda era: “Idee politiche a parte, fareste sesso con…” seguivano le foto di quattro politici maschi (Macron, Fico, Giorgetti e Casaleggio) e quattro politiche donne (Le Pen, Appendino, Santanchè, Bongiorno). Per gli uomini le motivazioni erano “perché sa come si fa, perché è poliedrico, perché è indecifrabile”. Per le donne: “per zittirla, per svegliarla” e perfino “per sculacciarla” (davvero). Il che suggerisce un’idea di passività e sottomissione (o, al contrario, di dominio) che poco s’accorda col femminismo che a sinistra va per la maggiore.
Il fatto è che la discriminazione di genere non ha colore ed è diffusissima a vari livelli della società: si vedano i dati su gender gap salariale, rappresentanza politica, disoccupazione; o si veda, per stare ai media, la mappatura delle prime pagine dei giornali che va facendo Michela Murgia. A malinCuore ricorderemo ciò che sostiene ne Il caso Joseph Conrad: “Esser donna è terribilmente difficile perché consiste soprattutto nell’aver a che fare con gli uomini”.

Il Fatto 8.8.18
La fratellanza degli hacker. Occhio all’apocalisse digitale
Si confrontano i senza identità - Black hat
La fratellanza degli hacker. Occhio all’apocalisse digitale
di Michela A. G. Iaccarino


Se sei un hacker, adesso sei tra deserto e casinò. “Pronto, qui parla il passato”. Sono ancora le 2 di notte al fuso di Las Vegas. Fuori dalla finestra del suo albergo si vedono “altri alberghi”. Lui è uno di quelli che da bambini rompevano i giochi solo “per vedere come funzionano”. In città “l’aria è piena di pericoli, le hall degli hotel gravide di nerd”. Questa settimana migliaia di hacker come lui sono in giro per le strade. Nel deserto del Nevada è scoppiata come ogni anno “l’apocalisse digitale”.
È iniziato il Black Hat, il raduno di hacker – di tutte le età, nazionalità, categorie, – più grande del mondo, fondato da Jeff Moss negli anni 90, l’esperto di sicurezza noto come Tangente Nera. Ci sono network, aziende, agenzie di sicurezza in giro, servizi segreti compresi. È Black hat “perché in gergo si dice che ogni hacker indossi un cappello: può essere nero, se usi le tue conoscenze per attaccare, trovare il bug, bucare il sistema, bianco se le usi per difendere”. Tertium datur: ci sono i cappelli grigi. Comunque la regola vuole che “dove c’è un buco, prima o poi arriva un hacker”.
Nella città dove tutto luccica, sul badge d’ingresso puoi scrivere “il nome che vuoi, tanto qui tutti sanno che puoi falsificare tutto, documenti compresi, falsificare è alla base della nostra attitudine, l’hanno fatto tutti almeno una volta nella vita.”. “Il miglior hacker è quello che non sai nemmeno che esiste”. Fisiologia nerd: nessun nome, la prudenza è quella tradizionale della categoria, una paranoia, che “aiuta alla sopravvivenza”.
Finisci a Las Vegas perché hai cominciato craccando videogiochi falsi da bambino. Sotto il cappello nero, da adolescente, hai sognato di cambiare il mondo. Ma “la verità ha un prezzo, la curiosità ne ha un altro. Se li sommi, sono altissimi”. E allora cresci, indossi il cappello bianco: finisci per lavorare per un’agenzia di sicurezza americana sulla spiaggia di una città d’Europa. Diventi un esperto per quelle aziende che vogliono essere difese da quelli che ti assomigliavano una volta. Non rimpiangi il tuo Paese, che non ti ha mai proposto quello stipendio e quella carriera: l’Italia.
Dentro le mura del Mandala Bay hotel adesso si vedono “orde di nerd al pascolo verso convention, suoni metallici post apocalittici. E paranoia nell’aria”. Per cosa? “Per tutto. You know, hackers”. Tutto rimane nelle cassette di sicurezza: ogni chip si può bucare, da quello del passaporto a quello delle carte di credito. Tutti i cellulari sono in modalità aereo: “questo è il luogo perfetto per testare i tuoi sistemi”.
È un gioco a specchio di scambio di competenze, di chiavi e soluzioni digitali. Seminari del Cappello Nero: come iniziare una cyberguerra. come sbloccare gli iPhone senza controllo Apple, infosec, jailbreak, la Nord Corea digitale. Malware reverse engineering, diciture di efficienza ibrida, formule incomprensibili per i non addetti ai lavori. Talk che a volte vengono annullati, “se le informazioni che stanno per essere rese pubbliche, diventano pericolose”: ma “tutto è legale, finché è ricerca, finché è teoria, non si può bloccare la conoscenza solo perché qualcuno la può usare in maniera sbagliata. Non esiste legale e illegale, uso i termini positivo e negativo, tutto dipende dalla tua coscienza”.
Fuori dal Mandala Bay: pubblicità di prostitute che possono arrivare direttamente nella tua stanza d’albergo a qualsiasi ora del giorno e della notte, cattedrali di insegne tecnicolor, spogliarelliste e pixel. Ogni promessa di inviolabilità totale di un sistema è come quella città di lustrini e fuliggine: temporanea, evanescente. In quel pezzo d’America costruito sui byte, miliardi di dati gestiti da sistemi elettronici, tutto può andare in tilt, parcometri compresi, quando loro sono in città e tutti sono in allerta. “Don’t fuck with casino è la regola, con le slot, perché quelli della sicurezza sparano”. Poi comincia la notte dove le luci cancellano il buio e assomiglia poco all’universo nerd che tutti immaginano. Ci sono i dollari. Il resto è laser e afterparty, che all’alba evaporano in nubi di malawere.

La Stampa 9.8.18
Cent’anni fa il Vate volava su Vienna
Lanciando volantini sulla capitale nemica dimostrava le capacità ignorate dell’aviazione
di Gianni Riotta


Il 9 agosto del 1918 il maggiore Gabriele d’Annunzio volava, con la sua squadriglia aerea 87, Serenissima, sulla capitale nemica Vienna, non per bombardarla, ma per lanciare volantini inneggianti all’Italia. Due mesi prima, il 4 giugno, il colonnello Giulio Douhet, che di D’Annunzio era amico e con lui condivideva la fede nell’aviazione, lasciava l’esercito, sdegnato per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere la guerra aerea, che gli era costata perfino una condanna al carcere militare.
Il maggiore poeta D’Annunzio e il colonnello stratega Dohuet, l’autore de Il piacere, 1889, e il futuro autore del manuale militare di aviazione, Il dominio dell’aria, 1921, avevano redatto, terzo firmatario l’ingegner Gianni Caproni, un memorandum per il generale Carlo Porro, datato 3 luglio 1917. Chiedevano ai burocrati, come il vetusto generale Cadorna, di fondare un’aviazione indipendente, per ottenere «il dominio dell’aria».
Pionieri
Né il «Vate», come i fedelissimi appellavano D’Annunzio, né Douhet vengono ascoltati, ma non mollano. E D’Annunzio, malgrado l’incidente del gennaio ’16, che l’ha reso guercio, decide che se l’aviazione non può vincere la guerra con i bombardamenti strategici prescritti da Douhet, almeno potrà servire a un’audace azione di propaganda. Sorvolare l’orgogliosa Vienna, non per seminare bombe, ma, con «sprezzatura» cara agli Arditi, volantini con messaggi di resa per gli austriaci. D’Annunzio amava il volo da quando aveva visto uno dei primi show aerei a Brescia, nel 1909, tra gli spettatori anche lo scrittore Franz Kafka, e per aver volato col pioniere Wilbur Wright. Il suo innato senso di comunicazione estetica, lo porta subito a due raid con volantini, agosto e settembre 1915, su Trento e Trieste in mano agli austriaci.
Il poeta malvisto
Se un’idea lo anima diventa slogan, stavolta «Donec ad metam: Vienna!», lo stato maggiore non può sbatterlo in carcere con Douhet, ma lo considera uno scocciatore, e quando concede il permesso per il raid, lo fa senza entusiasmo. Ricorda lo scrittore Giordano Bruno Guerri, biografo di D’Annunzio e presidente del Vittoriale, casa-museo del poeta: «ll Comando Supremo glielo impedì, nonostante i mille chilometri percorsi in una sorvolata dimostrativa sulle Alpi per esibire la propria resistenza alla fatica. Temevano un fallimento, o addirittura la prigionia o la morte del poeta-soldato. Dopo le sue insistenze, il Comando Supremo e il Governo decisero di autorizzarlo all’impresa, di un’audacia mai tentata prima».
La clausola è però ferrea, se maltempo, caccia nemici o guasti, avessero indebolito la squadriglia di undici Ansaldo Sva (sigla dei progettisti Savoja, Verduzio, Ansaldo), il raid sarebbe stato cancellato. D’Annunzio, sempre «d’annunziano», fa giurare invece ai piloti di andare avanti a ogni costo. Il 2 agosto 1918 la squadriglia è fermata dalla nebbia. L’8, dal vento. Gli equipaggi erano esposti a intemperie e gelo, soli strumenti bussole e mappe, si volava a vista, accecati da una nuvola.
Due volantini diversi
D’Annunzio ha a bordo 50.000 volantini in italiano, sul sito Ebay se ne vende ancora qualcuno, redatti da lui in prosa magniloquente: «In questo mattino d’agosto, mentre si compie il quarto anno della vostra convulsione disperata e luminosamente incomincia l’anno della nostra piena potenza... l’ala tricolore vi apparisce all’improvviso come indizio del destino che si volge. Sul vento di vittoria che si leva dai fiumi della libertà, non siamo venuti se non per la gioia dell’arditezza...Il rombo della giovane ala italiana non somiglia a quello del bronzo funebre, nel cielo mattutino...o Viennesi. Viva l’Italia! »
Con maggiore realismo politico, il comando fa tradurre in tedesco un altro volantino, 350.000 copie, autore il critico Ugo Ojetti, che si conclude con un appello agli alleati, «Viva l’Italia, viva l’Intesa!» e il 10 agosto, in un dispaccio di prima pagina, il New York Times, cita proprio Ojetti, pur elogiando l’impresa di D’Annunzio, «oltre 1600 chilometri percorsi, 800 su territorio nemico» https://goo.gl/RXLv8g . Il raid avrà echi straordinari, la folla di Vienna ha visto i velivoli (parola coniata da D’Annunzio) volteggiare a 800 metri, con il poeta che cerca il museo con l’immagine di Santa Caterina d’Alessandria e ordina al copilota Natale Palli di incrociare indietro. La Frankfurter Zeitung lamenterà che la contraerea tedesca non abbia intercettato gli Ansaldo, l’Arbeiter Zeitung accuserà di codardia gli intellettuali «Dove sono i nostri D’Annunzio? D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano...Anche tra noi si contano...quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!».
L’elogio del nemico è sempre il migliore. Ma l’Italia, pioniera del volo nell’industria, nel disegno, nella strategia, non darà seguito al raid di Vienna. D’Annunzio finirà, dopo l’occupazione di Fiume, isolato, Douhet non avrà il tempo di completare il progetto per una grande aviazione. E durante la Seconda guerra mondiale le nostre città scopriranno, con dolore, la differenza tra volantini poetici e bombe vere, tra poesia decadente e strategia efficiente, tra bel gesto e industria di massa.

Repubblica 9.8.18
Padre Pio cent’anni di beatitudine
“Aspettando un miracolo” è la serie estiva con cui Marino Niola racconta luoghi e santi che la tradizione vuole legati a eventi miracolosi. A questi ci si affida ancora, in un’epoca di crisi dei modelli razionali. Dopo San Gennaro e lo scioglimento del sangue a Napoli, Sant’Antonio da Padova e Santa Rita da Cascia, oggi è la volta di Padre Pio
di Marino Niola


Secondo la tradizione, nel 1918 il frate di Pietrelcina riceveva le stimmate Iniziava così la popolarità di un uomo diventato santo da vivo per acclamazione dei devoti. Anche grazie alla potenza, non solo simbolica, del suo corpo
Igrandi santi non amano fare miracoli, li fanno solo perché gli forzano la mano, diceva Emil Cioran. Sembra il ritratto di Padre Pio, che ha trascorso la vita miracolando i suoi devoti e al tempo stesso mettendoli neghittosamente in guardia dal credere che dipendesse da lui.
Eppure è stato il santo più pregato, idolatrato e sovraesposto del Novecento. In presa diretta col popolo di Dio. Perché ha sempre parlato alla pancia cattolica del Paese. Usando un linguaggio schietto, vernacolare, ruvido, a volte urticante. Più da predicatore di campagna che da teologo. Ma al tempo stesso oscuramente arcaico, imbozzolato in quel saio marrone che a stento riusciva a contenere i suoi lampi carismatici, a disciplinare le sue intemperanze liturgiche, a smorzare le sue eccedenze profetiche. Che commuovevano le folle, perché smentivano le pallide astrazioni della teologia, stracciavano i velluti della prudenza curiale.
Le celebri stimmate, che impiagavano le sue mani grosse da contadino sannita, facevano implodere il dogma e mostravano nel linguaggio muto e incoercibile del corpo, che il Cristo non si trova nelle parole disincarnate del Libro, ma nella sofferenza dei poveri cristi. E proprio quelle ferite, ricevute esattamente cento anni fa, diventarono subito il segno più plateale che una energia speciale attraversava quel cappuccino con le mani bendate.
Un’aura soprannaturale che per un verso lo ha trasformato in un santo vivo agli occhi dei milioni di pellegrini che accorrevano al santuario di San Giovanni Rotondo — dove è vissuto fino al 1968, anno della sua morte — per poter vedere e toccare quelle segnature misteriose. Ma, dall’altro, ne ha fatto una spina nel fianco della gerarchia ecclesiastica, spiazzata da quella forza perturbante e debordante, da quello tsunami sacrale, da quella potenza oracolare che venivano da lontano, come un’onda di ritorno del tempo. E riportavano indietro le lancette della storia verso un orizzonte premoderno, dove i santi erano i medici di Dio, gli elemosinieri della grazia, i giustizieri del cielo, i funamboli della carità, gli sciamani della misericordia.
Resuscitando un’idea così antica, ma proprio per questo così popolare, di una santità incisa soprattutto sul corpo. Che diventa un miracolo esso stesso. Un palinsesto di meraviglie che smentisce le leggi della natura. E sostituisce la fisica con la metafisica. Proprio come i grandi taumaturghi della cristianità. Ma, prima ancora, come gli eroi, gli dèi e gli sciamani delle grandi civiltà indoeuropee. La cui incandescenza corporea diventava un indizio di ardore sacro, di fervore mistico, di collera guerriera. In ogni caso si trattava di eroici furori. Come quelli di Alessandro Magno, la cui temperatura infuocata era direttamente proporzionale all’istinto bellicoso. E al suo odore delizioso che, a detta di Plutarco, era degno dei migliori profumi d’Arabia. O come i calori divini del mitico condottiero celtico Cuchullain, che dopo ogni battaglia veniva gettato sfrigolante nell’acqua gelida per temperarne il bollore.
Anche l’ipertermia di Padre Pio apparteneva di diritto a questo catalogo di anime ferventi e di corpi ardenti. E le voci misteriose sulle sue febbri che sforavano i quarantotto gradi, alimentavano l’aura soprannaturale di quelle caldane fuori scala che mandavano in tilt i termometri.
E questo superamento delle possibilità umane, era già di per sé un indizio miracoloso. Che al calore associa spesso un profumo altrettanto soprannaturale, proprio come nel caso dell’imperatore macedone, dei mistici orientali e di molti celebri santi del passato. È quel che comunemente si chiama odore di santità. Un’espressione nata dal fatto che dopo la morte, questi esseri fuori dalla norma, questi cadaveri eccellenti, emanerebbero un aroma soavissimo. E San Pio di odore di santità ne aveva e ne ha tuttora da vendere! Molti dei fedeli miracolati da lui, infatti, affermano di averne avvertito la presenza proprio dal profumo avvolgente di fiori, violette, gelsomini, rose, mughetti, che riempiva l’aria al momento della grazia.
Ma i superpoteri del frate di Pietrelcina non si fermano qui. Ad arricchirne il book miracolistico c’è anche la bilocazione. La capacità di essere insieme da una parte e dall’altra. Esattamente come i berserker, i guerrieri scandinavi sacri a Wotan, il dio del furore e della profezia, che potevano andare in combattimento mentre il loro corpo dormiva sonni tranquilli nella tenda.
E adesso la bilocazione del frate si è trasformata in ubiquità, da quando la sua statua, acquistabile anche su Amazon ed eBay, punteggia come un feticcio i giardinetti di tutte le periferie del Belpaese. Simbolo di una urbanistica fai da te, che reinventa spazi comunitari e li sacralizza a modo suo, bypassando sia l’autorità amministrativa sia quella religiosa. Ultimo totem di un movimentismo devoto, dove uno vale uno. E di una religione liberista come quella dei fedeli di Atlantic City in New Jersey, che hanno costruito una chiesa monumentale, dove ogni settimana si espone un frammento di un guanto del santo, si enumerano i suoi continui miracoli, mentre all’esterno gli smartphone catturano angeli di luce tra gli alberi.
A Pio viene attribuito anche il dono della cardiognosi, la capacità, ai confini della telepatia, di leggere nel cuore e nell’animo delle persone che andavano a confessarsi da lui. E venivano puntualmente infilate in contropiede dall’uomo di Dio che gli spiattellava in anticipo i loro peccati. Non è un caso che molti pranoterapeuti e altri guaritori gli siano particolarmente devoti e gli attribuiscano spesso la rivelazione e in un certo qual modo la legittimazione dei loro poteri.
Sono proprio questi tratti da sciamano carismatico a spiegare la straordinaria popolarità di questa star della santità, canonizzata prima a furor di popolo e infine elevata da Wojtyla alla gloria degli altari nel 2002.
Grazie soprattutto alle sue guarigioni miracolose, ma anche a quella sorta di miracoli quotidiani compiuti nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza, che lui stesso ha fondato a San Giovanni Rotondo nel 1956. Oggi è un’eccellenza della sanità meridionale, che lega taumaturgia e scienza, natura e soprannatura.
Coniugando al presente una concezione della religione come servizio pubblico, come assistenza agli ultimi, come consolazione dei sofferenti. E della ricerca medica come continuazione della provvidenza con altri mezzi.
- 4. Continua