lunedì 2 luglio 2018

Il Fatto 2.7.18
“Sono stata richiedente asilo. Respinta, finii a Auschwitz”
Per la senatrice a vita c’è il pericolo di tornare a pesanti discriminazioni: “La massa è indifferente, sono pochi a fare le scelte”
di Gianni Barbacetto


“Sono entrata in Senato in punta di piedi”, racconta Liliana Segre. “Io sono vecchissima, compio 88 anni a settembre. Non avrei mai pensato di diventare uno dei cinque senatori a vita. Quando mi hanno telefonato dal Quirinale, pensavo che volessero consegnarmi un certificato, una targa, una medaglia. Invece poi mi ha chiamato il presidente Sergio Mattarella e mi ha detto: ‘Cara signora, questa mattina l’ho nominata senatrice a vita’. Sono rimasta sbalordita. Quando mi ha ricevuto nel suo studio, gli ho detto: ‘Grazie presidente! Ma chi le ha fatto il mio nome?’. E lui mi ha risposto con queste parole: ‘Sono io che l’ho scelta. Chiunque dovesse dirle che mi ha suggerito il suo nome farebbe millantato credito’”.
La nomina è avvenuta nell’ottantesimo anniversario dell’introduzione in Italia delle leggi razziali fasciste. Quando lei scoprì di non potere più andare a scuola.
Avevo otto anni. Fu in quell’occasione che scoprii di essere ebrea. La mia era una famiglia ebraica atea, non avevo mai seguito forme religiose di alcun tipo. Mi sono trovata a essere ebrea con le leggi razziali, quando non sono più potuta andare in terza elementare. Oggi bisognerebbe avere la pazienza di leggere tutti gli articoli di quelle leggi, che ai cittadini italiani di religione ebraica proibivano non solo di andare a scuola, o di far parte dell’esercito o dell’amministrazione pubblica, ma anche tante altre cose: tenere cavalli, o tracce di lana (per gli stracciai di Roma)… Per farti sentire diverso, inferiore.
Lei ha fatto l’esperienza, da bambina, di essere una richiedente asilo respinta, arrestata, detenuta.
Non posso dimenticare che, quando mio padre nel 1943 decise – troppo tardi, purtroppo – la fuga dall’Italia, siamo stati dei richiedenti asilo respinti dalla Svizzera al confine. Eravamo io, mio papà e due cugini. Di noi quattro, solo io alla fine sono sopravvissuta. Poi siamo stati arrestati – io avevo 13 anni – e detenuti nei carceri di Varese, Como e Milano San Vittore. E infine deportati ad Auschwitz. A 14 anni ho fatto per un anno lavoro-schiavo in una fabbrica di munizioni della Siemens. Sono stata liberata nel maggio del 1945, dopo essere stata bambina in una situazione che neppure Primo Levi riesce a descrivere fino in fondo, tanto che scrive: “Auschwitz è indicibile”.
Che cosa pensa quando passa davanti alla Stazione Centrale di Milano? Dal binario 21 partì per Auschwitz.
La Stazione Centrale allora era doppia. Sotto i binari che conosciamo, ce n’erano altri sotterranei da cui partivano le merci e gli animali. Da lì – dove ora è stato realizzato il museo della Shoah – siamo partiti, mentre attorno la città era silente, indifferente. Lì sotto entrammo in centinaia, nell’indifferenza della città.
Lei ama Milano?
La amo moltissimo. Sono nata a Milano, come i miei genitori e uno dei miei nonni, milanese tra i fondatori della Croce verde. Un mio zio era un fascista della prima ora e poi si è disperato per tutta la vita.
Una città indifferente, ha detto. Anche oggi?
La amo nonostante tutto, come amo l’Italia. Oggi ci sono spiriti che tentano di non essere indifferenti. Ma, come sempre, sono pochi a fare scelte. La massa non sceglie, è indifferente. Non solo a Milano, ma in Italia e nel mondo.
Tornata da Auschwitz, aveva più voglia di dimenticare o di raccontare?
Ha sempre vinto il desiderio di vivere, quando tutto attorno era morte. Ma al ritorno la delusione è stata grande, perché tornavamo, ma non trovavamo più niente, né la casa, né la famiglia. E nessuno aveva voglia di ascoltarci. Tutti avevano vissuto storie dolorose, nessuno aveva voglia di ascoltarne di ancor più dolorose. La maggior parte di noi sopravvissuti ha taciuto. Io ho taciuto per 45 anni. Dai miei 15, compiuti pochi giorni dopo il mio ritorno, fino a quando, a 60 anni, sono diventata nonna. Allora qualcosa mi ha spinto a parlare. Senza odio. Cercando di parlare non troppo di morte, ma il più possibile di vita. Mi ha spinto il fatto che avevo vinto su Hitler, perché io era viva, ero diventata mamma, e perfino nonna: aveva vinto la vita. Così ho deciso di non restare più chiusa in casa, ma di testimoniare ciò che avevo vissuto perché restasse memoria. Ho capito che mi era uscita la voce.
Oggi per lei è più difficile parlare?
Il clima è peggiorato. Oggi c’è una cosa diversa dall’indifferenza di allora. Sono passati 80 anni dalle leggi razziste e il razzismo è minimizzato, è tollerato, “ma i fascisti hanno fatto anche cose buone”. Sì, facevano arrivare i treni in orario: soprattutto quelli per la deportazione. C’è una rivalutazione di quegli anni.
Vede il pericolo di un ritorno a nuove forme di razzismo? Verso gli ebrei, o magari verso gli immigrati, gli arabi, i neri, i rom. O, più in generale, verso i poveri?
Sì, c’è il pericolo di tornare a forme pesanti di discriminazione. Non credo ci sia pericolo immediato per gli ebrei, anche se ritengo che l’antisemitismo non sia mai morto. Subito dopo la guerra era “osceno” mostrarsi razzisti e antisemiti; adesso, dopo tanti anni, vale tutto. Prevale lo hate speech, il discorso dell’odio: dappertutto, dalla riunione condominiale alla politica. All’indifferenza oggi si somma il discorso dell’odio. E questo mi fa paura.
Su cosa s’impegnerà in Senato?
M’impegnerò contro i “discorsi dell’odio” e per introdurre l’insegnamento dell’educazione civica fin dalla prima elementare. Poi vorrei che fosse reso obbligatorio l’insegnamento del 900 nell’ultimo anno di ogni ciclo scolastico.
In Senato ha deciso di iscriversi al gruppo misto. E al momento di votare la fiducia al governo Cinquestelle-Lega ha scelto l’astensione.
Io nella mia vita non ho mai fatto politica attiva. Ma la mia storia è quella che è. È chiaro che non mi posso mettere con i fascisti. Ma sono entrata in Senato in punta di piedi. Ho deciso di non schierarmi. Ho grande rispetto per la democrazia, le istituzioni e per la nostra Costituzione che è bellissima. Dopo l’astensione alla fiducia, valuterò i provvedimenti del governo volta per volta. Una parte di questo governo mi è misteriosa, dunque cercherò di capire. Senza pregiudizi.

La Stampa 2.7.18
Altri 60 morti nel Mediterraneo
Sos dalla Libia: “Subito i mezzi”
di Fabio Albanese


C’è stato un altro naufragio ieri nel mare della Libia: un gommone di migranti si sarebbe rovesciato e in 63 risultano dispersi, altri 41 salvati dalla Guardia costiera libica e portati a Zuara. Ne ha dato notizia ieri sera l’Unhcr Libia. In precedenza, i libici avevano recuperato altre 220 persone (115 consegnati da un mercantile turco che li aveva in precedenza salvati) ma anche 6 cadaveri, probabilmente del naufragio di venerdì con 100 morti. Nel Mediterraneo Centrale non ci sono più navi di volontari. Partita per Barcellona, con i 59 migranti recuperati sabato, la Open Arms , il salvataggio è affidato alla sola Guardia costiera libica. Le navi militari di Eunavformed e di Frontex navigano ormai più arretrate. Secondo quanto riferisce l’Unhcr, nella settimana tra 21 e 28 giugno sono stati riportati in Libia 2425 migranti; diecimila nei primi 6 mesi dell’anno e la metà tra maggio e giugno. Una situazione che per Oim e Unhcr «è drammatica». La portavoce dell’Oim in Libia, Christine Petrè, denuncia il sovraffollamento dei 20 centri in cui i migranti vengono portati, con situazioni igieniche insostenibili per le alte temperature.
L’allarme di Sea Watch
Ora però la Guardia costiera libica chiede aiuto all’Italia. Dopo che sabato il portavoce della Marina, Ayob Amr Ghasem, aveva detto che «le 12 motovedette che Roma vuol mandarci sono propaganda», ieri ha aggiustato il tiro il capo di Stato maggiore della Marina, Salem Rahuma: «Vorrei che gli aiuti arrivassero il prima possibile, per il bene dei migranti». Con la Open Arms verso la Spagna, la Aquarius di Sos Mediterranee e Msf a Marsiglia per rifornimenti e le 3 navi di Sea Watch, Sea-Eye e Lifeline ferme nel porto della Valletta, al momento le Ong sono fuori gioco, come raramente accaduto in passato. Oggi il comandante della Lifeline, Carl Peter Reisch, sarà interrogato dai giudici maltesi. La nave non può muoversi perché sotto indagine. Situazione diversa, ma poco chiara, per le altre due, la Sea Watch 3 e la Seefuchs: «Siamo fermi a Malta per manutenzione programmata da prima di questa crisi – spiega la portavoce di Sea Watch, Giorgia Linardi –; poi, certo, anche noi abbiamo appreso dalla stampa della volontà del governo di bloccare i porti maltesi, ma a noi non è stato notificato nulla. Se al momento di ripartire, verso metà settimana, dovesse esserci impedito, ci difenderemo, ma noi con il governo di Malta vogliamo dialogare».

Repubblica 2.7.18
Migliaia di siriani in fuga: confini chiusi in Israele e Giordania
di Francesca Caferri


Migliaia di persone intrappolate, senza nessun posto dove andare: alle spalle, combattimenti di terra e bombardamenti aerei. Di fronte, il filo spinato: è quello che sta accadendo nella zona intorno a Dara’a, uno degli ultimi bastioni dell’opposizione in Siria, assediati dall’esercito di Damasco appoggiato dall’aviazione russa.
Secondo le organizzazioni umanitarie, circa 50mila persone sono in fuga, dirette verso la Giordania o Israele, i due luoghi sicuri più vicini.
Ma entrambi i Paesi hanno chiuso le frontiere, sostenendo di non poter più accogliere siriani in fuga, se non in casi gravi: sei bambini rimasti senza genitori sono stati fatti entrare in Israele, qualche malato grave in Giordania.
I governi dei due Stati hanno inviato al confine materiale umanitario: centinaia di tende, quintali di medicinali e di scorte di cibo e acqua. Ma hanno respinto l’ipotesi di ulteriori aperture: «Dobbiamo lavorare perché i fratelli siriani possano tornare nelle loro case», ha detto il premier giordano Omar Razzaz. Parole simili sono arrivate dall’israeliano Bibi Netanyahu: Israele ha negli anni assistito e curato migliaia di siriani colpiti dalla guerra civile, ma ha più volte ribadito che non intende aprire le frontiere a un flusso massiccio di siriani.
Ieri è stata rafforzata la presenza dell’esercito israeliano lungo le alture del Golan, zona di confine con la Siria: «Non interverremo nella guerra ma abbiamo intenzione di difendere i nostri confini», ha detto un portavoce.

Corriere 2.7.18
Gli Intellettuali europei tacciono
Emergenza immigrazione, la cultura non ha parole
di Gian Arturo Ferrari


L’Homo sapiens, cioè noi, è una specie irrequieta. E molto adattabile. Invece di starsene buona nella sua culla africana si è sparsa dovunque. Giunta all’estremo nord-est dell’Asia è passata sui ghiacci in Alaska e da lì in circa diecimila anni – un tempo brevissimo – attraverso tundre, praterie, deserti, foreste pluviali e vertiginose montagne è arrivato ai ghiacci opposti della Terra del Fuoco. Inseguiva più cibo e più spazio. Benessere e libertà, se vogliamo, proprio come gli odierni migranti, maldestramente definiti economici. Per quale altro motivo infatti si dovrebbe emigrare? Profughi, rifugiati, esuli non c’entrano, sono una faccenda diversa. Dunque la storia delle migrazioni è la storia dell’umanità, o la sua parte maggiore, come dovremmo ben sapere noi italiani che abbiamo smesso di migrare – a milioni – negli anni Cinquanta del secolo scorso. La presente ondata migratoria (non sarà l’ultima, mettiamoci il cuore in pace) ha ragioni chiare: la crescita della pressione demografica in Africa, dovuta anche, per grazia di Dio, al crollo della mortalità infantile. E il fatto che chiunque disponga di un telefonino può vedere con i propri occhi quanto si viva meglio nel mondo occidentale e segnatamente, nonostante tutte le nostre lamentazioni, in Europa. Ma se le ragioni sono chiare le soluzioni sono oscure: l’idea di bloccarli a casa loro richiede muraglie o cannoniere, quella di aspettare che in Africa si stia come in Europa apre orizzonti secolari. Comunque sia, si tratta sempre di soluzioni dell’hic et nunc: pratiche, amministrative, politiche. Importantissime certo, come si vede dagli effetti elettorali, ma che non toccano il nodo centrale: qual è l’atteggiamento giusto, la posizione ragionevole, degna di persone civili, rispettosa delle esigenze di tutti? Non è più un problema politico, è un problema culturale e finché non si affronta questo secondo sarà difficile risolvere il primo. Ora il fatto davvero stupefacente è il silenzio tombale della cultura non solo italiana ma europea di fronte al tema che l’attualità ci spinge sotto gli occhi ogni giorno. Questa è una novità assoluta. Nel troppo deprecato secolo scorso la cultura è sempre stata legata, si è alimentata del rapporto con la realtà. Dall’intervento nella Prima guerra mondiale, alla nascita del comunismo, del fascismo, al nazismo, alla guerra fredda, alla decolonizzazione, al Vietnam, al terrorismo, al crollo dell’Unione Sovietica, all’islamismo, la cultura europea si è furiosamente e spesso chiassosamente accapigliata su ogni spunto che l’attualità offrisse. Sbagliando, molte volte, identificandosi con la politica, tradendo la propria stessa ragion d’essere e giungendo, non di rado, a eccessi ridicoli. Sempre meglio però di questo mutismo inarticolato. Come se decenni di divagazioni deboli e liquide, di astrazioni strutturaliste, di melanconie nichiliste avessero finito per togliere all’Europa il suo maggior vanto, cioè la forza del suo pensiero, la capacità di guardare senza timori e senza pudori nel fondo delle cose. Oggi di fronte al problema dell’emigrazione la cultura europea gira la testa dall’altra parte, non vuole abbassarsi a questioni così spicciole, in realtà non sa che cosa dire. Certo, non è facile, ma quando mai ha affrontato prove facili? Il lato peggiore è che dopo tanto sgolarsi e sbracciarsi per cause spesso dubbie tace davanti a quel che la gente comune avverte più acutamente, si rifugia in giaculatorie per esorcizzare la paura di non saper rispondere. Forse mai nella storia recente si è aperto un abisso così profondo tra comune sentire ed elaborazione intellettuale. L’unica voce che ha risuonato è stata quella del cardinal Ravasi, il quale ha citato un versetto del Vangelo. Nulla da eccepire, per carità, ma forse l’orgogliosa cultura europea un ulteriore segno di vita avrebbe potuto darlo.

Repubblica 2.7.18
La metamorfosi del movimento
La Lega nazionale partito personale alla conquista del Paese
di Ilvo Diamanti


La Lega è tornata a Pontida.
Come avviene da tanti anni. Per rinnovare il “legame” con la propria storia. Con la propria identità. Indipendentista.
Nordista. Padana. Ma oggi più che a rafforzare un progetto politico, la manifestazione ha celebrato un rito della memoria.
Per rammentare, ai militanti e agli “italiani”, ciò che la Lega è stata, in passato. E ora non è più.
Perché la Lega è l’ultimo partito sorto nella prima Repubblica.
Prima della “Caduta del Muro”.
Anche se, dai primi anni Ottanta ad oggi, ha modificato orientamento e nome, in diverse occasioni. Dalle Leghe autonomiste (Liga Veneta, Lega Lombarda, Union Piemonteisa…) fino alla Lega Nord. Oggi, però, è davvero un’altra Lega. È la Lega Nazionale di Salvini. LNS. Un partito non più specificato dal territorio, da “un” territorio.
Perché è “nazionale”. E tanto “personalizzato” da essere divenuto “personale”.
L’intervento di Salvini dal palco, ieri, è apparso ed è stato uno show. “Spettacolare”. Recitato da un attore efficace e consumato.
Che ha “impersonato” un intero “popolo”. In lotta contro le élite.
Contro l’Europa dei mercati e dei burocrati. Contro l’invasione dei migranti che ci minaccia. Contro le ONG, le associazioni volontarie che, nella rappresentazione di Salvini, lucrano sulla disperazione. Salvini. Un “attore” e un “f-attore” di “rottura” con il passato. Per alcune ragioni, già accennate.
La prima: il superamento dell’identità e della presenza territoriale. La Lega, oggi, è apertamente “nazionale”. Sul palco, davanti al leggio da cui parlava il leader, campeggiava, in bella evidenza, lo slogan programmatico: “Prima gli italiani”. La Lega, d’altronde, alle elezioni del 4 marzo, ha conseguito il massimo risultato della propria storia – il 17,4% attraverso una crescita elevata in tutte le aree del Paese. Da Nord, al Centro Nord, un tempo di sinistra, fino a tutto il Mezzogiorno. La “popolarità” personale del Capo, d’altronde, nel Centro Sud e nel Sud arriva al 55%, sopra alla media nazionale.
In secondo luogo: il riferimento esplicito alla Destra, o meglio ai partiti sovranisti, e dunque nazionalisti, che operano in Europa. Contro la Ue e, in particolare, contro la Germania della Merkel e la Francia di Macron. Gli elettori della Lega, non per caso, si collocano in larga maggioranza (70%) a Centro -destra e a Destra.
In terzo luogo: la personalizzazione. Spinta fino all’estremo. Fino a farne un “partito personale”, per evocare Mauro Calise. Al governo di una Repubblica Vice-Presidenziale (la definizione è di Fabio Bordignon), guidata non dal Premier Giuseppe Conte, ma dal Vice-Premier Matteo Salvini.
“Assistito” dall’altro Vice-Premier, Luigi Di Maio.
Perché a scrivere il programma e a dettare l’agenda del governo, di fatto, è Salvini. Con le sue iniziative politiche, o meglio, “tattiche”. Finalizzate a intercettare e a orientare il clima d’opinione. Influenzato, ormai da un mese, dalla “lotta contro gli immigrati” - non saprei come chiamarla altrimenti. Con alcune “ragioni” indubbiamente “ragionevoli”. Perché il sostegno dell’Unione Europea all’Italia esiste solo a parole. La Francia di Macron, in particolare, è ben determinata a chiudere le sue frontiere. Nella nostra direzione.
Semmai, a scavalcarle, com’è avvenuto a Bardonecchia, per inseguire gli “stranieri” che le interessano. Il Governo vice-presidenziale di Salvini ha, dunque, orientato, fin dall’inizio, la propria azione alla chiusura verso gli immigrati. Per fermare i disperati che arrivano dal Nord Africa. Attraverso le porte della Libia. Un “Paese senza Stato”.
Così abbiamo inseguito anche noi, sui media, l’Aquarius, mentre altre navi trasferivano sulle nostre coste i migranti. E la maggioranza degli italiani ha parteggiato per il governo.
Garantendogli un largo consenso. La LNS è, dunque, il “partito leader”, guidato dal “vero leader” del governo. Sostenitore della “sovranità” nazionale. Matteo Salvini: ieri si è impegnato ad “abbattere il muro di Bruxelles”.
Contro l’Europa a trazione Franco-Tedesca. Salvini, amico e alleato dei Paesi del patto di Visegrad. In primo luogo, l’Ungheria. Che, da sempre, chiude le proprie frontiere.
(Anche verso e contro di noi.) Agli immigrati. Ma non certo alle risorse che giungono dalla Ue.
La Lega di Salvini: oggi è il complemento del M5s, primo partito nel Centro Sud e nel Sud.
Mentre il territorio della LNS si allarga dal Nord fino al Centro Nord. Dove un tempo, pochi anni fa, in un’altra epoca, era insediata saldamente la sinistra.
D’altronde la Lega è l’ultimo partito di massa. Ideologico, organizzato. Anche se la sua ideologia è diversa. Non disegna orizzonti e scenari. Perché più del futuro oggi conta il presente. Più delle utopie: le paure topiche.
La LNS interpreta e alimenta l’inquietudine di un Paese inquieto. E dis-orientato. Attratto dalla figura di un “uomo forte”.
Per questo, nei sondaggi, la Lega ha superato il 30% dei consensi.
Primo partito in Italia. Davanti allo stesso M5s. Rischia di occupare il Centro, non solo politico, ma anche territoriale e (si fa per dire) culturale del Paese.
Un Paese impaurito che ha bisogno degli “altri”, di nemici, per ritrovare se stesso.

Il Fatto La cattiveria
«Bergonzoni, sottosegretaria ai Beni culturali (Lega): “Non leggo un libro da tre anni”. Ma devi arrivare a cinque per ritenerti guarita

Il Fatto 2.7.18
Regioni rosse, l’incapacità del Pd di ascoltare il disagio
La caduta delle roccaforti storiche in Emilia Romagna, Toscana e Umbria, rappresenta il punto più basso nella storia elettorale della sinistra. Il primo campanello di allarme suonò alle elezioni regionali del 2014
Regioni rosse, l’incapacità del Pd di ascoltare il disagio
di Federico Fornaro


Qualche osservatore dopo il primo turno delle recenti elezioni comunali si era improvvidamente spinto fino al punto di parlare di un recupero del Pd e del centrosinistra rispetto al disastro delle politiche del 4 marzo scorso. I risultati del secondo turno, invece, hanno restituito – in particolare nei Comuni capoluogo di provincia – la fotografia di uno dei punti più bassi nella storia elettorale della sinistra italiana. A cadere, come noto, sono state alcune delle roccaforti storiche come Pisa, Massa e Siena e città simbolo come Imola, la città di Andrea Costa e più in piccolo, Sarzana in provincia di La Spezia, rossa da sempre. Come risvegliatisi da un lungo torpore, in molti hanno scoperto che stavano scomparendo dalla geografia politica italiana le cosiddette regioni rosse, le aree di insediamento storico della sinistra che avevano resistito a tutti gli attacchi, Berlusconi dei tempi d’oro compreso. Emilia Romagna, Toscana e Umbria (con l’aggiunta delle Marche) sono state nel secondo dopoguerra il “cuore rosso” dell’Italia, un feudo prima di comunisti e socialisti e poi di tutte le successive trasformazioni del Partito comunista per giungere fino all’odierno Partito democratico.
La serie storica dei dati elettorali dal 1946 ci aiuta a capire la profondità di queste radici. Nelle elezioni del 1948, ad esempio, il Fronte Popolare (Pci e Psi) si fermò a livello nazionale al 31% dei voti, mentre nella circoscrizione di Bologna-Ferrara-Ravenna e Forli arrivò al 52%, in quella di Parma, Modena, Piacenza e Reggio Emilia al 50,4%. Analogamente in Toscana, i frontisti ottennero il 49,2% a Firenze-Pistoia, il 43,1% a Pisa-Livorno-Lucca e Mass Carrara e il 55,2% a Siena-Grosseto-Arezzo. In Umbria, invece, il dato del Fronte Popolare fu del 43,9% e nelle Marche il 34,2%. A dimostrazione della persistenza di questo radicamento nelle regione rosse della sinistra, nelle ultime elezioni della cosiddetta Prima Repubblica (anno 1992), se il Partito della Sinistra (Pds) si fermava al 16,1%, i risultati delle circoscrizioni di Emilia e Toscana erano mediamente il doppio: Bologna (34,2%), Parma (30,2%), Firenze (32,5%), Pisa (25,0%) e Siena (32,1%). Stesso andamento anche con l’Ulivo di Prodi, che nel 2006 otteneva a livello nazionale il 31,3%, in Emilia Romagna il 44,8%, in Toscana il 43,3%, in Umbria il 39,2% e Marche 39,1%. Lo stesso Pd di Bersani, nel 2013, confermava il suo radicamento in quei territori: Italia 25,4%, Emilia Romagna 37,0%, Toscana 37,5%, Umbria 32,8% e Marche 27,7%.
Il primo vero campanello di allarme per il centrosinistra suonò forte e chiaro nelle elezioni regionali del 23 novembre 2014, quando Stefano Bonaccini divenne presidente con il 49,1% dei consensi, ma con soltanto il 37,7% dei votanti. E a chi sottolineava con grande preoccupazione quel dato di astensionismo record, il segretario-presidente del Consiglio, Matteo Renzi, rispose, considerando anche la vittoria in Calabria con uno dei suo tweet sprezzanti: “2-0 per noi”.
Una clamorosa incapacità di ascoltare il segnale di disagio che arrivava dalla regione che più di altre si era caratterizzata per una straordinaria propensione alla partecipazione politica e al voto. Con le sole eccezioni del 1953 e del 1963, infatti l’Emilia Romagna era stata la regione italiana con la più alta percentuale di votanti: fino al 1996 superiore al 90% con punte nel 1972 e 1976 del 97,4%. Che in una regione con questa storia, un modello di partecipazione, cultura civica e coesione sociale studiato anche negli Stati Uniti, potessero non recarsi alle urne circa due elettori su tre fu vissuto da Renzi quasi come un fattore di modernità: l’unica cosa che contava, in fondo, era aver vinto. Anche il 48,2% di votanti alle regionali in Toscana l’anno dopo, il 31 maggio 2015, non preoccuparono i vertici dem anche in ragione della vittoria del governatore Enrico Rossi con il 48,2%. Da allora, però, sono arrivate sconfitte in serie e oggi, nella Toscana renzizzata, il Pd governa più solo Lucca (vinta lo scorso al ballottaggio con il 50,5%), Prato e Firenze che votano l’anno prossimo. Se è innegabile che il modello economico-sociale emiliano, costruito su un patto tra produttori (sistema di piccole e medie imprese, cooperative, sindacati dei lavoratori) e su di un welfare di stampo scandinavo, stava declinando da tempo, è altrettanto evidente che la svolta renziana ha impresso una accelerazione nefasta.
Se poi i primi segnali verranno confermati e Lega e M5S si metteranno d’accordo su di un contratto di governo ad hoc per le elezioni regionali dell’Emilia Romagna del 2019 e della Toscana e dell’Umbria del 2020, il lavoro di distruzione di un patrimonio politico, culturale e sociale rischia di essere completato per mano dell’alleanza giallo-verde. D’altronde il 4 marzo 2018 la prima coalizione in Emilia Romagna è già stata il centrodestra (33,1%) con la Lega al 19,2% e il M5S al 27,5%, mentre in Toscana il centrosinistra ha vinti di una incollatura (33,7% contro il 32,1% del centrodestra), con la Lega al 17,4% e il M5S al 24,7%.

La Stampa 2.7.18
Da Fico a Zingaretti: ma a sinista qualcosa si muove
di Federico Geremicca


Ora che il progetto di Matteo Salvini si fa più chiaro negli obiettivi («Le prossime europee saranno un referendum tra noi e le élite»), negli strumenti («Una Lega delle leghe che unisca tutti i populisti») e perfino nell’orizzonte temporale («Governeremo trent’anni»), il compito che attende l’opposizione democratica si delinea in tutta la sua importanza, ma anche difficoltà.
Infatti, l’ondata di favore che accompagna il governo gialloverde non sembra attenuarsi: e del resto, anche a Pontida, quella marea montante è stata nutrita con slogan ad effetto e - per quanto irrealizzabili - non facili da avversare, in tempi di brusche semplificazioni («Sono pronto a ignorare i limiti del deficit: prima la felicità dei popoli»). Eppure qualcosa si muove: emergono insofferenze, si lavora a tentativi di riorganizzazione. E qualche segnale di vita arriva perfino dalla cosiddetta società civile.
A tenere assieme questi accenni di reazione non sono controproposte in materia di economia o di immigrazione, ma qualcosa di perfino pre-politico: parliamo di valori, di principi non equivocabili e di diritti - di diritti civili prima di tutto - che molti cittadini consideravano ormai acquisiti e non contrattabili. Non è un caso, insomma, se per manifestare la sua contrarietà alla chiusura dei porti alle navi delle Ong, il presidente Fico sia ricorso alla parola «solidarietà»; e se il sottosegretario Vincenzo Spadafora (M5S), nel giorno del Gay pride, abbia polemizzato con ministri ed esponenti leghisti avvertendo che «sui diritti non si torna indietro».
Varrebbe forse la pena di annotare come - tanto al primo quanto al secondo - Di Maio e Salvini abbiano replicato nell’identica e liquidatoria maniera: si tratta solo di opinioni personali. Come se fosse un’eresia - o peggio una colpa - avere opinioni personali in una fase nella quale su questioni delicate e irrisolte (dalla sicurezza all’immigrazione, fino all’Europa) si pretenderebbe l’affermazione nella maggioranza di una sorta di incontestabile «pensiero unico».
Per questo è importante che un segnale che qualcosa comincia a muoversi a quattro mesi dal terremoto del voto di marzo, arrivi anche dal Pd. Dopo mesi di paralisi e polemiche sempre meno comprensibili, i giochi sembrano finalmente avviarsi con le prime candidature alla segreteria (da ieri è ufficiale quella di Nicola Zingaretti) e con qualche embrione di ragionamento intorno al come rimettere in campo un’opposizione degna di questo nome.
Non sono per ora prevedibili né il percorso che sarà scelto né l’approdo cui quel percorso porterà: un fronte repubblicano (come auspica il ministro Calenda), qualcosa che vada comunque oltre il Pd (come pare suggerire Romano Prodi) o un rilancio del Partito democratico, secondo l’opinione di Zingaretti e - al momento - della maggioranza del Pd. A fronte delle insofferenze che paiono cominciare a montare nel partito di Beppe Grillo, ora si ipotizza la possibilità di un dialogo con pezzi di quel Movimento. Si tratta di un’ipotesi che meriterà di esser verificata: ma sarebbe inutile farlo prima di aver definito con nettezza il profilo, la rotta e perfino il linguaggio della nuova opposizione da mettere in campo.
Non sarà facile, perché su molti dei temi che cavalcherà il governo sovranista si tratterà di andar contro i sentimenti e le opinioni oggi prevalenti nella pubblica opinione e, dunque, nell’elettorato. Ma non è una missione impossibile se come primo terreno di unità - quasi un collante etico di questa nuova opposizione - si sceglierà appunto quello dei diritti e delle conquiste civili, che nessuno immaginava potessero tornare in discussione.
Si tratterà di riallacciare fili, riprendere rapporti e - per il Pd - di procedere ad una inevitabile sia pur implicita autocritica. Occorrerà infatti tornare ad ascoltare intellettuali e mondo della cultura (i professoroni e i professionisti della tartina, di renziana memoria...); servirà ricostruire un rapporto col mondo del lavoro e, dunque, col sindacato; ed al vasto e variegato universo del volontariato e dell’associazionismo cattolico e laico bisognerà forse confermare con più nettezza che ciò per cui si impegnano è considerato un valore imprescindibile anche dall’opposizione politica che verrà in campo.
Solo così, forse, si riuscirà a smentire la profezia di Salvini sui trent’anni di governo populista. E solo così, magari, si riuscirà a far sentire meno solo uno scrittore come Roberto Saviano: o un calciatore di colore come Mario Balotelli, per settimane - incredibilmente - primo e unico oppositore del governo gialloverde.

La Stampa 2.7.18
Così prende forma la federazione sovranista per le Europee 2019
di Amedeo La Mattina


Nel gennaio del 2017 c’erano tutti i populisti e sovranisti d’Europa a Coblenza, nel capoluogo della Renania-Palatinato. C’era pure Matteo Salvini che faceva foto e selfie con Marine Le Pen, l’olandese Geert Wilders, l’austriaco Hereld Vilimsky, e Frauke Petry, l’allora leader di Alternativa per la Germania che successivamente ha lasciato questo partito perché troppo di destra. Lo slogan del segretario della Lega, eurodeputato già molto coccolato dai colleghi di questa destra radicale, era «cacciare le Merkel, gli Hollande, i Renzi». Con il premier del Pd ci è riuscito. Contro Hollande la sua amica Marine non ce l’ha fatta, ma ora il vicepremier italiano non passa giorno che non scagli parole velenose (ricambiate) contro il presidente francese Emmanuel Macron.
Colpire Berlino
Ora è il turno della Merkel che ha vinto le elezioni ma si trova nel governo la Csu e il ministro dell’Interno Horst Lorenz Seehofer che cercano, disperatamente, di fermare l’Adf xenofoba nel voto bavarese del 14 ottobre prossimo. Cercano di farlo con una rincorsa tutta a destra. Ecco, per vie diverse, ma con intenti comuni, l’Internazionale populista teorizzata da Steve Bannon, l’ex ideologo di Donald Trump, punta a ribaltare i rapporti di forza in Europa. Nel 2019 si voterà per eleggere il Parlamento europeo e successivamente verrà rinnovata la Commissione. Sarà questa l’occasione per sferrare il maglio mortale contro la Grossa Coalizione che da decenni domina il Vecchio Continente: scardinare la maggioranza composta da popolari e socialisti che da quasi un decennio vede protagonista la cancelleria Angela Merkel.
L’unione degli ultra-nazionalisti
Salvini è dentro questo progetto che coltiva da tempo, curando i rapporti anche con il premier ungherese Orban e il suo partito (Fidesz) che fanno parte del Ppe, ma sono i capofila dei Paesi ultra-nazionalisti del gruppo di Visegrad. Nella Lega spesso hanno sentito dire dal loro capo che Orban non rimarrà a lungo nel Ppe, quasi a immaginare che gli ungheresi eletti nel 2019 non andranno più a iscriversi al gruppo del Ppe.
Il leader della Lega ha stretti rapporti con gli austriaci, con il premier conservatore Sebastian Kurtz e Heinz-Christian Strache, leader del partito di estrema destra al governo, la Fpö. Un feeling particolare c’è da tempo con il Pvv olandese di Geert Wilders.
Con tutti loro Salvini e con i populisti svedesi vuole creare una «Grande Rete» per presentarsi alle europee del prossimo anno con un programma di intenti comune: una federazione che ha come slogan «Libertà per l’Europa». Bersagli comuni la Merkel, Macron e Bruxelles. «Quelli con cui vogliamo e dobbiamo lavorare si chiamano Heinz-Christian Strache, Sebastian Kurz, Matteo Salvini e anche Viktor Orban», ha detto sabato Joerg Meuthen, uno degli esponenti di vertice del partito della destra oltranzista tedesca Alternative für Deutschland, durante il congresso federale. Il governo di Vienna è ritenuto un «alleato», per la «fortificazione dell’Europa» contro l’islamizzazione e l’immigrazione.
Il tour
Nelle prossime settimane Salvini farà un tour in Europa nella doppia veste di ministro dell’Interno e di leader della Lega. Di un partito che ieri a Pontida ha proiettato fuori i confini. «Io penso a una “Lega della Leghe” in Europa, che metta insieme tutti i movimenti liberi che vogliono difendere i propri confini e il benessere dei propri figli: è questo il futuro, pacifico e sorridente, cui stiamo lavorando. Noi abbatteremo il muro di Bruxelles».
Una commissione leghista
Sovranisti all’assalto di Bruxelles. Salvini vuole conquistare con gli amici sovranisti l’Europarlamento e piazzare nella nuova commissione europea un suo uomo. «Le Europee saranno un referendum fra l’Europa delle élite, delle banche, della finanza, dell’immigrazione e del precariato e l’Europa dei popoli e del lavoro. Il progetto consiste nel fare una alleanza internazionale dei populisti, che per me è un complimento. Penso che saremo maggioranza». Lo ha detto ieri a Pontida e due giorni fa ha precisato che chiederà un «commissario economico» del Lavoro. «L’Italia è contribuente netto e fino ad oggi non abbiamo avuto grandi vantaggi. Un errore dei governi passati - ha spiegato il vicepremier - è stato quello di scegliere come commissari ruoli non primari, dovremmo chiedere ruoli economici come commercio, concorrenza e lavoro. Abbiamo il ministro degli Esteri, ma con tutto il rispetto il ministro degli Esteri taglia i nastri».
Si realizzerà la profezia di Steve Bannon, che già l’aveva azzeccata negli Stati Uniti con Donald Trump?

La Stampa 2.7.18
Aggrediti in servizio due medici su tre
Pazienti esasperati dalle code record nei reparti di emergenza senza vigilanza. Al Sud l’80% degli operatori sanitari subisce scatti d’ira, botte e intimidazioni
di Giacomo Galeazzi 

qui

Corriere 2.7.18
La sentenza su via d’Amelio le motivazioni
Dall’agenda scomparsa ai falsi pentiti Il più grande depistaggio della Storia
di Giovanni Bianconi


I giudici e l’ultima verità sulla strage Borsellino. Chiesto il processo per tre poliziotti
I l mistero della morte di Paolo Borsellino si fa ancora più fitto guardando a ciò che accadde dopo la strage di via D’Amelio. La scomparsa dell’agenda rossa (dove probabilmente il magistrato aveva annotato ipotesi e sospetti sull’attentato a Giovanni Falcone e le trame mafiose che l’avevano pianificato e realizzato) e le successive dichiarazioni di falsi pentiti istruiti dalla polizia, sono fatti collegati tra loro e compongono «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana». Che deve avere un movente, forse connesso alle bombe esplose fra il 1992 e 1993, la stagione del terrorismo mafioso.
Così hanno scritto i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta che, nell’aprile 2017, ha decretato due condanne all’ergastolo nel quarto processo sulla strage del 19 luglio ‘92, e altre due per calunnia. Facendo in parte giustizia delle storture verificatesi nei giudizi precedenti, quando furono condannati degli innocenti proprio a causa del «depistaggio». A ventisei anni dall’eccidio, e dopo dieci di indagini avviate con le dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, che ammise la sua partecipazione all’attentato sconfessando le precedenti ricostruzioni, è la prima volta che una sentenza certifica la fabbricazione di prove false e l’occultamento (almeno parziale) della verità nelle inchieste degli anni Novanta.
È la storia del falso pentimento di Vincenzo Scarantino, piccolo malavitoso elevato al rango di boss che contribuì a una ricostruzione «minimalista» circoscrivendo i colpevoli a un nucleo di mafiosi (alcuni dei quali innocenti). Spalleggiato da alcuni poliziotti che non solo ne raccolsero le prime dichiarazioni ma poi lo aiutarono a confermarle e correggerle per renderle credibili nei successivi dibattimenti. Nonostante le contraddizioni e anomalie rilevate da pubblici ministeri come Ilda Boccassini e Roberto Saieva. «Una trama complessa — annota ora la Corte d’assise — che riuscì a trarre in inganno anche i giudici dei primi due processi».
L’anello di congiunzione tra i due principali momenti della trama — la scomparsa dell’agenda rossa, presumibilmente sottratta subito dopo l’esplosione della bomba da mani rimaste ignote, e le bugie di Scarantino — per gli ultimi giudici è Arnaldo La Barbera, esperto e stimato investigatore che all’epoca guidava la Squadra mobile di Palermo e in seguito salì molti gradini fino a diventare questore di Roma e responsabile dell’antiterrorismo. I giudici ne sottolineano «il ruolo fondamentale assunto nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia», e lo considerano «intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda». Tuttavia La Barbera, deceduto nel 2002, non ha mai potuto difendersi da sospetti e accuse che hanno preso corpo solo dopo la sua morte prematura.
Le indagini sulle responsabilità e il movente del depistaggio non si sono fermate, e la scorsa settimana la Procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio di tre poliziotti che parteciparono all’inchiesta muovendosi agli ordini di La Barbera: Mario Bo (posizione già archiviata e riaperta) , Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo. E la Corte d’assise nota che gli ulteriori accertamenti non possono prescindere sia dalle reali finalità dell’eliminazione di Borsellino (nemico storico di Cosa nostra, che però avrebbe deciso l’esecuzione della condanna a morte solo dopo «sondaggi con persone importanti appartenenti al mondo economico e politico», come disse un pentito considerato attendibile come Nino Giuffrè) sia dalle drammatiche confidenze dello stesso Borsellino alla moglie Agnese: «Il giorno prima di morire Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere; in precedenza mi disse testualmente che “c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello Stato”».
Così si ritorna al nocciolo della questione: i contatti tra pezzi di criminalità e di istituzioni che s’intravedono anche alla luce di questa sentenza, per un ipotetico patto occulto di complicità e reciproca copertura. La mafia uccide Borsellino per vendetta e per ciò che può scoprire dopo la morte di Falcone, dentro e fuori Cosa nostra; poi arriva qualcuno che fa sparire le tracce dei suoi sospetti (l’agenda rossa) e si adopera per chiudere il cerchio sui boss (alcuni dei quali individuati a tavolino), nel tentativo di ridurre i danni al minimo. Per tutti.

Corriere 2.7.18
La visione di Adriano Olivetti
Tecnologia e umanesimo nella città ideale del nostro Steve Jobs
di Aldo Cazzullo


Adriano Olivetti si pensava come un incrocio tra un principe rinascimentale e un educatore. Sognava e programmava insieme. Il riconoscimento dell’Unesco è un premio a lui e alla comunità che ha fondato.
Il quartiere di Ivrea in cui sorse l’Olivetti somiglia all’Addizione Erculea di Ferrara, il primo quartiere rinascimentale d’Italia e quindi del mondo: vie dritte, palazzi squadrati, prospettive razionali, come nella Città Ideale.
Padre ebreo, madre valdese, antifascista, Olivetti potrebbe sembrare anti-italiano. È invece uno dei protagonisti della Ricostruzione del nostro Paese: perché, accanto agli ingegneri, assume i migliori scrittori e intellettuali. Il suo segretario personale è Geno Pampaloni, raffinato critico letterario. Capo del personale è Paolo Volponi, che prima è stato responsabile dei servizi sociali dell’azienda: biblioteca da 150 mila volumi, centro studi, mostre, concerti, asili, mense, ambulatori. I colloqui ai neoassunti li fa Ottiero Ottieri, che nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli scrive un romanzo autobiografico, Donnarumma all’assalto, forse il miglior racconto della Ricostruzione che si fa boom economico. Ci sono Giovanni Giudici e Franco Fortini, l’urbanista Mario Astengo e i migliori talenti della giovane generazione: il sociologo Franco Ferrarotti, il finanziere Gianluigi Gabetti, il giornalista Nello Ajello; e un ragazzo torinese, Furio Colombo, che Adriano manda in America, dove ha comprato la più grande fabbrica di macchine da scrivere, la Underwood. Fonda anche un partito, Comunità; ma l’unico eletto in Parlamento è lui. Rinuncerà al seggio.
Il sogno di Olivetti è fare di Ivrea la capitale della cultura industriale italiana. Un progetto in cui far confluire cristianità e umanesimo, le scienze sociali e l’arte, la tecnologia e la bellezza. Sugli operai Fiat vigilano ex carabinieri; su quelli Olivetti vegliano i primi psicologi.
I suoi designer inventano oggetti tra i più belli del Novecento, come la mitica Lettera 22, la macchina da scrivere di Montanelli. Nel 1948 viene creato un gruppo di lavoro che metterà a punto una diavoleria mai vista in un ufficio italiano: la calcolatrice, battezzata Divisumma. Nasce la divisione elettronica: nel ’55 Adriano strappa Mario Tchou alla Columbia University di New York, e gli affianca gli scienziati dell’università di Pisa; ed ecco l’Olivetti Elea, il migliore «cervello elettronico» — la parola computer non è ancora entrata nel lessico italiano — del mondo.
Olivetti poteva essere il nostro Steve Jobs, e il Canavese la sua Silicon Valley; ma l’Italia era un Paese vinto, e non avrebbe mai potuto sostituire il Paese vincitore, l’America, nel guidare la corsa alla modernità. Adriano muore all’improvviso il 27 febbraio 1960, su un treno diretto a Losanna, in Svizzera, dove sta andando a chiedere prestiti per nuovi investimenti. Non ha ancora 59 anni, è in ottima salute. Si parla di emorragia cerebrale, ma l’autopsia non verrà mai effettuata.
Un anno dopo muore Mario Tchou: il suo autista perde il controllo sull’autostrada Milano-Torino, e si schianta contro un furgone. Le voci che già sono circolate in morte di Adriano prendono corpo. In molti a Ivrea sono tuttora convinti che l’ingegner Tchou sia stato assassinato, per favorire l’industria Usa. Ovviamente, prove non ce ne sono. E sarebbe comunque finita così, con l’egemonia americana ripristinata e i sogni di Adriano consegnati ai libri di storia. A ogni buon conto, la divisione elettronica dell’Olivetti viene venduta alla General Electric. A volte, però, la storia paga un piccolo risarcimento.

La Stampa 2.7.18
Non solo Via della Seta, la Cina finanzia 35 porti
L’Africa e l’Asia pagano i prestiti cedendo i moli
di Luigi Grassia


La Cina è in grandissima espansione nel settore dei porti, fondamentali per i suoi commerciali. Hanno suscitato attenzione l’ingresso dei capitali cinesi in vari porti europei come il Pireo (in Grecia) e in Italia Vado Ligure (Savona) oltre alle mire su Genova, Trieste e Monfalcone, come terminali della Nuova Via della Seta. Ma a parte questa strategia ad alta visibilità, Pechino ne ha un’altra, più discreta, che non consiste nel partecipare a quote di attività portuali già esistenti, ma nel concedere prestiti generosissimi a Paesi africani e asiatici per costruire ex novo dei porti dove c’è bisogno, o anche dove non c’è bisogno affatto; se poi questi investimenti si mostrano economicamente giustificati, bene, la Cina ne avrà un ritorno diretto, ma se invece queste infrastrutture non rendono (e in molti casi appare chiaro fin dall’inizio che si tratta di vuoti a perdere) bene lo stesso, perché Pechino si farà pagare chiedendo la proprietà di questi porti, o l’affitto gratuito per 99 anni, assieme alla cessione di vasti retroterra in cui realizzare impianti industriali.
Come garanzia preventiva Pechino concede prestiti solo a patto che i lavori per costruire i porti (a spese dei Paesi che li ospitano) siano affidati a imprese cinesi e a migliaia di lavoratori cinesi.
Uno studio della Scuola di studi internazionali della Johns Hopkins University cita i casi di 35 porti finanziati interamente o parzialmente da capitali cinesi (vedi la cartina in pagina), in massima parte in Africa e in Asia ma con incursioni anche in Paesi europei marginali, ai Caraibi e persino in Australia; in massima parte si tratta di controparti africane economicamente e politicamente fragilissime, ma anche quando a sedersi al tavolo sono Paesi più solidi come il Pakistan, il Bangladesh o Myanmar, si può dubitare che siano in grado di negoziare con i cinesi in condizioni di effettiva parità.
Alienazione all’85%
Il New York Times racconta in dettaglio il caso di Hambantota nello Sri Lanka, riguardo al quale la concessione ripetuta di prestiti da parte cinese per costruire un porto poco utile già sulla carta, perché doppione di quello della capitale Colombo, ha portato a realizzare un’infrastruttura incapace di attrarre flussi di traffico; l’atto finale è stata la cessione dell’85% di questo porto agli investitori cinesi, assieme a 15 mila acri di territorio circostante, in cambio di una cancellazione solo parziale del debito cumulato.
Sia chiaro: i Paesi occidentali non possono dare lezioni storiche e morali alla Cina in fatto di prestiti usati come strumenti di potere. Nell’età classica dell’imperialismo, fra l’Otto e il Novecento, la spirale del debito è stata uno dei mezzi con cui le potenze europee e gli Stati Uniti hanno imposto il dominio indiretto su Paesi che non controllavano militarmente: così hanno fatto per esempio la Gran Bretagna e gli Usa con l’America Latina, e così è stato fatto (in forma collettiva) dalle potenze occidentali nell’impero turco e nella stessa Cina. Anche l’attuale politica del Fondo monetario internazionale viene spesso criticata come falsa generosità, che in cambio della concessione di prestiti alla fine porta il Fondo a dettare legge a interi Paesi.
Riconosciute queste colpe occidentali, sottoporre a scrutinio anche la Cina è lecito.

Repubblica 2.7.18
Souvenir della mente
Una foto dopo l’altra così il ricordo si cancella
Presi dagli scatti con il telefonino non memorizziamo i dettagli reali E l’emotività sui social non aiuta
di Giuliano Aluffi


Se volete serbare un buon ricordo delle meraviglie viste in vacanza, tenetevi lontani il più possibile da Snapchat e Instagram.
L’uso dei social media può, infatti, ostacolare la formazione dei ricordi. Lo suggeriscono due psicologi dell’università della California di Santa Cruz che sul tema hanno firmato uno studio pubblicato sul Journal of Applied Research in Memory and Cognition. Il punto di partenza dei ricercatori, Julia Soares e Benjamin Storm, è stato indagare cosa accade quando sappiamo di poter evitare la fatica di memorizzare ciò che osserviamo, delegandola a un supporto permanente come le fotografie. È il cosiddetto effetto offloading (scaricamento) della memoria, quello per cui molti non saprebbero dire nemmeno il numero di telefono dei parenti più stretti, avendo sottomano 24 ore su 24 la rubrica del cellulare.
Nel primo dei due esperimenti descritti, a 42 studenti sono state mostrate alcune opere d’arte su uno schermo, in tre condizioni diverse: osservazione passiva dei quadri, scatto di una foto con lo smartphone, oppure foto presa con Snapchat per inviarla a un contatto. Dieci minuti dopo ogni prova, i partecipanti al test hanno compilato un questionario con 30 domande sui dettagli delle opere viste, come: “Nella Lezione di anatomia di Rembrandt, cosa sta tagliando l’istruttore con le forbici?”.
Risultato: la semplice osservazione dei quadri ha permesso la performance migliore (60 per cento di risposte giuste), mentre chi aveva scattato foto con l’app del cellulare ha dimostrato di avere una memoria meno solida (punteggio del 45 per cento), ancora più lacunosa nel caso delle foto scattate con Snapchat (35 per cento). Nel secondo esperimento Snapchat — che prevede fotografie temporanee, che vengono cancellate dallo stesso social network — è stato rimpiazzato dalla eliminazione manuale, da parte degli studenti, delle foto appena scattate. Anche da questo test è emersa una superiore capacità mnemonica di chi aveva osservato i dipinti (55 per cento di risposte giuste), rispetto a chi li aveva fotografati (meno della metà).
Lo studio ha dimostrato che l’effetto offloading può avere un ruolo, ma da solo non basta a spiegare tutto. Infatti, sia usando Snapchat, che rimuovendo manualmente la foto, si è consci che lo scatto in questione non sarà più disponibile in futuro, e quindi la funzione di supporto esterno alla memoria dello smartphone viene a mancare.
«L’ipotesi conclusiva dello studio, piuttosto sensata, è che sia l’atto stesso dello scattare fotografie — indipendentemente dal sapere di poterle consultare o meno in futuro — a disturbare la formazione del ricordo», spiega Gabriella Bottini, docente di neuropsicologia all’Università di Pavia. Per l’esperta «è vero che spesso demandiamo agli “strumenti-prolunga” diverse funzioni cerebrali, non solo la memoria ma anche l’orientamento spaziale, di cui il navigatore Gps può occuparsi al posto nostro. Però non demonizzerei le foto: in un museo scattare una foto a un dipinto che non abbiamo mai visto prima è un uso vantaggioso di questo strumento, un’estensione delle nostre capacità. E i dettagli di quadro non sono tutto: contano anche gli aspetti emotivi». Ed è proprio l’aspetto emotivo che potrebbe spiegare l’effetto “foto anti-ricordo” di Snapchat.
«I social network richiamano alla mente tutti gli aspetti emotivi legati alle amicizie — sottolinea Bottini — e ciò può distrarre e portare a una minore capacità di memorizzare uno stimolo».
Le fotografie non ruberanno l’anima, come temevano i nativi americani secondo l’antropologa Carolyn J. Marr, ma qualcosa al ricordo a quanto pare la sottraggono.

Repubblica 2.7.18
La fabbrica dei best seller
Aiuto, in classifica c’è un fantasma
Alcuni libri compaiono nelle graduatorie dei più venduti che compaiono in rete ancora prima di uscire
di Raffaella De Santis


Come è possibile che libri non ancora pubblicati vadano in classifica? Non bastano le top ten dei più venduti a inchiodare gli scrittori al metro della quantità e del successo commerciale. Da qualche tempo si assiste a uno strano fenomeno: libri fantasma, dei quali esiste solo la copertina che scalano le hit.
Sembra un giochetto di fanta- editoria ma è un’accurata strategia di marketing basata sui cosiddetti pre- order, vale a dire sulla possibilità di ordinare un libro prima che esca in libreria. È possibile farlo su Amazon e sugli altri siti di e- commerce, da Ibs a quello Feltrinelli o Mondadori. Come immaginabile i titoli più ambiti sono quelli dei bestselleristi e delle star del web.
Provate ad andare sul sito di Amazon e cercate la classifica delle novità più vendute. È in continuo mutamento, aggiornata ogni ora, ma ci sono sempre alcuni titoli- spettro. Da un po’ di giorni svetta Disperata & felice di Julia Elle ( Mondadori, uscirà domani). Il diario della mamma reginetta dei social è tra i primi dieci della classifica libri di Amazon. Su Ibs è primo. Julia Elle, blogger che su Instagram conta 122 mila follower, contende il primato dei pre- order del passato a Harry Potter e la maledizione dell’erede e ai libri di Zerocalcare. Era successo lo
stesso qualche mese fa con la biografia Una di voi di Iris Ferrari ( Mondadori Electa), teenager acqua e sapone esplosa su Musical. it e su You Tube, dove colleziona 390 mila iscritti al suo canale. In classifica sono finiti anche Selvaggia Lucarelli (Casi umani, Rizzoli, in libreria da domani) e Abbi Glines ( Quando tutto cambia, Mondadori, uscita prevista il 10 luglio), un tripudio melodrammatico di adolescenti belli e radiosi su cui si abbatte la disgrazia di un incidente ( posto 146). Il fantasy Rizzoli La prescelta di J. R Ward, adatto a chi ama vampiri e scie di sangue, ha scavallato intanto la cinquantesima posizione ( sarà pubblicato domani), mentre il giallo di James Rollins La nave fantasma ( Nord edizioni, uscita il 5 luglio) è già ventiduesimo tra i noir. E hanno appena iniziato la scalata i vecchietti del Bar Lume di Marco Malvaldi: prima della pubblicazione A bocce ferme ( Sellerio, 5 luglio) era già tra i primi cento.
Ma chi decide quali libri mandare in pre- order? Pesano le strategie di marketing, come spiega Filippo Guglielmone direttore commerciale Libri Trade Mondadori: «L’editore offre il pre- order a tutte le piattaforme online, non solo ad Amazon. In un secondo momento informa il pubblico della prossima uscita dei libri, selezionando alcuni titoli che vuole lanciare sui social » . Su Amazon esistono perfino recensioni di libri non usciti: « La piattaforma mette a disposizione degli editori un servizio Amazon per dare ad alcuni clienti selezionati la possibilità di leggere in anteprima il libro. Un po’ come accade con le copie staffetta per i librai » .
Le classifiche creano aspettative, contribuendo ad ungere chi già è nel circuito. È il mercato che si autoalimenta.
Giuliano Vigini, tra i più importanti esperti di libri ed editoria, spiega che il bestseller non incide tanto sul totale del fatturato di un editore ma ne rafforza il marchio: « Fa pubblicità, funziona come incentivo e spinge i librai ad acquistare più copie. Genera un gigantesco carosello di fuochi d’artificio, un’onda mediatica che spinge a parlare del libro » .
Funziona talmente bene che anche un indipendente spesso critico verso Amazon come Sandro Ferri di e/ o dice che le classifiche su Amazon sono uno « strumento interessante di marketing » . Più sospettoso Alberto Galla, presidente dell’Associazione Librai Italiani ( Ali): « Non può non esserci lo zampino degli uffici marketing delle case editrici » .
Per finire nella top ten in queste magre stagioni di vendite al ribasso possono bastare tremila copie vendute, ma non essere in quella lista dei desideri genera ansia. La sindrome da classifica è contagiosa. Giuseppe Culicchia nel suo E così vorresti fare lo scrittore ci ironizza: « La Sdc si manifesta sempre il sabato o la domenica , ovvero quando escono le classifiche sui giornali… » . Inevitabile che i sintomi ( « ira funesta, depressione molesta e paranoia manifesta» ) aumentino da quando le hit si sono moltiplicate in Rete.

Repubblica 2.7.18
Dopo lo scandalo Nobel
Consenso sessuale La nuova severissima legge della Svezia
di  Andrea Tarquini


BERLINO, GERMANIA Se fate l’amore in Svezia, date da oggi garanzie precise e inconfutabili di reciproco consenso. Ogni atto sessuale compiuto senza prova netta di consenso di entrambi i partner della coppia, anche senza minaccia di stupro o molestie, diventa reato penale. E se cadete in mano alla giustizia o alla polizia svedesi in un caso del genere, non sperate di cavarvela.
La legge in merito, approvata a larga maggioranza settimane fa dal Riksdag (il Parlamento reale), adesso è in vigore. È arrivata, come legge forse tra le più radicali del mondo in materia, sul’onda lunga dello scandalo globale #metoo e sulle sue propaggini svedesi. Propaggini le quali hanno scosso il mondo del cinema e del teatro chiamando in causa persino a posteriori il grande maestro Ingmar Bergman con denunce e racconti che continuano. Sia soprattutto l’Accademia del Nobel. La quale a causa degli scandali di molestie e pressioni sessuali è stata recentemente investita da dimissioni a raffica. Per cui quest’anno, caso eccezionale, il Nobel per la Letteratura non è stato conferito.
«Da oggi in poi i giudici e gli agenti cui verranno sporte denunce dovranno ben verificare se il sì all’atto sessuale sia stato chiaramente, inequivocabilmente espresso con parole esplicite, gesti o altri segnali inequivocabili», spiega la giudice Anna Hannell.
Contemporaneamente il governo di sinistra uscente (si vota il 9 settembre) ha deciso di allocare una somma pari a 11,5 milioni di euro per la lotta contro ogni tipo di molestie sessuali. «È un segnale decisivo”, ha detto alla radio pubblica SverigesRadio Emil Gustavsson, leader dell’associazione “uomini per la gender equality”. Ha aggiunto: «Proprio da noi nella Svezia ritenuta ai vertici mondiali dell’uguaglianza donna-uomo è necessario passare ai fatti».
Secondo Ida Östensson leader della fondazione Make equal, «finalmente abbiamo una legislazione che protegge nei fatti l’integrità fisica e sessuale».